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La specie narrante

Autore

Giuseppe O. Longo
Giuseppe O. Longo, è professore Emerito presso l’Università degli Studi di Trieste. Matematico e teorico dell’informazione. E’ autore di molteplici saggi scientifici, pieces teatrali e romanzi.

L’infinito narrare

Tutto quello che io narro è perché la parola non cessi di circolare;
se la parola non circola l’uomo muore.
Cacciatore cieco Dogon

Da dove vengono, allora, il piacere o la coazione degli uomini
a raccontare storie?
Peter Bichsel

La narrazione rivela il significato senza commettere l’errore
di definirlo.
Hannah Arendt

È perché possiamo raccontare storie che l’esistenza vale
ancora la pena di essere vissuta.
George Steiner

Raccontare storie è un’attività tipicamente umana, e gli umani non possono fare a meno di esercitarla. Nel racconto l’evento narrato si trasforma, i protagonisti sono trasfigurati, certi particolari sono omessi, altri sono esaltati o aggiunti. Da sempre gli uomini narrano e si narrano. Proprio all’inizio della nostra civiltà si stagliano racconti vasti e sublimi. Nell’Iliade, che è uno dei più famosi, il processo di trasfigurazione è esemplare: gli uomini diventano eroi, re e regine sono saggi, prudenti e illuminati, le donne sono tutte di bellezza smagliante. Troia, un villaggio circondato da un modesto vallo, diventa un’opulenta città dalle mura altissime e splendenti.

Gli esseri umani raccontano e si raccontano per trovare un’immagine del sé, per trovare il senso del mondo e della loro presenza nel mondo. I racconti contribuiscono potentemente alla formazione della nostra identità personale. Ciascuno di noi non fa altro che raccontarsi interminabilmente una storia di sé stesso nel mondo.

Questo incessante racconto, che si svolga nel foro interiore o esca da noi per andare incontro all’altro, ha quindi un duplice effetto: il primo è quello di costruire un’immagine semplificata del mondo rumoroso e multicolore dentro il quale siamo scaraventati alla nascita. È una questione di sopravvivenza, perché soltanto adottando un modello semplificato del mondo possiamo esorcizzarne la smisurata complicatezza. E poiché la narrazione ha bisogno di una lingua, è la lingua che (ri)costruisce il mondo. Quando scompare una lingua, scompare un (‘immagine del) mondo.

In secondo luogo, la narrazione tende a costruire una rappresentazione coerente e stabile del nostro sé: impresa destinata a un continuo aggiornamento, perché il sé è mutevole e ambiguo, molteplice e sfuggente, e tuttavia quell’assidua opera di identificazione viene sempre ripresa perché è indispensabile. Ciascuno di noi ha bisogno di offrire a sé e agli altri un’immagine solida e unitaria, quell’immagine che si riassume nel pronome personale “io” e che costituisce il protagonista dei nostri ricordi e l’attore dei nostri progetti.

C’è forse anche un altro motivo per narrare e ascoltare storie: abbiamo una sola vita, e ne vorremmo tante. Per superare questo limite invalicabile, o averne almeno l’illusione, ci immedesimiamo nelle vite alternative create dalla narrazione. Pur sapendo, in qualche recesso della coscienza, che si tratta di “finzioni”, vogliamo viverle come verità, sia pure effimere: vogliamo per un po’ abitare quei mondi che non ci sono dati. E la vita narrata cancella, almeno per un tratto, la vita reale.

Il bisogno di raccontare si manifesta nella folla di narrazioni in cui siamo immersi. Per chi abbia subito un lutto, un tradimento, per chi patisca una tribolazione o viva un entusiasmo, il racconto rappresenta uno sfogo e un alleggerimento. “Perché parlando il duol si disacerba”, scrisse Petrarca, che per lenire il suo dolore e dare sfogo al suo anelito amoroso, li narrò infinitamente in versi. Ed Eschilo: “Non sai dunque, Prometeo, che i discorsi / farmachi sono all’anima malata?” E che dire di Proust, che dilatò il tempo vissuto in un racconto senza limiti? Per chi ascolta, il racconto è un momento importante di trasfigurazione tra sé e l’Altro, in cui si manifesta un’ambiguità essenziale fra estraniamento e partecipazione, fra dimenticarsi e ritrovarsi, un momento in cui l’isolamento, fonte di dolore esistenziale, si rompe per aprirsi alla comunicazione-comunione. Alcuni terapeuti consigliano, e non solo ai bambini, di “curarsi con le fiabe”, e del resto molti tentano di curare le ferite dell’anima scrivendo le proprie memorie, tentando di recuperare il filo e il senso della propria vita. Ma c’è di più: fin dall’inizio la comunicazione verbale ha contribuito a costituire l’intelligenza

collettiva, che unisce le menti dei singoli, consentendo al gruppo di concepire e intraprendere azioni coordinate in vista della caccia o del combattimento.

La parola

Non hai mai pensato che tutte le cose che per legge abbiamo imparato essere ottime,
e per le quali sappiamo vivere, tutte le abbiamo imparate per mezzo della favella;
e che i valenti maestri più d’ogni altra cosa si valgono del parlare?
Senofonte, Detti memorabili di Socrate

Più si fa intensa la pressione del pensiero, più il linguaggio che la contiene oppone
resistenza.
Il linguaggio, per così dire, si ribella all’ideale monocromo della verità.
George Steiner

La cosiddetta realtà non è altro che una semplificazione grossolana delle nostre supposizioni.
Hermann Broch

La parola ha davvero un effetto portentoso, direi magico, capace com’è di trasportarci nel tempo e nello spazio, di dare espressione ai nostri pensieri o addirittura di aiutarci a formarli, perché il rapporto tra parola e pensiero è vicendevole e coinvolgente. Ecco perché le parole sono importanti: sono il veicolo espressivo e comunicativo tra noi e gli altri e prim’ancora tra noi e noi stessi. Pur non essendo il linguaggio verbale l’unico mezzo di comunicazione, esso è forse, nella civiltà occidentale come si è sviluppata finora, il più importante.

La parola cuce e ricama, tesse una rete elastica e resistente che ci avvolge e ci sostiene nei nostri rapporti sociali, consentendoci, per quanto possibile, di entrare nel cuore e nella mente dell’altro. E tutta la civiltà occidentale, dal Verbo al Logos, si è sviluppata all’insegna di questo strumento tipicamente umano, che fin dal suo apparire ha trasformato e plasmato la comunicazione e ha, oserei dire, avvampato le strutture cerebrali: l’animale che parla vede il mondo in modo diverso, riesce a svincolarsi dalla materialità quotidiana per elevarsi alle vette della speculazione filosofica, della creazione poetica, delle teorie scientifiche, dei misteri teologici. Della parola noi siamo anche prigionieri: come diceva il grande fisico Niels Bohr, la fisica non ha a che fare con la realtà, ma con ciò che possiamo dire della realtà.

Diaframma insuperabile, dunque, la parola, insieme sostegno e carcere, ma un carcere che amiamo come la madre che ci ha custodito in grembo per nove mesi, trasmettendo dal suo corpo al nostro i suoni e la musica del suo parlare: per il bambino

ancora non nato, la madre suona come una cattedrale e non per nulla si dice “lingua materna” o “madrelingua”, trasferendo alla lingua la propensione all’accudimento, all’amore e alla tenerezza tipica della madre.

Oggi tuttavia sembra che questa millenaria alleanza tra l’uomo e la parola sia entrata in crisi. La lingua è un organismo vivente, quindi in continua trasformazione, ma la tensione cui è sottoposta oggi (parlo in particolare dell’italiano) appare fortissima, lacerante, sembra non consentire adattamenti e il tessuto cicatriziale che via via si forma è squarciato di continuo dai traumi innovativi fomentati dalla tecnologia.

Nota
Questo articolo è tratto da “Raccontami una storia”, comparso in Luoghi dell’infinito, n. 243, ottobre 2019, pp. 24-26.

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