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Oltre la pena. L’incontro oltre l’offesa.

Autore

Rosario Iaccarino
Rosario Iaccarino, nato a Napoli nel 1960, dal 1982 al 1987 ha lavorato come operaio presso la SIRAM, assumendo l’incarico di delegato sindacale della Fim Cisl; nel 1987 è entrato a far parte dello staff della Fim Cisl nazionale, prima come Responsabile dell’Ufficio Stampa e dal 2003 come Responsabile della Formazione sindacale. Cura i rapporti con le Università e con l’Associazionismo culturale e sociale con i quali la Fim Cisl è partner nei diversi progetti. Giornalista pubblicista dal 1990. È direttore responsabile della rivista Appunti di cultura e politica. E’ componente del Comitato Direttivo e del Comitato Scientifico dell’Associazione NExT (Nuova Economia per Tutti).

Intervista a Ivo Lizzola, docente di Pedagogia sociale e di Pedagogia della marginalità e della devianza presso l’Università degli Studi di Bergamo. 

In un contesto culturale e politico come quello italiano, segnato da rigurgiti giustizialisti, pubblicare un libro dal titolo “Oltre la pena. L’incontro oltre l’offesa” (Castelvecchi Editore, ndr), è senza dubbio una scelta coraggiosa. Lei stesso, professor Lizzola, parla del suo libro come di un procedere “controvento”.  Eppure la pena richiama la condizione precaria della nostra esistenza, e lei ci invita ad occuparcene. Quali sono i risvolti simbolici di questo tema che vanno oltre le mura di un carcere? 

La pena è una delle condizioni dell’umano che attraversiamo tutti; la pena è dell’umano, e infatti ci diciamo se vale la pena. Ho incontrato molti adolescenti e adulti che si chiedono se vale la pena di vivere, perchè c’è una pena del vivere. Paul Ricoeur dice che la vita è una sorta di necessità di esistere:  non si da gioiosamente, ne è sempre piena di senso, a volte è proprio fatica. E’ una sorta di imposizione: i giorni ti arrivano e tu devi starci dentro, scegliendo di vivere, dicendo il tuo sì alla vita. Ricoeur  parla della pena faticosa, del senso di vuoto e allo stesso tempo del bisogno profondo di senso, di riapertura delle relazioni, degli orizzonti: quando questi non si danno, nella vita di tanti, la pena diventa insostenibile. La questione è come rendere sostenibile la pena del vivere al punto che valga, cioè che sia dedizione, valore, dedicazione a questa insuperabile pesantezza del vivere – come avrebbe detto Simone Weil – una fatica che ti accompagna sempre, che però può non avere – pur essendo un necessario attraversamento – l’ultima parola. La pena può essere il luogo di un attraversamento. Andare oltre la pena è proprio il pensare che la pena, come la colpa, siano attraversabili, che sia possibile un passaggio oltre. Non una risoluzione facile, non una cancellazione: è il capire chi si diventa durante questo attraversamento, quali donne e uomini si diventa, che avventure uniche possiamo diventare grazie a questo attraversamento. All’inizio del libro non faccio distinzione tra la pena giudiziaria subita e la pena arrecata ad altri, perchè questo è un punto di incrocio delicatissimo e anche dolorosissimo. 

La pena segna per un detenuto in carcere la perdita dell’innocenza. Nel suo libro c’è in proposito un passaggio assai significativo, quando ripropone un dialogo tra una giovane ragazza ristretta e una giovane psicologa precaria, nel quale la prima afferma che “per delinquere non devi fregartene dell’altro, devi neutralizzarlo, o disprezzarlo”, e la seconda risponde: “a volte anche per competere, prevalere e fare carriera”. Questo dialogo lascia intendere che la perdita dell’innocenza riguarda ciascuno di noi e le nostre relazioni con l’altro. 

Noi siamo donne e uomini che hanno perso l’innocenza, non siamo innocenti. E il pensare, come fa il senso comune giustizialista, che il colpevole, l’autore di reato, sia appunto il colpevole , ha come rimbalzo sulla società e su di noi un effetto di giustificazione, di purificazione, perchè nel confronto, la nostra non innocenza, è tutto sommato banale, superficiale. Non è così! Tutta la nostra convivenza è segnata da comportamenti di donne e uomini non innocenti; e su questo abbiamo addirittura costruito strutture di ingiustizia e di dis-equità. Un Papa tempo fa le ha chiamate strutture di peccato, ma non dobbiamo andare dietro a questa deriva altrimenti ricollochiamo il tema della pena e della colpa dentro un’espiazione-punizione che invece dobbiamo neutralizzare come ha fatto l’Illuminismo quando ha ripensato la pena il carcere e la giustizia. Ne parla Ricouer ne Il diritto di punire. C’è il diritto di punire, ma deve essere una condizione non violenta, che deve segnare la distanza e la differenza rispetto alla logica che ha portato al reato. Il tema della riconciliazione è profondamente legato a un’offerta e a una dedizione reciproca nella relazione umana, è una grande questione che riguarda la società e la convivenza, dalle relazioni micro a quelle macro dei grandi sistemi dell’economia, del diritto, delle relazioni internazionali. Allora la questione diventa: come facciamo a tracciare degli itinerari oltre la pena tra donne e uomini non innocenti? Perchè la non innocenza può essere un terreno dal quale si cerca di evadere, con i meccanismi – studiati da psicologi come Bandura, Caprara e altri – del disimpegno morale: la minimizzazione della tua colpa, la costruzione del nemico, la colpa dell’altro. Questa strada porta a relazioni rincrudite e giudicanti; devi continuamente reiterare il giudizio e la falsificazione; l’altra strada è più umile, è fatta di corpi, di storie, di umiltà, quella della terra. Accettare la non innocenza è pensare che tra noi siano necessari l’esposizione e il perdono, ma il per-dono col trattino. 

Perdono è una parola abusata e banalizzata, e cinicamente spettacolarizzata dai media quando in occasione di eventi violenti e tragici, arriva puntualmente ai congiunti delle vittime la domanda se sono disponibili a perdonare i responsabili Lei dice che questa parola va scritta con il trattino tra per e dono, perché, quale significato assume? 

La parola perdono senza il trattino tra per e dono sembra una scorciatoia e diventa, come dice Agnese Moro, una parola scivolosa. Dire invece per-dono significa provare a  metterci in un gioco di possibile fiducia e di esposizione non violenta in maniera reciproca. Basta pensare come quest’anno di Covid ci ha fatto scoprire il fondo oscuro delle paure e della voglia di distanziamento, di autoassicurazione e di protezione per sè e di sospetto verso l’altro, insomma, non il meglio di noi. E allo stesso tempo però e nelle stesse persone, nei rapporti di vicinato e in quelli familiari sentivamo comunque emergere dentro di noi, con altrettanta forza, quel desiderio di prossimità, di senso della cura, di generoso offrirsi ad altri anche rischiando un poco. Le stesse persone hanno scoperto che nel loro fondo tengono dentro entrambe queste cose, in continua tensione tra loro, una tensione che a volte ha portato a non esporsi, a non lasciarsi troppo andare, altre volte no. In questo movimento tutti ci siamo trovati ad essere non innocenti. Se noi accettassimo questa condizione e lavorassimo su queste parti di noi e ci aiutassimo gli uni gli altri a lavorare su questo, costruiremmo una sorta di evidenza della tenuta del nostro convivere, grazie alla fraternità. L’enciclica Fratelli Tutti di Papa Francesco raccorda il tema della giustizia con quello del lavoro sulla cultura e sull’incontro,  affinché si faccia cultura responsabile: è un lavoro sull’interiorità. L’aveva già scritto Edgar Morin in un libro intitolato Fraternità perchè?,  nel quale afferma che dovremmo costruire delle piccole Arche di Noè di fraternità per attraversare un tempo che qualcuno avrà la percezione che sia quasi un diluvio. Ma poi  – aggiunge – speriamo non sia così e che non ci sia bisogno di piccole Arche di Noè della fraternità, ma che bastino delle oasi di fraternità. 

Le oasi della fraternità richiamano una pratica centrale nell’attività educativa che da oltre vent’anni lei svolgall’interno degli Istituti di pena: la creazione della “zona franca”. E’ come se negli incontri tra detenuti e cittadini liberi andasse in scena un gioco simbolico tra non innocenti, che serve a chi ha ferito l’altro per tornarvi in contatto e per riconoscerlo, e all’altro, non solo nei panni della vittima, per riconoscere le sue responsabilità rispetto a una comunità civile incapace di includere, e spesso generatrice, a partire dalla famiglia, di una violenza che condiziona l’esistenza di alcuni sin dall’infanzia. 

Pensare il carcere come zona franca è pensarlo come un “luogo del possibile”, che è esattamente il contrario del luogo dell’impossibilità della restrizione e del rattrappimento inaridito delle vite. Dentro le pratiche del possibile i detenuti possono incontrare la percezione e la storia di donne e di uomini di altri luoghi in cui il “possibile” si può dare al di là di quella necessità violenta e chiusa che hanno incontrato nell’infanzia e nella pre-adolescenza. Sono stato più volte nell’Istituto Penale Minorile di Nisida, vicino Napoli. In quel luogo adulti, giovani e adolescenti si incontrano, anche in modo durissimo, ma  costruiscono insieme storie di responsabilità, di pena e di cura. I ragazzi e le ragazze che hanno sempre disegnato la loro vita sotto il segno della forza nella violenza, scoprono che ci sono vite e possibilità di vivere le passioni e le pulsioni interiori nella forma della forza tenera, responsabile, non violenta, e della cura in condizioni difficili. Scoprono i  “possibili” grazie alla pena incontrata in altri, coloro che la vivono ingiustamente sui loro corpi, come i disabili, gli anziani non  autosufficienti, le persone ridotte in miseria o sottoposte a ingiustizie gravi. Ciascuno di quei ragazzi, messo li davanti, può usare la sua forza per alleviare la loro pena e costruire itinerari per loro. In quel momento tu ti rendi conto anche di quello che hai fatto, e che ormai è fatto, duramente: è pena! Far fare queste esperienze ai minori vuol dire accompagnarli nella sofferenza della consapevolezza dei gesti fatti, una sofferenza che diventa sostenibile perchè in quell’accompagnamento maturano la convinzione che un loro “possibile” è in gioco e può essere giocato. Se la pena viene costruita in questo modo, ha già in sè un portato di riparazione e di rigenerazione dei legami. Non ho mai condiviso la contrapposizione tra giustizia penale e giustizia riparativa.  

La giustizia riparativa, che matura nell’incontro e nella mediazione, nel suo approccio deve combinarsi insieme a quella giudiziaria, che riguarda il processo, e a quella riabilitativa, che riguarda il reinserimento sociale del detenuto. Le tre aree – lei afferma – non sono separabili rispetto “alle scelte e ai percorsi del lavoro della giustizia”. 

No, non sono separabili. Prima di tutto però bisogna stare attenti affinchè non si torni indietro sul diritto penale, perché le strade non sono mai percorse una volta per tutte. Ci sono però anche delle buone notizie, come quella arrivata inaspettatamente nelle scorse settimane, e cioè che negli USA, in Virginia, è stata abolita la pena di morte. La giustizia riparativa è una pratica antica. Nei dibattiti se ne parla, se n’è parlato anche qualche anno fa negli Stati Generali del Ministero della Giustizia. Si tratta di un passaggio culturale molto importante. Come dice Ricoeur, una società ha il diritto di punire se nel punire è capace di dare il segnale di un modo di relazionarsi radicalmente alternativo a quello segnato dal reale: quindi niente falsificazione, niente violenza, niente sopraffazione, né presa sull’altro, ma un modo intelligente di costruire la pena che è punizione, ma che richiami in maniera forte le consapevolezze e le responsabilità. Per realizzare tutto ciò abbiamo bisogno di una società ricca di luoghi di ricostruzione del legame. Quando io richiamo, attraverso il giudizio penale, quelle norme, dovrei avere come ritorno anche la domanda: ma la forma di convivenza che stiamo istituendo, le forme dei comportamenti che tolleriamo o promuoviamo sul piano sociale, economico e del confronto culturale e dell’uso dei linguaggi e della comunicazione, sono all’altezza, cioè – come direbbe Ricoeur – mi danno il diritto di punire? E’ il tema della verità, della giustizia e delle relazioni. La giustizia penale non è sganciata dalla giustizia sociale, hanno un legame profondo, ma proprio per questo la giustizia penale è solo una transizione, un passaggio, rispetto alla ricostruzione di una giustizia più grande. Che riporti in gioco le vittime in un gioco di fiducia e di relazione, di riconoscimento della loro dignità, e di richiamo a loro, poi, di giocarsi anche in responsabilità. 

La questione delle vittime è delicata e non è secondaria all’interno di una riflessione sulla giustiziaed ha anche un impatto emotivo forte nell’opinione pubblica.  Qual è il suo punto di vista? 

Come scrivo nel libro, la vittima è vittima non è innocente; certo di vittime innocenti ce ne sono tante, e tra queste vi sono i bambini. Tuttavia, le vittime dobbiamo considerarle vittime solo per un momento, e il più presto possibile dobbiamo rimetterle in un gioco nel quale non abbiano più al centro della loro identità l’essere state vittime, sennò le vittimizziamo continuamente, ed è un disastro. Voglio dire che se le vittime le consideriamo solo un soggetto di diritti, non facciamo il loro bene; certo se non li hanno dobbiamo farne soggetto di diritti, innanzitutto, ma bisogna prevedere anche un itinerario che vada oltre. Il diritto penale scommette sulla persona che ha commesso un reato, più di quanto lei scommetta su sé stessa, e nella forma della pena deve puntare alla rieducazione e alla risocializzazione nella cosiddetta logica trattamentale: sono bruttissimi termini, anche se rinviano a un linguaggio serio, ma spesso vengono utilizzati nell’ottica della responsabilità del colpevole, come se la società non dovesse cambiare anch’essa. La scuola in carcere ha un grande valore; ricordo un detenuto con le lacrime agli occhi che chiedeva di uscire dall’aula dopo la lettura della poesia di Pascoli, Cavallina storna. La poesia l’aveva trafitto, perché leggendola aveva rivisto la sua storia difficile: la sua sofferenza subita da piccolo, e arrecata ad altri, da grande. Nella scuola in carcere, l’orizzonte dei pensieri, dei saperi, dei racconti, delle competenze riporta sempre alla propria biografia. La scuola aiuta a reinterpretare i gesti, le condizioni di vita, ma diventa anche una responsabilità; la scuola da un sapere che è un dovere, perché ti obbliga, ti impegna, facendo emergere il tema riparativo. La concentrazione reocentrica di molto volontariato penitenziario comincia a  preoccuparmi perché bisogna avere il coraggio di essere presenza esigente a nome anche delle vittime, disegnando, nel percorso, la necessità e la possibilità di costruire legami con il mondo dei fragili, delle vittime, anche se non sono le tue vittime, e in questi casi basta anche un gesto simbolico. Quando funziona bene un carcere, un’esecuzione penale, ti da gli strumenti che portano nella dimensione riparativa, delle ricostruzioni dei legami.  

Si comprende leggendo il suo libro che il carcere ha bisogno, per ridisegnare le biografie individuali, dell’incontro  tra  detenuti e cittadini liberi, per comporre  – come lei richiama – “gruppi per riparare legami” nella cornice di quello che Michel Focault  definiva “Il coraggio della verità”.  

Da tempo stiamo facendo dei circles riparativi in alcune città lombarde, ai quali partecipano detenuti dimittendi, che già sono all’esterno o in comunità o affidati ai servizi. Qualche volta quando maturano le condizioni in questi circles riparativi facciamo incrociare gli autori di reato con le loro vittime. A me è capitato in due casi, alla fine di un lungo delicatissimo e silenzioso percorso, accompagnati da persone competenti, da facilitatori, dalle vittime ma anche da cittadini, che gli autori di reato abbiano detto di essersi resi conto di ciò che avevano fatto grazie a questo itinerario. Parliamo di persone che avevano scontato 12 e 8 anni di carcere, che erano stati seguiti da psicologi, che in carcere avevano incontrato gli educatori, il personale sanitario, gli insegnanti della scuola, che avevano fatto formazione professionale; tuttavia la consapevolezza di ciò che avevano compiuto l’avevano maturata solo alla fine o dopo aver saldato i conti con la giustizia. “Ciò che avevo fatto era avvenuto per delle dinamiche inevitabili, un pò casualmente e un pò per necessità”, cosi mi ha detto uno dei due: “ho capito invece che c’ero dentro io: ossia non era stato, ma c’ero stato, avevo voluto”. Questo è lo snodo che ti porta dentro l’orizzonte ripartivo, perché a quel punto hai un debito, e quindi anche una possibile destinazione buona dei tuoi gesti. La vicenda di  Sergio Cusani, l’imputato simbolo di Mani Pulite, è eloquente: quest’uomo è stato capace delle malversazioni e falsificazioni più grandi e poi di una conversione della sua storia di vita in appoggio a progetti di economia sociale e civile; di questa conversione ne parla come di una grazia ricevuta, come della grande fortuna della sua vita, cioè di aver potuto ridare senso a quelle competenze che prima aveva usato nel modo sbagliato. 

Saldare i conti con la giustizia rimette al centro la questione del debito. Anche in questo caso ci arriva una sollecitazione sul  come stare al mondo. Vivere consapevolmente la pena contenuta nell’esistenza di ciascuno di noi può aiutarci a riconoscerci non innocenti e perciò a superare quella logica mercantile che abita le relazioni e finalmente a farci carico dell’altro e dell’intersoggettività che ci costituisce. E’ così? 

Scoprire che la dimensione del debito è una dimensione costitutiva della vita aiuta ad uscire dalla logica dello scambio e del contraccambio, che è tipica della giustizia restitutiva, che pensa di poter restituire qualcosa rispetto al male che è stato fatto. Non potremo mai misurare il male; non c’è, di fronte  alle ferite, ai timori, alle delusioni procurate, una quantità possibile di pena corrispondente alla quantità di un danno. E’ un illusione. L’idea dello scambio è molto mercantile, troppo moderna. Ci si deve invece scoprire come portatori di un debito, di una riconoscenza, ma anche di una forza di destinazione possibile. La pena dovrebbe portare a scoprire “l’essere di debito che noi siamo, l’essere di gratitudine che noi siamo”, e il nostro essere generatori. Da uomini e donne non innocenti, non perfetti, noi possiamo generare, come abbiamo mostrato nelle quotidianità del Covid, malgrado le nostre contraddizioni. E’ importante scoprire l’ingiustizia, anche quella non imputabile a noi, come qualcosa che ci riguarda. Nell’Istituto Penale Minorile di Milano abbiamo coinvolto i ragazzi ristretti dentro un progetto con bambini disabili, impegnandoli in un percorso che li ha fatti sentire portatori di una responsabilità verso la disabilità di questi bambine e bambini. Certo non era qualcosa di imputabile a loro, eppure sono arrivati, grazie ai percorsi educativi svolti, a sentirla questa responsabilità. 

Nei gruppi, nei cammini percorsi, un tratto comune è stato quello della scoperta del bisogno di scoprire la verità di storie buone, di narrazioni umane che ci parlino di noi, delle cose belle e buone che ci abitano. Uomini e donne come esseri narranti che si trovano nella tessitura dei giorni che salvano pezzi di vita e racconti restai nascosti, interrotti, negati nella sfiducia. 

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