Accompagniamo il futuro

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Andrea Donegà
Andrea Donegà, nato a Como il 26 novembre 1981, e residente a Senna Comasco, convive con Francesca ed è papà di Samuele, Tommaso e Carlotta. Da marzo 2021 si occupa, per la Cisl Lombardia, di politiche migratorie e giovanili, incarico arrivato dopo 3 anni da Segretario Generale della Fim Cisl Lombardia. Laureato in Sociologia, lavora per qualche tempo con contratti precari e successivamente come educatore, sulla spinta delle diverse esperienze di volontariato, con l’associazione di don Gino Rigoldi, negli orfanotrofi della Romania con i bambini abbandonati. L'impegno sociale, sviluppato in quegli anni, diventa lo stimolo per iniziare nel 2007 l'avventura sindacale nell’allora Cisl di Como (oggi Cisl dei Laghi dopo l’unione con la Cisl di Varese) che stava aprendo le porte a giovani provenienti dall’associazionismo e da percorsi scolastici, occupandosi prima di Inas (patronato) e Anolf (sportello migranti) e poi di lavoratori atipici. Nell'aprile del 2010 passa alla Fim Cisl di Bergamo dove, dal dicembre 2014, è componente della segreteria provinciale. Da marzo 2015 a dicembre 2017 ha ricoperto anche il ruolo di Coordinatore nazionale dei Giovani Fim Cisl con i quali ha organizzato tre campi scuola-lavoro nei terreni confiscati alla camorra nel casertano, con i giovani delegati metalmeccanici. Il 16 dicembre 2015 viene eletto nella Segreteria Regionale della Fim Cisl Lombardia struttura di cui, appunto, è Segretario Generale dal 27 novembre 2017 al 15 febbraio 2021. Da quella data si occupa di politiche migratorie e giovanili per la Cisl lombarda.

Come spesso sentiamo dire, siamo alla vigilia di tre cambiamenti epocali: demografico, ambientale e tecnologico. Anzi, siamo già nel “tubo” di queste svolte senza precedenti, peraltro collegate una all’altra. Come ne usciremo dipenderà in gran parte da noi, da quali politiche riusciremo a mettere in atto e da quanta responsabilità, individuale e collettiva, sapremo generare. La pandemia, che stiamo ancora vivendo e subendo, è stata, ed è tuttora, il peggiore esempio su come gestire le sfide e le incognite del futuro. Gli scienziati, infatti, da tempo, avevano avvertito sul rischio concreto dello scatenarsi di una nuova epidemia, invitando la comunità politica e scientifica a preparare le contromisure necessarie per contenerne gli effetti che, invece, si sono rivelati devastanti in maniera direttamente proporzionale alla scelta, più o meno consapevole, di aver voluto ignorare quell’allarme. Occorre evitare di fare lo stesso con gli altri cambiamenti in questione, sottovalutandone la portata, o nascondendoli sotto il tappeto della tranquillità e della ricchezza di pochi, a scapito di un benessere diffuso e di un orizzonte di speranza più lungo. Il prezzo da pagare sarebbe, ancora una volta, molto salato e caricato, per la gran parte, sulle spalle dei più poveri, ovvero coloro che hanno minori, se non nulle, responsabilità sul disastro incombente. Sulle pagine di Passione&Linguaggi, che compie questo mese un anno di pubblicazioni, abbiamo trattato diverse tematiche connesse a questi cambiamenti. Mi soffermerò, questa volta, in particolare, su quanto sia urgente, dato il contesto e le prospettive, ripensare il nostro modo di apprendere, soprattutto collegato al lavoro, per reggere a queste trasformazioni mantenendo protagonismo e allargando benessere e opportunità. Sotto il fuoco di questi cambiamenti cova la brace di ulteriori disuguaglianze che potrebbero acuirsi in maniera irreparabile e ingiusta. È del tutto evidente, quindi, che il nostro sistema economico e sociale, dove hanno prosperato disuguaglianze intollerabili, non possa essere lo stesso terreno su cui costruire la riscossa collettiva. Nel mondo del lavoro la risposta non può che essere lo sviluppo della formazione continua, che duri lungo tutta la vita lavorativa delle persone. Vuol dire prendere per mano le persone e accompagnarle per tutta la loro carriera professionale, rassicurandoli sulle montagne russe dei continui cambiamenti che dovranno vivere, diversamente dal passato in cui la carica formativa ricevuta a scuola, o nel periodo da “garzone”, assicurava la spinta sufficiente e necessaria per arrivare ai fatidici 35 o 40 anni di contributi.  Ma se questa è una delle risposte, la premessa deve essere certamente la realizzazione di vere pari opportunità, rimettendo quindi al centro una profonda battaglia affinchè ognuno abbia il diritto di scattare dallo stesso punto di partenza a prescindere dalle condizioni familiari, di reddito, di razza che, purtroppo, ancora oggi assegnano blocchi di partenza più o meno avanzati a seconda dello status ereditato: più si è benestanti e più istruiti sono i genitori, ad esempio, più il punto di partenza sarà avanzato; diversamente, il “via” sarà nelle retrovie e, probabilmente, aggravato da qualche peso nelle tasche, in completo disprezzo all’articolo 3 della nostra Costituzione. In una situazione del genere, senza uguaglianza di opportunità, è scontato non ci possa essere mai merito e meritocrazia, e nemmeno riconoscimento dei talenti, con una perdita collettiva inestimabile in termini di avanzamenti tecnologici, scientifici, economici.  

Ecco perché è necessario puntare sulla valorizzazione del capitale umano e sulla tutela dell’occupabilità delle persone. Più si terranno agganciate le competenze delle persone alle traiettorie di sviluppo delle imprese, maggiore sarà la spinta per individui, aziende, Paese e produttività. È urgente costruire un’anagrafe delle competenze funzionale a focalizzare gli interventi formativi sulle reali necessità dei territori e delle imprese e avere un quadro fedele delle professionalità presenti al lavoro e di quelle da riallocare, colmando eventuali gap di competenze e incrociando domanda e offerta, fattore decisivo, e urgente, in questa crisi che produrrà disoccupazione. La tecnologia creerà opportunità di aumentare, e migliorare, il valore e la qualità del capitale umano industriale, diventando uno straordinario alleato per raccogliere e analizzare l’enorme quantità di dati disponibili, che non vengono utilizzati, per monitorare il reale andamento delle competenze delle persone individuando, ad esempio, i talenti che non vengono valorizzati o il rischio di obsolescenza professionale. Oggi, infatti, nessuno si occupa del ciclo di vita delle competenze del capitale umano che, invece, saranno il nuovo fattore di competitività delle imprese, senza le quali l’industria non ha futuro.  

Qualche tempo fa, il rapporto “Strategie per le competenze” dell’Ocse dipingeva un’Italia impantanata nelle basse qualifiche, causa di debolezza dell’offerta e di scarsi investimenti in tecnologie che, invece, richiedono alte competenze. Una condizione che si manifesta nel ritardo di molte nostre aziende nel raggiungere un livello di innovazione tale da poter accogliere le alte professionalità che vengono sfornate dal sistema scolastico. È qui dentro che si consuma lo scollamento tra mondo dell’istruzione e mondo del lavoro che si palesa in vicende tragiche come quella avvenuta tempo fa a Barletta dove nove laureati in ingegneria, tra cui uno con lode, si sono aggiudicati 9 dei 13 posti da operatore ecologico presso una società municipalizzata. Un paese che non punta sui giovani, che non investe in istruzione e che non valorizza i talenti invecchierà, vedrà partire i propri figli e perderà competitività. È quindi fondamentale avvicinare lo sbocco del percorso scolastico alle reception delle aziende, rafforzare l’alternanza scuola lavoro e costruire collaborazioni con associazioni datoriali, università e competence center, se vogliamo riempire di speranza alcune intuizioni che, diversamente, resterebbero buone solo per i convegni. In Italia si finisce per assumere laureati anche laddove sarebbe sufficiente un diploma, creando frustrazione tra i laureati stessi che si sentono sotto qualificati rispetto al proprio percorso di studio che viene percepito come inutile e, quindi, abbandonato; lo Stato smette di investire in istruzione e formazione; i pochi laureati, e i migliori, vanno all’estero. L’Italia, con il suo 28% di laureati tra i 25 e i 34 anni, contro il 47% della media Ocse, è l’unico paese dell’Unione Europea in cui la spesa per interessi sul debito pubblico supera quella per l’istruzione. In più, la spesa pensionistica netta è quattro volte tanto quella destinata alla scuola. Non stupisce che, tra il 2008 e il 2018, 250 mila giovani, tra i 15 e i 34 anni, abbiano lasciato l’Italia, bruciando anni di investimenti scolastici e rinunciando a 16 miliardi di potenziale valore aggiunto. I ritardi in tecnologia sono direttamente proporzionali ai cervelli in fuga e, quindi, se non si vuole guardare al tema della formazione e delle pari opportunità dal punto di vista di una necessità per la democrazia e la giustizia sociale, la si guardi almeno dal punto di vista dell’opportunità economica. Lo scenario post covid sarà certamente più duro e grave mentre sullo sfondo, collegati, aleggiano i cambiamenti ambientali e climatici. Bill Gates nel suo ultimo libro Clima: come evitare un disastro spiega, argomenta molto bene quanto sia urgente pianificare la strada che ci porti, entro il 2050, ad azzerare emissioni di CO2. È necessario quindi sapere che la transizione energetica, tanto virtuosa quanto improcrastinabile, sarà, soprattutto nei paesi più ricchi e maggiormente responsabili del riscaldamento globale, “distruttiva” dal punto di vista lavorativo nelle comunità legate al sistema energetico attuale: una parte significativa della classe lavoratrice sarà colpita in termini di perdita di posti di lavoro. Per questo è urgente un piano per gestire al meglio questa transizione e riconversione. Un piano che non può prescindere da una seria campagna di formazione e riqualificazione, unica via per prendersi cura di tutti. I cambiamenti cessano di preoccupare, diventando opportunità, solo se avremo la capacità di creare consapevolezza diffusa per accompagnare le persone nel futuro. 

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