Alienazione e soli(sti)tudine

Autore

Carlo Pacher
Carlo Pacher, classe 1995, lavora per la formazione e lo sviluppo delle persone in La Sportiva. Ha conseguito una doppia laurea in Scienze Filosofiche presso gli atenei di Padova e Jena, in Germania, con una tesi dal titolo: "Intersoggettivà, costruzione, limite. Intorno alla riflessione hegeliana sul linguaggio", tema a cui ha lavorato sotto la guida dei Professori Luca Illetterati e Klaus Vieweg. Precedentemente aveva affrontato il tema della conoscenza di sé in Platone per l'elaborato di tesi triennale con il Professor Carlo Scilironi. Nell'estate 2021 ha preso parte al corso executive "Strategie e nuovi modelli di sviluppo sostenibile" presso CUOA Business School. Attivo in più realtà di volontariato sociale a livello locale, musicista per passione.

Per portare un contributo ad una riflessione sulla solitudine che sia attuale, come spesso accade, vale la pena di fare un passo indietro e ritornare alla nostra storia culturale, a riscoprire cioè alcuni concetti cardine che, precedendoci, raccontano a noi stessi chi siamo oggi. La proposta è quindi di riconsiderare la dinamica dell’alienazione come un movimento che può aiutare a riflettere su un fenomeno di solitudine diffusa, e di farlo tornando al luogo originale in cui, appena duecento anni fa, questo concetto è stato radicalmente ripensato.

Siamo a Jena, nel 1807, quando esce la prima edizione della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, opera nella quale l’alienazione è tematizzata nel suo ruolo decisivo all’interno della dialettica di sviluppo dello Spirito, per l’appunto della sua fenomenologia. Per riassumere e semplificare, l’alienazione rappresenta quel processo per il quale un soggetto, attraverso un’azione, produce, realizza qualche cosa di oggettivo, qualcosa quindi che cessa di rimanere strettamente soggettivo. Facciamo qualche esempio: una qualsiasi frase detta, nel momento in cui l’articolo mediante un insieme di suoni oggettivamente udibili, rappresenta l’alienazione di un significato che prima che lo articolassi era puramente un mio processo mentale, soggettivo in senso stretto; oppure anche un artefatto – una scultura, ad esempio – rappresenta la traslazione in un oggetto, mediante un’azione specifica – lo scolpire – di una forma/un concetto/un significato che prima stava soltanto nella mente e nel genio dell’artista (si pensi a tal proposito ai racconti di come Michelangelo vedesse già nei blocchi di marmo la figura che sarebbe poi andato a scolpire “levando” il marmo in eccesso).

L’alienazione è quindi, con le parole di Hegel, «Entäusserung», cioè “un che di interno (Ent-) che si esternizza (Äussern)” o – indifferentemente – «Entfremdung», ovvero “un che di interno (Ent-) che si fa straniero/alieno/forestiero (fremd)». Il termine che utilizziamo in traduzione italiana trova quindi perfetta aderenza, ricalcando a sua volta il significato latino di alius. L’alienazione descrive il darsi al mondo del soggetto, l’entrare in una dimensione concreta e tangibile provenendo dall’intimo soggettivo. Ciò che preme ad Hegel è specificare che l’alienazione è quel passaggio che consente la dimensione dell’oggettività naturale-materiale e storico-sociale, nello specifico significato per cui il risultato dell’alienazione è esattamente «ciò che ha riferimento e determinatezza». Non per nulla, la sezione chiave della Fenomenologia in cui tutto ciò viene con forza argomentato reca per titolo «Lo spirito estraniato da sé. La cultura», intesa esattamente come il prodotto oggettivo dell’opera dell’uomo, sia in senso concreto, come gli esempi sopra richiamati, quanto in senso astratto: lo Stato, l’Illuminismo, le scelte morali.

Il nodo saliente di questa tematizzazione, che offre lo spunto per la riflessione sulla solitudine a cui vogliamo dedicarci, sta tuttavia nella dinamica che, in Hegel, necessariamente deve superare e ricomprendere l’alienazione: il riconoscimento. Il territorio proprio dell’alienazione, infatti, è e dev’essere la transitorietà: il prodotto dell’alienazione – la poesia di uno scrittore, la scultura dell’artista – testimonia un processo soggettivo – di pensiero, creativo – che lì, in quell’opera determinata, si è espresso. Il linguaggio è già sempre il depositato di un ragionamento fatto e concluso, la scultura lascia la traccia di un’intuizione estetica e di un lavoro di scalpello che sono sempre già stati fatti. Il soggetto ha bisogno, nella sua alienazione, di riconoscere che lì c’è la traccia di sé – deve riconoscervisi – e contemporaneamente riconoscere quel prodotto per ciò che è, appunto una testimonianza transitoria di ciò che il soggetto è (o meglio: è stato). Leopardi è sì L’Infinito, ma è anche Il sabato del villaggio, lo Zibaldone e soprattutto l’ingegno che non ha scritto chissà quante altre opere, allo stesso identico modo per cui Michelangelo non è solo la Pietà né la Cappella Sistina, pur essendo ciascuna di esse.

L’alienazione in quanto tale non è che una fase del processo di sviluppo attraverso il quale una persona, un popolo, una civiltà, matura realizzazione, riconoscimento e consapevolezza di sé stessa. È un momento delicato e intriso di una moltitudine di significati decisivi per la realizzazione del soggetto: è il momento in cui da soggettivo diventa intersoggettivo e, carico del riconoscimento personale e interpersonale che gli deriva dall’essersi alienato, il soggetto torna a sé con una consapevolezza diversa, più adulta.

I problemi sorgono – da qui l’accezione negativa del termine che ereditiamo oggi – nel momento in cui il meccanismo si inceppa alla fase di alienazione, per cui un soggetto non ha riconoscimento dal prodotto in cui esso stesso si estrania, in cui ha messo sé stesso. Così si aprono baratri di solitudine dati dalla sensazione di aver sprecato, buttato parti esistenziali di sé stessi, si è soli non essendo riconosciuti nella profusione vissuta di un’opera creata a questo preciso scopo.

È interessante notare le già molte riflessioni che conducono queste esperienze di solitudine alla dinamica dell’alienazione a partire dagli anni immediatamente successivi agli scritti di Hegel. È ciò che Karl Marx vedeva all’interno del mondo capitalista che criticava [Il Capitale è del 1867], per cui una persona che per l’intera giornata lavora sulla medesima, singola azione all’interno della catena produttiva non riuscirà a riconoscersi nel prodotto finito, non riuscirà a dire, come lo sculture o il poeta, «l’ho fatto io». Privato del senso del suo agire quotidiano, sarà a sua volta alienato rispetto al prodotto che esce (anche) dalle sue stesse mani, escluso da quell’opera in cui ha versato parte di sé. Un tema, quello sollevato da Marx, che costringe sempre e comunque a riflettere ogni giorno sul senso del lavoro che ciascuno svolge.

Un altro interessante e più vicino contributo è il saggio del 2010 Alienation and Acceleration: Towards a Critical Theory of Late-Modern Temporality di Hartmut Rosa, professore nella stessa Jena abitata da Hegel ai tempi della pubblicazione della Fenomenologia. La riflessione di Rosa si concentra sulla constatazione di come l’accelerazione del tempo che abbiamo vissuto negli ultimi decenni, complice la portabilità di una serie di tecnologie che ci permettono di “sfruttare” sempre meglio ogni minuto che abbiamo a disposizione, abbia creato un vortice di micro-azioni per cui quello stesso tempo che dovremmo dominare più agilmente ci esclude da una dimensione di tempo realmente fruito, vissuto. Viviamo pertanto in una dimensione temporale dalla quale siamo alienati come paradossale effetto del supposto dominio del tempo stesso.

Ci chiediamo quindi: quali sono le solitudini, oggi, che possiamo ricondurre alla dinamica dell’alienazione e osservare come fenomeno diffuso?

Ricollegandoci ad Hartmut Rosa, un primo ragionamento dovremmo probabilmente dedicarlo a una lacerazione nei termini di ipersocialità digitale e solitudine esistenziale. Nell’epoca in cui i mezzi consentono al massimo storico l’occasione d’incontro e di relazione, la situazione sociale mostra al contrario un universo di atomi isolati che faticano a incontrarsi di persona. Anche le forme di aggregazione sociale e di rappresentazione intersoggettiva più consolidate nel secolo scorso, come le cooperative, le associazioni, i sindacati, oggi vivono la difficoltà di mantenere ed attrarre i loro aderenti, vedendo proporzionalmente diminuire la forza per cui esistono, basata esattamente sull’aggregazione addizionale di contro alle singolarità. Un cane che si morde la coda – mi associo per avere riconosciuta una forza maggiore, ma poi quei “di più” con cui mi sono unito non sono tanti abbastanza –, un moltiplicatore di solitudine tangibile davanti ai problemi altrimenti più facilmente risolvibili. Una crisi di riconoscimento dei propri valori e della propria forza rappresentativa, che rimangono alienati in un’organizzazione sociale muta e zoppa.

Un altro spunto di riflessione sull’inceppamento del meccanismo di riconoscimento, di ritorno in sé dopo la fase di alienazione, deve riguardare la solitudine del singolo in quanto solista. È come se non si riuscisse più a dire «lì ci sono io» in niente in cui io non sia il protagonista, il solista, la persona al centro im-mediatamente riconoscibile. Si pensi, su tutti, al meccanismo di delega di cui vive la politica democratica come sistema rappresentativo: amarissimo esempio di crisi di riconoscimento prima nelle persone singole – i politici –, poi nei confronti del sistema – le istituzioni –, fino al manifesto rifiuto di alienazione personale a monte di quel meccanismo infranto, espresso tanto con il rifiuto a candidarsi, da un lato, quanto a quello di andare a votare, dall’altro. Non ci riconosciamo più in niente che non sia in noi stessi intesi come singoli, questo è il fatto. La crisi della vita di coppia, che propone un “noi” di contro a due “io”; l’aspirazione dei più a diventare manager e lo stupore quasi scandaloso davanti alle storie di chi si sente invece realizzato in una posizione di subordinazione; la difficoltà dei Paesi dell’UE a guardare più ad un passato comune che alle necessità individuali. Stiamo aprendo abissi di solitudine, di solisti-tudine. Torna alla mente la ripresa retorica perfetta sfoderata in un titolo recente di Francesco Filippi: Prima gli italiani! (Sì, ma quali?). Anche mentre tentiamo di costruire una corporazione, c’è sempre un sottoinsieme più piccolo che solo riesce a rappresentare me stesso, ed è infine solo me stesso.

L’impressione è quella che oggi siamo soli nel nostro desiderio di essere solisti.

“Ti sei accorto anche tu/che siamo tutti più soli? / Tutti col numero dieci sulla schiena / e poi sbagliamo i rigori. / Ti sei accorto anche tu / che in questo mondo di eroi / nessuno vuole essere Robin?” [Cesare Cremonini, Nessuno vuole essere Robin]

Una speranza va conservata guardando a chi oggi entra in adolescenza: per loro le nazionalità non esistono e il riconoscimento di uguaglianza è reale anche e soprattutto grazie alla connessione planetaria vissuta da sempre come normalità. In Hegel il riconoscimento principe, quello dello Spirito Assoluto, sta nel realizzare che tutto ciò che c’è è identico nel suo essere contemporaneamente differente da tutto ciò che d’altro esiste. L’identità è nella differenza – e così la differenza cessa di essere, assorbita in questo riconoscimento sintetico di medesimezza del Tutto. La speranza e la sfida consiste forse, allora, nel far leva proprio sull’esasperata diversità individuale per riconoscerci tutti identici nella comprensione dell’insostenibilità, sempre più palese, di un mondo di soli eroi.

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