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Humilia et impera

Autore

Alessandro Picone
nato ad Avellino 25 anni fa, ha conseguito la laurea magistrale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Torino discutendo una tesi in Filosofia della Storia su "Ivan Illich. Un pensatore ai limiti" con relatore Enrico Donaggio. In precedenza aveva conseguito la laurea triennale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Firenze con una tesi in Filosofia Teoretica su "L'insondabile profondità: la questione dell'identità personale tra Locke e Leibniz", relatrice Roberta Lanfredini.

Cinque adulti attempati, tra esponenti del potere politico e del potere mediatico, discorrono di temi che affliggono il Paese davanti a una tavola imbandita di pietanze molto ricercate, mentre ragazzi e ragazze in uniforme bianca tolgono i piatti sporchi o rimboccano i calici di vino: difficile immaginare una situazione più emblematica del pessimo stato di salute del dibattito pubblico in Italia.
È successo durante il programma condotto da Maria Latella, “A cena da Maria Latella”, su SkyTg24, in cui l’ex ministra Elsa Fornero, il conduttore Bruno Vespa, lo scrittore Giacomo Papi e il neo titolare dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, sono stati invitati a discutere di politica, di scuola, passando per economia e immigrazione, a casa della giornalista. In un’atmosfera surreale, giornalisti, conduttori e ministri, serviti da camerieri in livrea, hanno discettato sul “degrado” a cui sarebbero arrivati i giovani italiani, scambiandosi battute intrise di trionfalismo borghese. Tra una portata e l’altra, luci soffuse e tintinnii di calici, si è parlato di “lavori socialmente utili” ai quali spedire gli studenti che utilizzano i cellulari in classe – perché “i lavori forzati pareva male dirlo”, ha chiosato qualche spettatore, tra il sarcasmo, l’indignazione e lo sgomento. Vespa ha risposto che sarebbe meglio mandarli da soli in biblioteca. Non si può fare, “non è sostenibile”, l’avvertimento di Latella: li si mandi a pulire le aule. Anzi, meglio, a spazzare le strade, ha suggerito Valditara.
Questo grottesco spettacolino dimostra non soltanto che la marcia indietro del ministro
dell’Istruzione e del Merito sull’umiliazione come “fattore di crescita della personalità” era pura finzione.
Restituisce anche – e soprattutto – l’espressione di una specifica filosofia politica, dal pedigree
squisitamente neoliberista, di un’intera classe dirigente che crede che suo dovere sia umiliare, moralizzare e stigmatizzare. Come il parlare di “devianze” per riferirsi a persone a rischio povertà o a rischio di esclusione sociale, o il proporre la “disciplina” come cura, si tratta di ribadire l’idea che i problemi sociali siano fenomeni del tutto individuali e privati, conseguenza di scelte che le persone compiono, agevolando così la produzione di un susseguirsi di cliché caricaturali e umilianti dei subalterni: quello dell’inetto, dell’indisciplinato, del privo di aspirazioni, dello scroccone, dell’anormale e del disturbatore. Il nucleo della filosofia politica del governo più a destra della storia della Repubblica è una precisa concezione dell’ingiustizia di classe: l’idea che la povertà non sia dovuta alla mancanza di opportunità materiali, ma a problemi come la scarsa disciplina, lo smembramento della famiglia o l’abuso di sostanze; che le possibilità che toccano a una persona nel corso della vita siano determinate da fattori comportamentali più che dalle possibilità economiche del suo ambiente di provenienza. La convinzione che ogni persona avrebbe il potere di diventare ciò che vuole, se soltanto s’impegna, è l’ideologia dominante e la religione non ufficiale della società capitalistica contemporanea. Sostenuta tanto dai cosiddetti esperti dei reality televisivi, quanto dai guru del business e dai politici, questa religione insegna ai singoli individui di incolpare anzitutto se stessi, piuttosto che le strutture sociali, della propria situazione; a credere che la propria povertà, la mancanza d’opportunità, o la disoccupazione, siano colpa loro e soltanto loro. In questa perversa messinscena, accade che la causa scarichi sull’effetto ogni forma di responsabilità. Ci si trova così ad affrontare manifestazioni di odio, di umiliazione e subordinazione sociale, ma senza le istanze che prima esistevano per combatterle e senza la coscienza di classe in grado di contrastarle. Nel momento stesso in cui il malcontento è individualizzato e interiorizzato, la causa sociale e politica della sofferenza viene garbatamente elusa, alimentando in questo
modo l’epidemia della depressione collettiva, la cui convinzione di fondo è che noi siamo gli unici
responsabili della nostra miseria e perciò la meritiamo.
È proprio attorno al concetto di “merito”, portato in palmo di mano da Valditara, che ruota il
modello di ordinamento sociale auspicato dal neoliberismo. In una meritocrazia, coloro che sono in
possesso dei talenti più ragguardevoli ascenderebbero per natura ai vertici della società, e la gerarchia sociale sarebbe modellata in base alle competenze. Si tratterebbe di una società all’insegna della disuguaglianza, ma le disuguaglianze risulterebbero lo specchio di livelli di competenza diversi. Fatto è che, svincolata dal principio di equità, la meritocrazia non può che diventare un sigillo di fatto sulle inuguaglianze già esistenti, mascherando il privilegio e traducendo l’inferiorità economica in inferiorità morale, se non addirittura ontologica.
Di norma, il concetto di “meritocrazia” s’accompagna a quello di “mobilità sociale”. “Mobilità”
implica l’idea che si voglia abbandonare un certo posto e andare verso un altro. Il motivo per cui il concetto di mobilità sociale ha ricevuto tanta enfasi è che tutti i partiti politici preferiscono parlare di mobilità sociale e di pari opportunità anziché parlare di parità di condizioni. La mobilità sociale può magari costituire una via di fuga dalla povertà, ma non un mezzo per cercare di sconfiggerla. Per di più, se il metodo ufficialmente approvato per migliorare la propria posizione nella vita è quello di entrare a far parte della classe media, che cosa succede a quanti restano indietro? Mettendo maggior risalto sul modo di rifuggire da certe occupazioni invece che sul migliorare le condizioni di chi vi si dedica, si finisce con l’umiliare e lo screditare coloro che continuano a praticarle: tutti lavativi che hanno fallito per mancanza di volontà nel percorrere la via che la mobilità sociale offriva loro. Invece d’impegnarsi per migliorare le condizioni sociali nel complesso, si rafforzerà l’idea che appartenere alla classe subalterna sia una condizione dalla quale si deve rifuggire; che l’unico modo per farlo sia individualmente, lasciando gli altri indietro; e che, qualora non si riuscisse a fuggire, si tratterà di vivere tale condizione con sordo rancore.
Eppure, mentre il neo ministro Valditara continua ad aggiungere, a suon di paternalistici
rimproveri, problematici tasselli al perverso immaginario di scuola promosso dall’attuale governo – ad esempio, ribadendo la disapprovazione verso gli studenti e le studentesse che s’azzardano ad alzare la voce contro le storture della società contemporanea: “Lo sciopero è un’idea superata. Basta con la scuola dei sessantottini” –, sono migliaia i giovani e le giovani che rifiutano questo modello, e che non perdono occasione per dimostrarlo quotidianamente. Si pensi ai numerosi collettivi studenteschi che, dopo due anni di lockdown che ha messo a dura prova la forza di tutti i movimenti sociali, stanno animando le università e le piazze italiane. Spazi in cui si alza una richiesta di protagonismo che anima il desiderio di un mondo diverso. Come nel cortile di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza”, in cui lo scorso 25 ottobre la Polizia ha represso studenti e studentesse che volevano manifestare il proprio dissenso per contestare una conferenza sul “capitalismo buono”, dove era invitato a parlare Fabio Roscani, deputato di Fratelli d’Italia, nonché presidente di Gioventù Nazionale. Di fronte a tutto ciò, all’indomani dell’accaduto, in migliaia si sono riuniti in un’assemblea pubblica per mostrare la loro solidarietà e organizzare il dissenso.
Si tratta di esperienze che, per quanto parziali, si sforzano di strappare la cappa ideologica di
pavido vecchiume generale e contagioso, quel grigiore che prima avvolge il corpo e poi attacca l’anima. Che rivendicano la libertà di espressione, di protesta, per mettere a confronto e discutere pubblicamente valori, bisogni e priorità differenti. Che s’impegnano collettivamente per combattere la miseria e lo sfruttamento. Per intraprendere un cammino in comune e rimuovere ogni tipo di umiliazione.

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