Umiliazione e Cura: la relazione umana tra oggettivazione e riconoscimento

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

Misurarsi filosoficamente con il fattore antropologico dell’umiliazione (inflitta o subita che sia) è un’occasione assai proficua per ragionare intorno all’incidenza corrosiva che quest’esperienza ha sulla vita quotidiana di tanti individui e gruppi sociali e per imbastire, parallelamente, una breve riflessione sulla qualità delle relazioni che, come uomini, dovremmo coltivare per essere pienamente tali.

Le due cose, a ben vedere, non possono che essere sviluppate insieme: per accorgersene basti provare a focalizzare brevemente la realtà del rapporto interumano. Esso andrebbe sempre pensato (e vissuto) come un nesso tra coscienze intese quali orizzonti intrascendibili (ossia quali dimensioni conoscitivo/affettive quodammodo infinite, in grado di accogliere in sé tutto il reale) e non invece come orizzonti trascendenti tendenti ad oggettivare ogni contenuto intenzionato: la coscienza dell’altro mi si rivela infatti come qualcosa che, mentre si colloca all’interno della mia coscienza, ne trascende gli illimitati limiti.

«L’altro – scrive Carmelo Vigna nella sua Etica del desiderio come etica del riconoscimento – è un’inafferrabile oggettualità proprio perché, in ultima analisi, egli mi appare come un trascendere e dunque come un intrascendibile per me. Che sia intrascendibile non significa tuttavia che non abiti o che non possa abitare l’orizzonte della mia intrascendibilit໹.

Spesso accade che la relazione tra soggetti – invece che essere gestita in modo buono ovvero in maniera confacente alla struttura del nostro desiderio – sia interpretata nell’ottica dell’oggettivazione: in questa situazione l’altro – impedito dall’io ad essere accolto come un intrascendibile in grado di trascendere la sua intrascendibilità – viene sostanzialmente cosificato e quindi violato nella sua dignità. Ora, è necessario riconoscere come la relazione intersoggettiva umana possa porsi o come rapporto di riconoscimento o come relazione di oggettivazione. Tertium non datur: la categoricità di questa dicotomia è insuperabile.

«L’oggettivazione dell’altro e il suo mantenimento nello spazio della soggettività – dichiara ancora Vigna – sono due estremi che, in quanto tali, non sopportano mediazioni. Non ha senso infatti dire che l’altra soggettività è lasciata essere come tale in parte e in parte oggettivata, giacché la soggettività altra è in un certo senso alcunché di assolutamente semplice. Alludo qui alla sfera trascendentale del soggetto, che nella sua semplicità è la totalità della soggettività in quanto forma ultima. Poiché la semplicità della trascendentalità altra può esser solo riconosciuta come tale oppure oggettivata, ne segue che le due relazioni possibili sono da trattare come contraddittorie»².

Se nel modello del riconoscimento le coscienze in gioco stanno l’una di fronte all’altra (come una per l’altra, senza che tali coscienze beninteso esigano d’essere riconosciute prima di riconoscere), nel modello dell’oggettivazione l’io guarda all’altro vivendo la propria intrascendibilità come assoluto potere trascendente, come potere cioè che rifiuta il proprio limite ontico o, detto altrimenti, come signoria che – credendo che le cose funzionino così – giunge a reificare l’altro per assicurarsi che la sua soggettività possa sussistere come tale. Ebbene, l’umiliare e l’essere umiliati vanno letti come espressione fenomenologica di quest’ultima fattispecie.

Credo, per essere più esplicito, che l’umiliazione possa esser letta come una delle tipologie più estreme di dominio dell’altro e l’esser umiliati come una delle più sottili e violente forme di cosificazione subibili. Tale affermazione è senz’altro condivisibile soprattutto quando si valuti un aspetto tipico dell’umiliazione, quello che porta colui che umilia (limitiamoci qui all’analisi di tale versante relazionale) non solo a ridurre l’umiliato a res, ma pure a consumarlo. La gioia perversa ricercata da chi umilia non sta invero nell’eliminazione dell’umiliato ma nel processo di dis-integrazione dell’altro, dal momento che il compimento di tale processo porrebbe fine alla sua soddisfazione.

È chiaro come, in questa sede, non ci sia lo spazio per dimostrare che la relazione riconoscente sia la struttura originaria dell’intersoggettività umana e, quindi, la sua dinamica intenzionale regolativa³: basta però far leva sul nostro esprit de finesse per avvederci di come la relazione oggettivante – con la soddisfazione non solo perversa, ma anche triste di colui che umilia e con l’oppressione deprimente e mortificante dell’umiliato – non essendo appetibile ossia non realmente confacente all’apertura del nostro desiderio, vada rigettata perché non-buona. È il nostro desiderio a testimoniare infatti come l’altro debba sempre essere visto come luogo in cui la nostra soggettività può rispecchiarsi, giungendo a riconoscersi così com’è (che è come dire che, per essere pienamente se stesso, l’uomo non possa esimersi dal praticare la relazione riconoscente con l’altro).

Il cuore pulsante di tale relazione – quasi un antipode dell’umiliazione – va individuato nell’atteggiamento della cura. Aver cura di un tu significa prendersi attivamente a cuore il suo mondo esistenziale in modo da favorirne il pieno fiorire; più semplicemente, vuol dire volergli bene⁴.

La cosa, più che una possibilità, si configura come una necessità per l’io.

«L’aver cura – scrive Luigina Mortari – è un modo di esserci-con-l’altro; un modo che non risponde alla logica del dovere, ma trova la sua ragione generativa nel sentirsi necessitati dall’altro; si avverte nell’altro una necessità che ci chiama in campo in prima persona. Non è una questione di dover essere, e dunque non va inteso come un atto volontaristico con cui si risponde alla logica del dovere, ma è un sentirsi necessitato»⁵.

Se ciò che abbiamo sostenuto in senso attivo è vero, altrettanto autentica è la nostra ineludibile necessità di essere curati da qualcuno, in chiave passiva. Quest’assunto mostra come il fondamento dell’etica che lega tra loro gli uomini stia nella necessità reciproca e circolare di essere gli uni condizione d’esistenza per gli altri. Fare a meno degli altri è impossibile, così come lo è vivere cosificando ed essendo cosificati, e umiliando ed essendo umiliati: in entrambi questi ultimi casi, ad uscirne distrutto è il rapporto con gli altri. Ma distrutto il rapporto, sono anche distrutti i termini del rapporto e quindi anche i soggetti in gioco: come ci ricorda Kierkegaard⁶ l’umano va certamente inteso come singolarità irriducibile e ciononostante come un che di strutturalmente aperto e, anzi, di fondato nell’alterità.

1. C. VIGNA, Modelli di rapporti intersoggettivi, in Etica del desiderio come etica del riconoscimento, Orthotes, Napoli 2015, p. 105.

2. Ibi, p. 109.

3. Cfr. Ibi, p. 104.

4. Cfr. M. HEIDEGGER, Segnavia, Adelphi, Milano 2002, p. 270.

5. L. MORTARI, La pratica dell’aver cura, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 101.

6. Cfr. S. KIERKEGAARD, La malattia per la morte, Donzelli, Roma 1999, p. 15.

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