L’agonia del teatro in Italia. Sotto gli occhi (chiusi) di tutti.

Autore

Rosario Iaccarino
Rosario Iaccarino, nato a Napoli nel 1960, dal 1982 al 1987 ha lavorato come operaio presso la SIRAM, assumendo l’incarico di delegato sindacale della Fim Cisl; nel 1987 è entrato a far parte dello staff della Fim Cisl nazionale, prima come Responsabile dell’Ufficio Stampa e dal 2003 come Responsabile della Formazione sindacale. Cura i rapporti con le Università e con l’Associazionismo culturale e sociale con i quali la Fim Cisl è partner nei diversi progetti. Giornalista pubblicista dal 1990. È direttore responsabile della rivista Appunti di cultura e politica. E’ componente del Comitato Direttivo e del Comitato Scientifico dell’Associazione NExT (Nuova Economia per Tutti).

Non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, 
ed il teatro è una grande forza civile, 
il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, 
toglie la paura del diverso, dell’altro, 
dell’ignoto, della vita, della morte.
Leo De Berardinis

Il mio scopo non è insegnarvi a recitare,
il mio scopo è aiutarvi a creare un uomo vivo da voi stessi.
Konstantin Stanislavskij

Il teatro non è indispensabile. 
Serve ad attraversare le frontiere fra te e me.
Jerzy Grotowsky

Amo il teatro perchè mi ripugnano le illusioni.
Eugenio Barba

Nel Breviario di estetica teatrale Bertold Brecht scrive, alludendo al teatro come possibilità potente di fare nuovo il mondo, trasformando le persone, che esso «consiste nel produrre rappresentazioni vive di fatti umani, tramandati o inventati, al fine di ricreare». Lev Vigostskij, nel testo Psicologia dell’arte, indica più in generale nella dimensione artistica, la capacità di combinare insieme elementi e fatti della vita generando qualcosa di inedito sul piano simbolico e dell’azione sociale: «le parole di un racconto o d’un verso – scrive – danno della realtà il senso letterale, la sua acqua; ma la composizione, creando su tali parole, al di sopra di esse, un nuovo significato, dispone il tutto su un piano completamente diverso, e lo converte in vino». 

La funzione paideutica del teatro

Assieme alla storica funzione sociale e civica moderna e contemporanea che conosciamo più da vicino, e risalendo fino all’antica tragedia greca con la sua funzione paideutica, il teatro ha rappresentato da sempre uno spazio importante per la crescita culturale collettiva e per la costruzione della polis. Nei tempi recenti si è fatto strada anche nella formazione scolastica e degli adulti come metafora e mezzo della dinamica educativa. Lo ricorda il pedagogista Pier Cesare Rivoltella quando, a proposito dell’utilizzo del teatro nell’attività didattica, al fine di valorizzare le emozioni e le relazioni, afferma che «apprendiamo con tutto il nostro corpo. Immergendoci nell’esperienza, stando in situazione, imitando il comportamento degli altri. Anche l’elaborazione concettuale di ordine superiore dimostra di avere strette relazioni con il (e provenienza dal) coinvolgimento corporeo» [P.C. Rivoltella, Drammaturgia didattica. Corpo, pedagogia, teatro, Editrice Morcelliana, Brescia 2021]. Rimettere in gioco il corpo ha anche un forte valore politico, trasformativo della realtà. Focault direbbe in proposito che il corpo è l’attore principale di tutte le utopie, ossia «quel piccolo nucleo utopico a partire dal quale sogno, parlo, procedo, immagino, percepisco le cose al loro posto e anche le nego attraverso il potere infinito delle utopie che immagino» [M. Focault, Utopie. Eterotopie, Edizioni Cronopio, 2006].
Con lo sviluppo delle neuroscienze affettive appare ancora più chiaro come l’oggetto artistico sia il polo di una relazione intersoggettiva, sociale, e che perciò, come ci ricorda Vittorio Gallese, «e-moziona in quanto evoca risonanze di natura sensori-motoria e affettiva in chi vi si mette in relazione […] Nell’agire teatrale si configura, infatti, una molteplicità di rapporti mimetico-simulativi che, da un lato, mettono in connessione creatore e fruitore attraverso la mediazione dell’interpretazione attoriale e, dall’altro, trasformano il singolo spettatore in un membro di un nuovo gruppo sociale, il pubblico» [V. Gallese, Corpo e azione nell’esperienza estetica. Una prospettiva neuroscientifica. Postfazione in U. Morelli, Mente e Bellezza. Arte, creatività, innovazione, U. Allemandi & C., 2013]. 

La crisi del teatro e la questione estetica

A questi brevi ma densissimi spunti, indicativi della potenza estetica, culturale, ludica, relazionale, comunicativa, politica, educativa del teatro, se ne potrebbero aggiungere molti altri per mettere in evidenza che una società che premia il conformismo, sofferente di un impoverimento simbolico, e sempre più avvolta nel linguaggio “internante” dei social, del teatro non avverte alcun bisogno e ne può fare a meno. E malgrado il nostro paese possa vantare una grande tradizione artistica e stagioni culturali straordinarie, come lo sono stati ad esempio gli anni Settanta, l’agonia del teatro viene aggravandosi, avendo peraltro ricevuto con la pandemia l’ultimo colpo mortale.  Eppure, il teatro – come ricordava recentemente su questa rivista Alessandra Limetti, attrice e vocologa – «nelle sue molteplici forme, ci parla dell’origine del bene e del male dell’umanità, dei suoi balsami e dei suoi veleni. Una tridimensionalità assoluta. Nutrimenti dell’anima che non si può lasciare spegnere per incuria, ignoranza o malafede. Per la morte dei teatri e la fine ingloriosa degli spazi, preposti all’arte, che sono costretti a chiudere perché ritenuti ‘attività non essenziali’» [https://www.passionelinguaggi.it/2020/12/01/la-cultura-che-cura/].
Autorevoli addetti ai lavori ci avevano messo da tempo in guardia rispetto all’avanzante crisi del teatro, fatte salve quelle rare esperienze che resistono ostinatamente e con molta fatica alle intemperie culturali e politiche di questo tempo e che cercano di riformare il linguaggio e i codici drammaturgici per intercettare a profondità inaudite la domanda di liberazione di un immaginario individuale e collettivo segnato dallo smarrimento del senso e dal disincanto. Viviamo in un contesto culturale che ha disgiunto aisthesis e semiosis – il sentimento dal significato – portato del capitalismo della sorveglianza e ciò ha prodotto anche la separazione tra arte e politica: una catastrofe, secondo Bernard Stiegler, perché se da un lato l’attività artistica è stata svuotata del suo ruolo politico, e quello degli artisti della capacità di generare la sensibilità dell’altro, dall’altro la politica ha ceduto all’industria culturale e al mercato la questione estetica. Parliamo tuttavia non dell’estetica del noi, del sentire insieme, ma di un processo culturale «capace di funzionalizzare la dimensione affettiva ed estetica dell’individuo trasformandolo in un consumatore» [B. Stiegler, La società automatica,1.L’epoca iperindustriale. Meltemi, 2021].

Peter Brook e il teatro mortale

La crisi del teatro ha una radice endogena, relativa all’immiserimento artistico di testi, autori e attori, alla ricerca di scorciatoie commerciali, di mercato, per sopravvivere purchessia. Ma ha anche una motivazione esogena, politica, che ha come risvolto la penalizzazione della cultura e dell’arte, e del teatro in particolare, attraverso la scelta di ridurre il sostegno a questi importanti settori della vita pubblica. 
In merito all’appannamento della qualità dell’offerta teatrale, si possono apprezzare ancora oggi le parole anticipatrici che negli anni Sessanta pronunciò il regista e sceneggiatore britannico Peter Brook, scomparso recentemente all’età di 97 anni, che alla crisi del teatro dedicò un interessante libro dal titolo Il teatro e il suo spazio (Feltrinelli,1968), testo conosciuto anche con il titolo Lo spazio vuoto (Bulzoni,1998). Brook lo definiva il teatro mortale, quello che di fatto, pur essendo tecnicamente ben allestito e curato nei minimi particolari, non genera più alcuna emozione: «nel complesso – chiosava corrosivamente – lungi dall’elevare e istruire il pubblico, non diverte nemmeno più. Si è detto spesso che il teatro è come una prostituta, volendo dire con questo che esso è impuro nei caratteri artistici. Il fatto è che oggi la cosa vale anche in altro senso: le prostitute prendono i soldi e vanno per le spicce nel dare piacere». Al teatro mortale corrisponde spesso lo spettatore mortale che «gode persino della mancanza d’ogni divertimento e confonde una sorta di soddisfazione individuale con l’autentica esperienza cui tanto agogna». Appartenente all’avanguardia teatrale creata da altri grandi drammaturghi quali Grotowsky, Artaud, Stanislavskij, Mejerchol’d, Brecht, ecc., Brook ha sempre immaginato il teatro come un movimento capace di rendere visibile l’invisibile. Un qualsiasi spazio vuoto è per lui un palcoscenico: basta che uno l’attraversi e un altro lo osservi, che si crea l’azione scenica. «Per arrivare al cuore delle cose – è il pensiero di Brook – devi creare il vuoto intorno alle cose, scoprirle nude. Il teatro non ha bisogno di scenografie grandiose, abiti di scena e macchine spettacolari, ma solo di spazio vuoto e di attori che vivono quello spazio, fino in fondo, con tutto il loro corpo. È l’energia del corpo a esprimere i concetti, l’esattezza mimetica del corpo racconta. Il teatro è lo specchio della società, e lo specchio non ha bisogno di cornici dorate».

Il teatro e il potere: l’arte della commedia

Sul versante della critica alle istituzioni e al sistema di gestione politica dell’attività artistica e teatrale in Italia, si spese con argomenti puntuali, al pari di un’appropriata vis polemica, Eduardo De Filippo, in particolare con una Lettera aperta indirizzata al Ministro del Turismo e dello Spettacolo, Tupini, pubblicata sul quotidiano “Paese Sera” il 4 ottobre del 1959 (https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/arte_e_cultura/2014/16-ottobre-2014/eduardo-caro-ministroin-teatro-c-camorra-230359150310.shtml). 
Il je accuse di Eduardo verso il potere politico, responsabile di voler mortificare il teatro, vide tuttavia altri momenti significativi. Uno di questi, che anticipò la Lettera al Ministro, fu la sua presa di posizione contro il Comune di Napoli per l’impossibilità di dirigere il Teatro Stabile di Napoli, malgrado venne a lui proposto, nel 1958, tale prestigioso incarico. Eduardo, amareggiato, fu costretto a rinunciare per l’ingerenza di un personale politico impreparato e arrogante. Scriverà al Commissario prefettizio che nelle condizioni date non vi sarebbe stata alcuna possibilità di attuare il suo progetto artistico e potere svolgere al massimo livello il ruolo assegnatogli: «devo purtroppo comunicarle che ritengo perfettamente inutile presentare preventivi ai componenti del consiglio di amministrazione dello Stabile Napoletano, componenti che alla mia esperienza di uomo di teatro sono apparsi sprovveduti a decidere le sorti d’una iniziativa tanto importante per la cittadinanza Napoletana». 
L’altro momento saliente della critica di Eduardo al potere risale al 1965, quando mise in scena un testo drammaturgico sulle difficoltà che il teatro attraversava nel nostro paese, dal titolo L’arte della commedia (A. Barsotti, La cantata dei giorni dispari, Volume terzo, Einaudi, 2018). Quell’opera, si proponeva come una sorta di Manifesto sul teatro e sul senso dell’arte nella società, e ruotava attorno all’interpellanza chiave posta dall’autore alle istituzioni e al potere politico: «Allora mi domando: questo benedetto teatro è di interesse nazionale o no?». Nel primo atto de L’arte della commedia, Eduardo mette in scena un dialogo assai eloquente sul rapporto tra teatro e istituzioni politiche, tra il Capocomico Campese, alle prese con l’incendio del suo capannone e con l’impossibilità di proseguire la tournée, e il Prefetto De Caro, a cui egli chiede sostegno per risolvere la questione. Nei frammenti del dialogo di seguito riportati, emerge la fotografia dell’indifferenza e del fastidio che il potere prova nei confronti del teatro.

CAMPESE: Eccellenza, secondo me l’autore ha paura di scrivere, e i Governi hanno paura di quello che può dire un autore quando scrive.

DE CARO: Paura di che?

CAMPESE: Il teatro non è morto, Eccellenza, il teatro è vivo e vitale.

DE CARO: Ma se fosse vivo darebbe altri risultati.

CAMPESE: E la confusione dove la mettiamo? È un fatto scontato che il teatro deve essere lo specchio della vita umana, riproduzione esatta del costume e immagine palpitante di verità; di una verità che abbia dentro pure qualcosa di profetico.

DE CARO: E, secondo lei, questi autori tanto provveduti, questi poeti tanto ispirati, non danno niente di buono al teatro, perché hanno paura? Ma di che, se la censura è stata abolita?

CAMPESE: […] Eccellenza, se non c’è la censura, c’è l’autocensura, a cui l’autore deve spontaneamente sottostare. Infatti, la gente di teatro muove i propri passi in funzione di una volontà precisa, di un indirizzo obbligato, non verso lo scopo vero, che sarebbe quello di dare al
pubblico l’immagine della verità.

DE CARO: Non esageri. Certo, ci sono delle verità che non vanno dette in teatro; almeno su questo è d’accordo? […]

CAMPESE: Ma il pubblico riconosce subito i male intenzionati: li smaschera, non li segue. Lo spettatore è ormai maggiorenne e giudica con la testa sua. Aiutare il teatro, dandogli vita stabile e libertà di esprimersi all’altezza culturale della platea di oggi, ma non tenerlo d’occhio come fanno le bambinaie nei confronti di un bambino deficiente. Il pubblico è maturo, vuole il suo autore, quello che gli racconta i fatti di casa sua, e che gli fa riconoscere se stesso fra i personaggi della commedia. L’autore riconosciuto per tale, entra dalla porta del palcoscenico ed esce insieme al pubblico a braccetto, da quella della platea. I male intenzionati, entrano dalla porta del palcoscenico e dalla stessa escono, e di corsa vanno fino a casa loro e si chiudono dentro e non escono più. 

L’agonia del teatro e il “je accuse” di Eduardo De Filippo 

L’arte della commedia provocò reazioni negative ai piani alti del potere. Un testo che assieme a un’opera successiva dello stesso Eduardo, dal titolo Uomo e galantuomo, riprende con il linguaggio drammaturgico e meta-teatrale le questioni poste alcuni anni prima dalla Lettera aperta al Ministro del Turismo e dello Spettacolo, nella quale il drammaturgo napoletano tiene a precisare che non parla per sé, ormai autore e regista affermato in tutto il mondo, ma che è spinto a farlo esclusivamente per il bene del teatro. «È con angoscia – scrive – che penso, guardandomi intorno con l’occhio clinico del teatrante incallito, a tutto quello che si va facendo sistematicamente per raggiungere l’ormai incombente anno zero del teatro italiano, e a tutto quello che non si fa e che si dovrebbe fare per allontanare la minaccia». 
Eduardo vede lucidamente il pericolo della restaurazione di un pensiero piccolo borghese, portata avanti paradossalmente attraverso un teatro dell’effimero, ridotto a intrattenimento. Teme l’ascesa di un conformismo con effetti politicamente narcotizzanti – il contrario della funzione sociale del teatro – che, egli sostiene, passa per  «la pretesa di sostituire il teatro ritenuto controproducente con un teatro di tutto riposo, estraneo ai problemi, alle ansie, alle speranze, agli aspetti dell’umanità e in particolare di quella porzione di umanità che parla la nostra stessa lingua, equivale al proposito di distruggere alle radici il Teatro». Tutto ciò porta con sè l’incoraggiamento di quelle forme «di dilettantismo estetizzante, della esterofilia provinciale, del pompierismo in guanti gialli gabbati per progresso, modernità, cosmopolitismo e cultura». 
Senza peli sulla lingua, Eduardo denuncia anche l’esistenza di una “camorra teatrale imperante”, fatta di figure esterne al teatro (impresari, affaristi, organizzatori, ecc.), ossia di quei «personaggi che dominano la povera vita teatrale italiana, che occupano il posto dei medici al capezzale del morente impedendo che siano prodigate le cure opportune e togliendogli il respiro», personaggi che mortificano autori e attori, anche sul piano del trattamento economico. Se fosse per loro – dice perentoriamente Eduardo – avrei già cambiato mestiere. Sottolineando che siamo in un Paese che si distingue per la sua indifferenza e ostilità verso la cultura e l’arte. «Ma gli ornamenti – continua con un linguaggio radicale – non possono sostituire l’abito. Un fiore all’occhiello di una persona nuda sarebbe una teoria piuttosto paradossale e bizzarra. Eppure è questa la teoria in base alla quale dai due ai trecento milioni annui vengono sottratti al vero teatro da macchiette locali, politici municipali, filodrammatici e semplici furbacchioni, da persone, cioè, che si auto-qualificano teatranti, ma che non solo coi teatranti non hanno nulla da spartire, ma dei teatranti sono accaniti, irriducibili e spietati nemici. Perché gli autentici teatranti non possono essere, ovviamente, i cosiddetti organizzatori, nè gli impresari professionali od estemporanei, nè i tre o quattro poveri diavoli nominati ‘esperti’ dalla burocrazia governativa, ma prima di tutto gli autori e subito dopo gli attori».
Altra questione che sta molto a cuore a Eduardo è quella della censura, «esercitata non già alla luce del sole, e non già in base ad una legislazione che tenga conto delle libertà vigenti nei settori di gran lunga più vasti del teatro di prosa, come la stampa e persino il cinema, ma a mezzo di strizzatine d’occhi e di conciliaboli segreti fra i capocomici proconsoli e i rappresentanti della burocrazia…». 
Infine la sentenza inappellabile di Eduardo, ancora attualissima, sull’agonia del teatro italiano e sui suoi responsabili:

«No signori, siete voi che lo state uccidendo, il teatro! 
Voi che state succhiando al teatro le ultime gocce di sangue 
escogitando chissà quali nuove carnevalate, 
annunciando chissà quali nuove montagne 
che partoriranno il topolino, 
preparando nuovi buchi nell’acqua che stizzosamente 
attribuirete alla incomprensione del pubblico, 
architettando chissà quali nuovi programmi 
all’insegna del dilettantismo, dell’egoismo 
e della più assoluta indifferenza per le sorti del teatro 
che, se anche è affidato alle vostre mani di trafficanti, 
non è patrimonio che vi appartenga 
e con il quale abbiate legalmente 
e moralmente qualcosa da spartire».



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