Se guardi meglio non fai fatica ad accorgertene. Si tratta di nuove forme di schiavitù. È solo la nostra incapacità di vedere, o meglio, la nostra cecità indotta dalla disposizione a non vedere di non vedere che ci impedisce di constatare quello che semplicemente è sotto i nostri occhi. I fenomeni come le cose dopo un po’ che li osserviamo perdono sia la loro rilevanza che il loro fascino. A un certo punto, non facciamo più caso a ciò che c’è di buono nelle nostre vite, e non notiamo più nemmeno ciò che non va. Ci abituiamo all’aria inquinata, tolleriamo relazioni tossiche, notifichiamo qualsiasi deriva autoritarie e corriamo rischi inutili. Soprattutto accettiamo l’affermazione di forme di ingiustizia sociale, di disuguaglianza, di emarginazione e di negazione dell’altro che fanno prevalere la barbarie sulla civiltà.
Leggendo insieme il libro di Antonello Mangano, La Spoon River dei braccianti, Meltemi, Milano 2023, e il libro di Tali Sharot e Cass R. Sunstein, Guardare meglio. Perché l’abitudine ci rende ciechi, Raffaello Cortina Editore, Milano 2024, si può avere una misura di come si produce il nostro autoaccecamento.
Ioan Puscasu viveva a trenta chilometri da Torino ed è morto in una serra incandescente, dove lavorava in nero senza limiti di orario e per pochi soldi. Come in un film dell’orrore, quando i padroni hanno visto il cadavere, lo hanno spogliato, lavato e rivestito per evitare sanzioni. Ioan è soltanto uno degli eroi dimenticati di un’immaginaria Antologia di Spoon River dei campi italiani. Decine di braccianti, uomini e donne, italiani e stranieri, accomunati da una morte atroce sullo sfondo del lavoro agricolo: chi bruciato vivo nei ghetti, chi ricacciato nell’emarginazione dal rifiuto della richiesta di documenti, chi vittima del razzismo istituzionale e chi ammazzato nei più violenti luoghi del Paese dove prevale ancora una mentalità mafiosa. I drammi e le ingiustizie raccontati in queste pagine non conoscono latitudine e nazionalità, perché le morti nelle campagne hanno spesso radici ben più profonde. Sono storie che rivelano in filigrana la società italiana: il razzismo diffuso, l’economia tribale di imprenditori improvvisati e onnipotenti.
Il semplice diventa invisibile non solo agli occhi, ma al nostro mondo interno e non raggiunge più la nostra sensibilità: è il tempo dell’indifferenza.
“Sei nero? Allora lavori in nero!” E in nero puoi anche vivere, e soprattutto morire. Il libro di Mangano associa la condizione dell’antologia di Spoon River al presente. Uscita nel 1914, l’originale era una raccolta di poesie con cui l’americano Edgar Lee Masters dava voce ai defunti di una comunità rurale immaginaria, Spoon River – richiamati come fantasmi a raccontare uno per uno le loro storie. In un momento politico in cui i freni del pudore e della vergogna nel dire certe cose sembrano decisamente in via di esaurimento, qui i vinti stranieri di casa nostra escono dalle pagine ancora più vinti, come nelle storie individuali di braccianti agricoli e lavoratori senza diritti finite puntualmente in tragedia.
Il problema siamo noi, e quello che siamo disposti ad accettare, se le cose rimangono così. È un mondo il nostro che gira ormai alla rovescia. I morti di fame per lavoro come questi della Spoon River dei braccianti di Mangano non fanno notizia, non sono un problema di coscienza, non assumono rilevanza sociale. Si guadagnano al massimo qualche trafiletto in cronaca, con il solito rituale di costernazione, come se ogni volta si trattasse di cose straordinarie, mentre quelle cose sono semplici, non della semplicità che piacerebbe a noi, come ci ricorda Primo Levi. A noi che non vogliamo guardare meglio.