Dialogo tra Eloisa Morra e Lavinia Mainardi

Autore

Lavinia Mainardi
Laureata in filosofia con una tesi in estetica nell'anno 1994 presso l'Università degli studi di Bologna, Lavinia è una curiosa, ambientalista, studiosa di estetica e di filosofia del paesaggio, semiotica, iconologia, iconografia e visual studies

“…Capii quale esperienza è possedere, a differenza dell’uomo, un corpo da animale da muta, un corpo che cresce e cala come quello della luna o si spoglia e rinnova come quello del serpente. E afferrai di colpo quei miti della luna e del serpente che gli antichi e i “selvaggi” hanno sempre affiancato alla donna. Questi non erano tabù, superstizioni. All’origine, prima che si corrompessero in superstizioni, erano, in forma di figure o di analogie primordiali, intuizioni assai acute di corrispondenze segrete nell’esserci, modi di fermare legami misteriosi e sfuggenti fra i modi di esistere, e di tenerli annodati in maniera che tutto ciò che esiste finiva con l’essere un tessuto continuo, vibrante. Chissà, riflettevo, mentre mi sentivo “io”, ritagliata in una sagoma, pronta al distacco e decisa da una decisione più forte di me, se provo questo io, dopo centinaia e migliaia d’anni di civiltà, che cosa provavano le donne antiche o “selvagge” che dovevano sentirsi luna, serpente, tessute dentro (infinitamente più dentro di quanto sia possibile a me) gli aspetti dell’esistenza. Quale evento assoluto, sacrale e sgomentevole, doveva essere stata una nascita, un tempo, dentro una caverna o in una foresta, quando si ignorava la paternità e il processo della generazione. Adesso mi sembrava di capire perché i primissimi uomini che seppellirono i morti li spalmavano completamente di ocra rossa. Si dice il sangue. Ma si trattava del sangue delle donne, del sangue vitale delle nascite”.

Questo passaggio tratto da “La mela e il serpente “di Armanda Guiducci, sembra condensarne la complessa, prismatica visione, che, se nata nella temperie del primo femminismo, di cui seppe assorbire aneliti, temi e rivendicazioni, sarebbe al contempo riduttivo ascrivere a quella sola esperienza. Il femminismo come il contemporaneo operaismo, le lotte studentesche, furono prassi collettiva, azione nella condivisione, nell’occupazione fisica e simbolica di spazi negati con strumenti politici e afflati libertari, nel tentativo di conquistare una differenza innanzitutto ontologica e quindi difficilmente parcellizzabile nei vissuti di singole storie.

Ora la distanza, i depositi che il tempo sedimenta separando l’essenziale da tanto ridondante materiale pronto per essere archiviato, permettono, ossimoricamente, di declinare l’esperienza del femminismo italiano nelle soggettività di figure che rileggiamo con lo stupore che merita la loro scrittura.

Se la recente ristampa dei testi-manifesto di Carla Lonzi ne ha rinnovato le istanze più politiche e radicali, con Armanda Guiducci, la cui opera è in via di ripubblicazione per l’editore nottetempo a cura di Eloisa Morra, ci confrontiamo con un’intellettuale difficilmente riducibile a categorie.

Classe 1923 , napoletana ma vissuta a Milano, laureata in Filosofia con Antonio Banfi e dotata quindi di una solida formazione marxista, antropologa, redattrice in alcune delle riviste che animavano il dibattito culturale allora così permeabile da plurime suggestioni e in perenne fermento, critica, traduttrice, scrittrice, risulta difficile ridurla ad un solo percorso.

Mutuando una felice dicotomia di Luciano Anceschi , Armanda Guiducci potrebbe quindi porci il dubbio sull’autonomia o l’eteronomia del femminismo, che in lei fu espressione vitale e personale di rivolta ad una società patriarcale ed ancestrale venata di superstiziosa sottomissione, diario psicanalitico, investigazione etnologica, registrazione di esperienze altre per vissuto e cultura, anelito partecipato ad un superamento di dualismi già allora percepiti come fuorvianti, nella consapevolezza della pervasività di una nascente società capitalista, le cui magnifiche sorti e progressive aveva già percepito come amplificazione delle diseguaglianze e strumento di controllo socio-biologico, quasi di repressione neocoloniale.

Eloisa Morra, Professoressa associata di Studi italiani all’ Università di Toronto, dove coordina il progetto Sciascia Archive, critica e autrice di monografie su Calvino, Gadda, Scialoja in cui indaga le connessioni tra letteratura e arti visive, attraverso la curatela della riproposizione del corpus di scritti, ha letto ed interpretato l’opera di Armanda Guiducci con gli strumenti ermeneutici dell’attuale critica. Cerchiamo con la sua guida di sondarne la visione più in profondità.

Professoressa Morra perché la scelta di riproporre ora Armanda Guiducci?

A spingermi a proporre all’editore nottetempo la riedizione delle opere di Armanda Guiducci è stata la radicalità del suo pensiero, intimamente conflittuale. La rivoluzione femminista non è letta in chiave separatista, piuttosto in dialogo con altre rivoluzioni, altre marginalità. È in un certo senso una pensatrice intersezionale ante litteram, oltre ad essere una scrittrice davvero sorprendente per lo stile, la profondità, la volontà di sperimentare e mai ripetersi di libro in libro. Andava assolutamente riportata in libreria, per farla incontrare a nuove generazioni di lettrici e lettori. 

Cosa pensa resti della complessiva esperienza del femminismo italiano degli anni ’70? Ritiene possibile mapparne una sintetica cartografia? Rileggere quest’autrice, curarne la bibliografia, entrare, scavare, indagare fra le sue parole -Lei così giovane nonostante l’ampiezza del curriculum- ha significato un po’ rispecchiarsi -il doppio in fondo è figura letteraria e psicanalitica e non può non sfiorare chi pratica testi così densi- o ha sentito con Armanda Guiducci uno iato generazionale troppo ampio?

 “La mela e il serpente” segna uno spartiacque nella biografia intellettuale di Guiducci, che -tutto sommato- fino al 1974 aveva rivestito una posizione laterale rispetto ai femminismi. Questo anche per ragioni generazionali (era ben più anziana rispetto a Lonzi, per dire), e di formazione: la dialettica, il conflitto di classe non smettono mai di reagire con altri elementi fondanti del suo fare femminismo, la riflessione antropologica e la prospettiva auto-analitica, oltre alla critica letteraria. 

La curatela è un servizio ai lettori, un atto d’amore per l’autore; c’è sicuramente un aspetto della formazione di Guiducci che mi ha colpita in modo particolare, il suo arrivare al femminismo dalla critica letteraria. Per quanto riguarda la distanza, invece, sicuramente mi è stato difficile rispecchiarmi in una donna che si è formata in un mondo molto maschile (da qui l’annessa inusuale invidia per il maschio, impensabile per me cresciuta negli anni ’90) e molto borghese. 

 in un mondo molto maschile (da qui l’annessa inusuale invidia per il maschio, imp

“La mela e il serpente, autoanalisi di una donna” uscì nel luglio del 1974, in un’Italia patriarcale e provinciale, bigotta e superstiziosa che Guiducci ci ricorda con figure descritte con tratti brevi quanto vividi, chi sono queste donne minori e che importanza hanno nel libro? Trova paralleli con altri personaggi del nostro Novecento letterario?

“La Mela e il serpente” include tante voci di donna, voci che vengono presentate nella loro alterità anche linguistica, come registrate: operaie, contadine, au pair. Sono non privilegiate, costrette a orari di lavoro massacranti e malpagati, perché come dice il proverbio da lei scelto per intitolare un suo libro “La donna non è gente”, vale a dire, la donna non appartiene al genere umano. Credo questo tipo di attenzione per la working class abbia molto in comune con le inchieste di Gabriella Parca, ma anche col lavoro di Joyce Lussu. 

Superstizione dicevamo, ritualità codificate e normalizzate, retaggi di antiche credenze sotterranee, arcaiche osservate da Guiducci anche con l’occhio dell’antropologa. Si cita spesso Ernesto De Martino, uno studioso che l’attuale avanguardia filosofica sta recuperando, penso a Morelli e Pecere fra gli altri, ma vengono alla mente anche le riflessioni “corsare” di Pasolini sulla matrice agraria della società italiana costretta ad assoggettarsi ad una nascente selvaggia industrializzazione. Guiducci sembra imputare molte colpe alla frattura occidentale, cartesiana, fra natura e cultura anticipando molte intuizioni della contemporanea antropologia. Che ne pensa?

Sono pienamente d’accordo con la sua analisi; è nella frattura tra natura e cultura (e nei conseguenti processi di idealizzazione angelicata da un lato, demonizzazione dall’altro) che Guiducci individua le colpe principali.  Credo che questo sguardo lungo, che si muove nel tempo e nello spazio nell’intento di interrogarsi su processi e cause dell’oppressione, sia uno degli aspetti più originali del suo lavoro. Lo ‘scaffale antropologico’ de “La mela e il serpente” è ricchissimo, tra l’altro, e molto aggiornato; va in parallelo col suo lavoro di critica (e a volte traduttrice) di testi di antropologia. E non va tralasciato un nome che non compare quasi mai nel libro, ma è sempre presente, quello di Cesare Pavese. 

In questa ottica qual è il rapporto di Guiducci con la nascente pervasività capitalista, con la cultura borghese accusata a ragione di ignorare le periferie, i Sud della terra, le comunità rurali?

Un rapporto di critica profonda, radicale, una battaglia combattuta con tutte le armi che l’intelligenza di Armanda Guiducci aveva a disposizione. “La donna non è gente”, l’inchiesta sulle contadine apparsa per Rizzoli nel 1977, è un libro che costituisce un atto d’accusa contro un sistema patriarcale appoggiato dalla forma mentis borghese. 

E anche le opere più tarde, penso a “Donna e serva”, approfondiscono questi aspetti, attraverso l’analisi, lo studio accademico, ma anche le inchieste sul campo. 

Penso alle acute pagine sul sistema moda, dove si cita la semiologia e Roland Barthes, eppure mi sembra ci sia latente quasi un rimprovero alle donne che cercano un’affermazione in settori lavorativi nuovi e guardano ad un’emancipazione ad esempio attraverso la carriera, mi sbaglio? O forse anche questa è una forma di patriarcato “mascherato”, l’imposizione di uno status maschile venato da accesa competitività in luogo di una solidarietà da estendere a più soggetti possibili?

Credo che, al di là di aspetti biografici su cui non credo sia opportuno soffermarsi troppo, Guiducci sia perplessa rispetto a una emancipazione senza femminismo, che legge come risultato della “logica della scarsità” (mors tua, vita mea, solo una di noi può affermarsi: ennesima trappola del patriarcato). Essere emancipata, avere un buon percorso professionale non vuol dire necessariamente vivere una vita femminista; fare femminismo significa combattere per smantellare un sistema gerarchico e farlo per tutte, non per sé. 

“La mela e il serpente” è una rottura forte con tutto ciò che, saggio o romanzo, lo precede: c’è ad esempio una centralità della corporeità difficilmente letta in Italia. Anche se intenzionalmente vuole essere una riappropriazione del sé corporeo in chiave emancipativa, non Le sembra invece che in alcune pagine Guiducci si avvicini a certe ascesi medievali, ai martiri delle mistiche, ai digiuni di santa Caterina?

Si, il corpo è la bussola del libro, la chiave di tutto. Ci sono pagine bellissime a riguardo, in cui l’io narrante si osserva allo specchio. 

C’è una attenzione per la corporeità, il desiderio, uno specifico tipo di prosa che mi ha fatto pensare al “Cantico dei cantici”; ma credo che anche nella sua suggestione potrebbe esserci del vero, visto che Armanda amava molto la tradizione delle ascete e mistiche medievali, al punto da dedicare due volumi molto belli, stampati alla fine degli anni ottanta, a queste figure mirabili.  

A proposito di fisicità, centrale nel libro è anche una sorta di araldica del corpo, delle sue secrezioni, del sangue femminile, che valse all’epoca molte critiche all’autrice, un’insistenza che ancora una volta ha connotazioni metastoriche ed è propedeutica alla terza parte, a mio avviso la più ideologicamente ambigua, incentrata sulla maternità. Ogni precedente esperienza, ogni tormento vissuto, ogni pulsione anche repressa sembrano finalizzati al raggiungimento dello statuto di madre. Statuto che se a volte vissuto come malattia, altre come oppressione, più spesso ha la connotazione di unico destino riservato alla donna.

Le prime pagine del libro, quelle sulla scoperta delle proprie mestruazioni, credo siano davvero d’impatto per chiunque tra le lettrici. Io personalmente ho trovato ‘Mater mystica’, il capitolo sulla maternità, tra i più innovativi e sorprendenti; fa una certa impressione pensare che “Nato di donna” sia stato concepito due anni dopo. Non penso che Guiducci vedesse la maternità come unico destino possibile (anzi, si sarebbe battuta per il diritto all’aborto), ma che volesse decostruirne i miti, sia positivi che negativi. Essere madre è visto innanzitutto come esperienza conoscitiva da attraversare in pienezza. 

Una maternità tuttavia biologica, di sangue appunto, ortodossa nella sua generazione e nel suo essere finalità precipua della femminilità. Forse solo Luisa Muraro era riuscita ad attribuirle una valenza così simbolica e relazionale, anche se in chiave – va sempre sottolineato- antipatriarcale e di liberazione. Confrontare questo femminismo “della differenza” alla prospettiva intersezionale, alle parentele di Haraway, al postumano di Braidotti, non rischia di “retrocedere” Guiducci ad una posizione reazionaria o quanto meno lambita da un certo involontario conformismo?

Non credo. Penso anzi sia interessante storicizzare; certo, la “Mela” è imperniato sul corpo femminile (“il primo atto di un femminismo nuovo starà non tanto nella rivendicazione erotica oltranzista ma, prima, nell’accettazione che la donna saprà fare del proprio corpo”, scrive Guiducci), dalle mestruazioni fino al parto. Ma non si parla solo di maternità in senso biologico, o di ‘famiglia tradizionale’: mi ha colpito moltissimo nella terza parte il riferimento a casi di procreazione medicalmente assistita, in quel momento discussa solo in America, il tutto nell’Italia del 1974. La riflessione sull’apporto della scienza a una ridefinizione dei confini e modalità della maternità (“maternità solitaria”, e non in senso peggiorativo) porta Guiducci, in un’intervista che cito in prefazione, a prefigurare nuove forme di genitorialità, il che non è poco. Come non è un qualcosa da poco la maternità ridefinita attraverso uno sguardo rivolto a sé ma al contempo alle altre, in un caleidoscopio di esperienze molto diverse tra loro (qui, di nuovo, mi torna in mente Rich). Penso che l’imprescindibile lavoro di Muraro non neghi questa capacità anticipatrice. 

Ho letto inconsciamente la prima parte del libro con la voce narrante di Alba Rohrwacher, la Lenù televisiva dell’“Amica geniale”. Quale parentela con la misteriosa Elena Ferrante c’è secondo Lei, come con certe scritture femminili e penso ad Alba de Céspedes, a Cristina Campo, ad Anna Maria Ortese?

È una consonanza interessante, notata anche da Beatrice Manetti in una sua recensione al libro. Credo Ferrante abbia letto “La mela e il serpente”.

Il doppio è stato il fil rouge di questo incontro. Ecco mi piace in chiusura andare al richiamo di Armanda Guiducci a Lilith, l’apocrifa prima moglie di Adamo nata come lui dalla terra e non da una sua costola, che nel tempo, attraverso manipolazioni rabbiniche e cabalistiche, venne trasformata in un demone della terra di Edom, come ci ricorda Giulio Busi, una donna- demone, generata per trasgredire ed animata da insaziabili appetiti, creatrice di mostruosa progenie (proprio come la povera Rosalina de “La mela e il serpente”). Come non collegare “Calibano e la Strega” di Silvia Federici, dove si connettono stregoneria e capitalismo, alle potenti intuizioni di Armanda Guiducci, la necessità del cui pensiero all’interno dell’orizzonte del femminismo e della letteratura non è più trascurabile.

“La gente godeva molto quando bruciavano le streghe. Si sentiva liberata”, scrive a un certo punto Guiducci: sì, credo che le somiglianze col pensiero di Federici siano molte (pur nelle differenze: Guiducci, ad esempio, era contraria alla retribuzione del lavoro domestico femminile). Il rapporto tra femminile, capitalismo e lavoro dà alcuni spunti ne “La Mela e il serpente”, ma diventerà centrale sia nei testi d’inchiesta come “La donna non è gente”, sia in quelli più strettamente accademici degli anni ’80, penso in particolare a “Donna e serva”.

Un invito dunque a non fermarsi all’inizio di questo necessario progetto editoriale.

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