«Forse quello che io cerco di leggere nei libri degli altri e cerco di scrivere nei miei è proprio la possibilità di lanciare avvisi ai naviganti, avvisi a quelli che, come me, vanno per mare».
Daniele Del Giudice
Nel 2020 l’artista Elena Bellantoni realizza un video durante il confinamento casalingo dovuto al Lock-down per contrastare il Covid-19, dal titolo I Fear, un autoritratto video performativo in cui l’io si “identifica” nella paura.
Descriverlo lo priverebbe della sua forza. Si trova disponibile on line con una comune ricerca.
Lascio anche che sia l’artista direttamente a spiegarne il concetto sottostante, con parole che lei stessa ha scritto per Espoarte il 27 agosto 2020: “Il corpo, il nostro personale corpo, come spazio di esistenza e come luogo di potere, come nucleo di procreazione e di impiego di efficienza, è diventato il nuovo spazio all’interno del quale si manifestano le aggressive politiche di confine che concepiamo e sperimentiamo da molto tempo sull’Altro da noi, ingaggiando una battaglia al virus, agli “intrusi”. Lo spazio che percorriamo così come l’aria che respiriamo vogliamo che sia solo nostra, se incontriamo qualcuno camminando siamo pronti a cambiare marciapiede o ad attraversare anche la strada. Sfiorarsi è identificato come una minaccia e, allo stesso tempo, come un bisogno. Il confine è diventato oggi la nostra stessa pelle. Per molto tempo abbiamo inviato migranti, profughi ed esuli, i minori, i richiedenti asilo, i senza fissa dimora nei centri di “accoglienza” dei luoghi sospesi, in between. In questi mesi siamo stati noi a vivere in una forma di carcerazione dentro le nostre stesse case”.
Ma siamo veramente minaccia? Quanto sta costando al Pianeta il nostro bisogno di sicurezza?
Ho la convinzione che gli accadimenti crudeli della lunga storia inclusi gli accelerati eventi che affliggono l’umanità oggi, come il cambiamento climatico, la pandemia, i fronti di guerra, le retoriche populiste dilaganti, dipendano da una distorsione su larga scala del concetto di ‘sicurezza’, che ci accompagna da sempre. Siamo animali terrestri con scarsissime dotazioni naturali di autodifesa rispetto ad altre creature. Non abbiamo corazze, né artigli o vista e olfatto sofisticati.
Nasciamo quasi in stato larvale, completamente dipendenti dai nostri genitori nella cura e nutrimento. Ci mettiamo un anno più o meno per camminare, e almeno una ventina di anni per essere nella condizione fisica dell’autonomia, mentre per quella psichica ci vogliono altri anni (quanti anni dipende dalla cultura di appartenenza. Alcuni non raggiungono mai quella maturità).
Abbiamo un enorme cervello che necessita di sviluppo extra-uterino, da cui deriva la nostra coscienza, il linguaggio, la capacità immaginativa, con la quale abbiamo surclassato ogni altro essere vivente.
L’intelligenza ci ha permesso di produrre tecnologia, di “migliorare” le nostre condizioni di vita, nel senso di garantirci -appunto- maggiore sicurezza, dai predatori, dagli eventi atmosferici, dalla fame, dalle malattie. Ma la tecnologia stessa ci plasma in un rapporto di co-evoluzione non sempre in una direzione migliorativa.
Siamo miliardi di individui, che occupano quasi l’80% delle terre emerse. Siamo la specie più distribuita e pervasiva della faccia della terra. La nostra sicurezza non è più difendersi solo dalla natura, che pieghiamo ovunque alle nostre esigenze, ma da noi stessi.
Come diceva Bellantoni, il confine è diventato la nostra stessa pelle.
L’uomo proclama, spaccia, vende il diritto alla sicurezza costi quel che costi, a discapito delle altre creature, delle risorse naturali, di altri esseri umani attribuendogli inferiorità o pericolo. Del resto fin dalla sua comparsa, sapiens ha sterminato qualsiasi altra razza umana che abitava il globo.
La ricerca di sicurezza ci spinge paradossalmente da un lato ad attraversare i deserti e i mari con mezzi di fortuna, dall’altro a condurre un genocidio. Dove sta l’equilibrio?
Sicurezza deriva dal latino securitas, formata da se- e –cura ‘senza preoccupazione’. Secondo la Treccani, sicurezza è anche la possibilità di prevenire, eliminare o rendere meno gravi danni, rischi, difficoltà, evenienze spiacevoli, e simili. Il sostantivo si arricchisce poi di una serie di determinazioni che vanno dal personale, al politico, al giuridico, fino al sociale.
Nella cultura Occidentale, il momento storico in cui si colloca la riflessione filosofico-politica sulla sicurezza risale ai secoli XVII e XVIII secoli, quando i filosofi Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseau pongono la sicurezza al centro del concetto di patto sociale (o contratto sociale). In questa visione, la sicurezza non è solo protezione fisica, ma anche ordine, stabilità e legittimità del potere politico. E secondo i filosofi citati, si combina con un’altra parola decisamente rilevante, ovvero “patto”, che deriva dal latino pactum, dal verbo pacisci «patteggiare», che guarda caso ha la stessa radice di pax pacis, ovvero pace. Si dà sicurezza quando si sancisce un patto all’insegna della pace. Senza pace non può esistere il patto. Nel pactum latino si nasconde actum, -i, atto, che deriva dal verbo agĕre ‘spingere, agire’. Dunque, il patto che tiene al suo interno il concetto di pace, reca anche il concetto di azione. Patteggiare comporta agire. E mi viene da concludere che non si può pensare di vivere in sicurezza senza presidiare attivamente la pace.
La pace non è un dono che scende dal cielo da accogliere passivamente. Anche nella cultura cristiana, il rapporto fra uomo e Dio viene sancito da una relazione attiva, il famoso patto o alleanza, costituita da prove, relazioni, dubbi, presenza reciproca, sfide, incomprensione, amore. La pace come presupposto della sicurezza, richiede impegno attivo, stare nello spazio generato dalla relazione.
Mentre scrivo, ricorre l’anniversario della nascita di una immensa poeta, scrittrice, giornalista, Ingeborg Bachmann, che si è interrogata per tutta la vita sul peso del linguaggio nella vita umana.
Scrive: “Le parole sono quelle che sono, vanno già bene così, ma il modo in cui noi le mettiamo e le usiamo, raramente va bene. E quando va male, esse ci uccideranno”.
La sicurezza uccide: in suo nome atrocità innumerevoli vengono agite. Oggi in presa diretta. E quando va male, le parole uccidono, come dichiara Bachmann.
E pure, le parole hanno anche un altro potere.[
Cosa significa essere al sicuro in tempo di guerra? Significa vergognarsi,
del tuo sorriso,
del tuo calore,
dei tuoi vestiti puliti, delle tue ore di noia,
del tuo sbadiglio,
della tua tazza di caffè,
del tuo sonno tranquillo,
dei tuoi cari ancora vivi, della tua sazietà,
dell’acqua disponibile, dell’acqua pulita,
della possibilità di fare una doccia,
e del caso che ti ha lasciato ancora in vita!
Mio Dio,
non voglio essere poeta in tempo di guerra.
Hend Joudah, da AA. VV.
Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza, Fazi Editore, 2025
Per quanto disperati, i poeti scrivono anche nei tempi dell’orrore. La parola continua a stillare, resiste e testimonia. La parola scalfisce l’apatia della mente e lancia un appello per tornare al pactum, come aveva ben registrato Daniele Del Giudice. Chi è desto ha il dovere di lanciare un “avviso ai naviganti”, per far sì che si torni alla luce del faro, al porto sicuro.
Pena, l’estinzione.
Sono un’inesperta appassionata di vela. Mi è capitato di fare equipaggio per dei trasferimenti, portando via mare la barca da un porto all’altro per esigenze degli armatori.
Li ritengo in assoluto i momenti più formativi per imparare a veleggiare, ma soprattutto assecondano la mia indole speculativa. Non sono certa l’unica a sentirla così. Lasciando da parte la letteratura (Omero, Konrad, Melville per citare alcuni colossi), il libro del filosofo Roberto Casati, Oceano. Una navigazione filosofica, 2022, Einaudi, descrive l’esperienza della vela nella chiave che intendo. L’immersivo contatto con i giganti naturali del vento e del mare scompensa il nostro delirio di onnipotenza in qualità di animali terrestri. Come le ascese alle vette del mondo, pone fisicamente sulla soglia della consapevolezza della strettissima relazione esistenza/inesistenza.
In barca ogni gesto, oggetto, pensiero rimanda inesorabilmente all’idea di sicurezza. Qualsiasi disattenzione ci mette di fronte concretamente al pericolo. Viceversa, il desiderio di sicurezza assume una forma fisica, tangibile nell’approdo, che sia una boa, che sia una banchina, una spiaggia, uno scoglio.
La prima esperienza di avvistamento del faro è stata molto emozionante. Un luccichio tremolante, che gradualmente si rende pulsazione luminosa. Un fraseggio ritmato di luce e ombra. L’associazione immediata del porto sicuro. Mi hanno poi spiegato che ogni faro “pronuncia il suo nome”, attraverso l’alternanza di segnali luminosi e pause di oscurità. La sicurezza trasfigurata in luce e in nome.
Pur abituata, ancora oggi entrare in porto rappresenta l’allontanamento dalla vertigine dell’alienità del mare, verso il recupero di una confidenza con la terra. Nel film di Matteo Garrone “Io capitano” del 2023, il protagonista scoppia in un urlo liberatorio che è anche il titolo del lungometraggio, quando avvista la terra. Siamo quotidianamente testimoni di quanto sia diversa la sorte di altri migranti.