“Il tempo è un altro” (a cura di Ivana Margarese): Dialoghi con Anna Maria Ortese

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Il prezioso volumetto uscito per Iacobelli lo scorso marzo sotto la curatela di Ivana Margarese è una miscellanea che si presenta leggiadra nella forma e leggera (nell’accezione calviniana del termine) nei contenuti. Il libro contiene saggi di autrici di diversa formazione ma che gravitano tutte nell’orbita d’interesse dei gender studies: Monica Acito, Lea Barletti, Lilia Bellucci, Annachiara Biancardino, Rossella Caleca, Gianna Cannì, Lavinia Mannelli, Ivana Margarese, Gisella Modica, Giusi Murabito, Nina Nocera, Rebecca Rovoletto. 

Non è un’appropriazione indebita o arbitraria questo mio riferimento alle amiche geniali. Infatti, tutte le autrici dei contributi si dimostrano amiche di Ortese e geniali nel produrre un dialogo fedele a loro stesse: Monica Acito e Lavinia Mannelli scelgono di dedicarle un racconto; Lea Barletta crea una piccola sceneggiatura teatrale; Giusi Murabito inventa un testo a metà strada tra la manualistica e il récit; le altre studiose scelgono la forma saggistica con tanto di note al piede o integrate, in base alla loro formazione di provenienza. 

Come mai richiamo Elena Ferrante in questa sede? Le due scrittrici – si sa – sono accomunate da alcuni orizzonti narrativi in comune, primo tra tutti, ovviamente, lo sfondo napoletano. Gallimard, casa editrice francese che pubblica attualmente le opere di Ortese lo segnala proprio sulle fascette di corredo alle nuove edizioni, familiarizzando con un legame amicale tra le due scrittrici, seppure vissute e operanti in due dimensioni temporali diverse. Per esempio, l’ultima edizione francese de La mer ne baigne pas Naples, viene presentata come «Anna Maria Ortese: une inspiration essentielle pour Elena Ferrante». L’affettuosa accoglienza francese è di vecchia data e il 5 e 6 dicembre dello scorso anno, in una Chambéry scintillante per gli addobbi natalizi, si è svolto un convegno dedicato a AMO, acronimo con cui Anna Maria Ortese si firmava talvolta. Che il suo acronimo sia omografo con la prima persona singolare del presente del verbo amare è una coincidenza piacevolmente pertinente, perché la scrittrice non solo è stata evidentemente capace di provare amore, ma soprattutto suscita oggi sentimenti d’amore sia per come ha condotto la sua vita sia per come ha raccontato il suo mondo interiore, tanto nella narrativa quanto nelle sue scritture giornalistiche e saggistiche. Ortese era in grado di provare una forma d’amore speciale per le creature più indifese, dai bambini agli animali, finanche agli adulti marginalizzati ed esposti alle intemperie dell’esistenza, compresa quella editoriale. Lea Barletti, da attrice e drammaturga qual è, dialoga con Ortese giocando proprio sull’acronimo. La sua mini-sceneggiatura è in tre atti. Nel primo è Lea a intervistare AMO, nel secondo atto la situazione si capovolge ed è AMO a porre le domande a Lea. Nell’atto finale AMO si umanizza in ‘amo’. 

Il volume di Margarese si apre con la prefazione di Monica Farnetti, studiosa delle questioni femminili, la cui delicatezza è nota, e ha lo stesso suono di quella ortesiana. Farnetti è stata anche madrina d’eccezione al convegno di cui si diceva, durante il quale, in apertura, la studiosa ha parlato delle amiche di Ortese, consentendo di mettere subito a fuoco la questione al centro delle riflessioni attuali sulla scrittrice. Sono infatti ben noti alla critica diversi epistolari, tra cui quelli con Dario Bellezza (Bellezza, addio. Lettere a Dario Bellezza 1972/1992, a cura di Adelia Battista, Milano, Archinto, 2011) e Pasquale Prunas (Alla luce del Sud. Lettere a Pasquale Prunas, a cura di Renata Prunas e Giuseppe Di Costanzo, Milano, Archinto, 2006), che testimoniano la crucialità delle amicizie marchili, ma solo recentemente ci si sta interessando alle amicizie femminili. Infatti, è con Vera gioia è vestita di dolore: lettere a Mattia (Adelphi, 2023), proprio a cura di Farnetti, che è emerso il sommerso, e cioè il ruolo che le figure femminili hanno avuto nella vita di Ortese. La storiografia – si sa – tende a fornire un’immagine parziale di un fenomeno, di un individuo, di un’opera. Per fortuna, ogni tanto i tempi cambiano. Oggi il tempo sembra finalmente essere quello ‘altro’, in cui Ortese collocava l’artista che viene dal nulla e ritorna nel nulla, avendo percorso una traiettoria sbagliata, fuori le mura della città umana e sociale (Corpo celeste), e che fornisce il titolo al volume di Margarese, come rivela l’esergo dell’introduzione.

La collettanea è dunque un tributo alla scrittrice, cui tutte le autrici sembrano rivolgersi avviando un discorso «plurale, inclusivo e antidogmatico», come lo definisce Biancardino. 

La curatrice Margarese ha un lungo percorso individuale di valorizzazione di artisti (e in particolare di scrittrici) più o meno dimenticati dalla storia o che hanno provato e provano a far sentire la loro voce autoriale dal margine. «Non è la prima volta, del resto, che l’animatrice di questo progetto si mostra sapiente architettrice», come nota Farnetti nella prefazione, aggiungendo che «uniche, diverse l’una dall’altra e per ciò stesso ciascuna irripetibile sono infatti le studiose qui radunate». Una di loro, Annachiara Biancardino, si pone nell’ottica del dialogo silenzioso – quasi una preghiera – e non mi pare un caso che scelga proprio di parlare dell’Iguana, la creatura più delicata e significativa dell’olimpo ortesiano – esordio che dopo sessant’anni esatti risulta ancora giovane, vigoroso e leggero al tempo stesso -, in relazione alle riflessioni ambientaliste e animaliste espresse poi in Corpo celeste. Ho parlato di olimpo per la postura creaturale in cui Ortese è immersa. Ma sarebbe stato ugualmente appropriato parlare di galassia, riprendendo il titolo della prefazione di Farnetti (La galassia Ortese).

Margarese introduce i lavori ricordando che il volume vuole essere «non una trattazione sistematica o scientifica dell’opera della scrittrice, ma un testo a più voci, che resiste alla tentazione di avere l’ultima parola sulla realtà», per favorire le domande e tenere viva la conversazione sull’opera e sulla persona. Così fa Lilia Balducci, anche lei relatrice al convegno ortesiano menzionato, fornendo un confronto con Leopardi come guida allo sguardo,  a partire dal testo che Ortese dedica al suo pellegrinaggio alla tomba di Leopardi. L’approccio comparatistico è vincente per l’ermeneutica della poetica ortesiana, infatti sono molto ben riuscite le scelte sia di Margarese di metterla in dialogo con Cristina Campo, sia di Antonina Nocera che fa specchiare la dialettica uomo/animale ortesiana in quella di Luigi Pareyson. Invece, Rossella Caleca, che si occupa di salute mentale, individua nella sensibilità ortesiana verso le piccole creature e nell’attenzione verso il perturbante e il mostruoso un terreno fertile per la cura di chi si è smarrito nella dicotomia sano/malato. Gianna Cannì si concentra sugli aspetti pedagogici, riflettendo sulla formazione da autodidatta della scrittrice ed esplorando così le contraddizioni dei percorsi scolastici dell’epoca e attuali. In chiusura, l’architetta Rebecca Rovoletto si concentra su eco-critica, ecologia ed eco-femminismo, tutte declinazioni possibili del pensiero ortesiano, laddove Gisella Modica aveva già approfondito la funzione politica della letteratura secondo Ortese, ricordando le battaglie sul colonialismo e l’emergenza abitativa.

Mi sembra significativo che tra le autrici che hanno preso parte a questo dialogo silenzioso ma incisivo con Ortese sia venuta a intessersi una rete di collaborazioni basata su affinità elettive e comuni sensibilità intellettuali. È come se il volume di Margarese riproponesse nel tempo presente la rete relazionale al femminile di Ortese. E mi riferisco, per esempio, oltre alle amiche dei fitti scambi epistolari, Marta Maria Pezzoli e Helle Busacca (Ama ciò che ti tortura, De Piante, 2024), all’amicizia con la scrittrice Ginevra Bompiani e con la studiosa Adelia Battista, autrice di diverse monografie su Ortese e della prefazione della raccolta di lettere all’amico francese Patrick Mégevand, Pensare l’alba al fondo di una notte d’inverno. Lettere di Anna Maria Ortese a Patrick Mégevand (1978-1997) (Ventimiglia, Philobiblon Edizioni, 2017). Mi piace notare qui che la frase di Ortese, ripresa da una lettera del 1979 e riferita all’auspicio di una generazione nuova più coinvolta nelle vicende sociali, sembra dire quasi la stessa cosa riguardo a l’été invincible di cui parlava Albert Camus in « Retour à Tipasa » nel 1953, pubblicato poi nella raccolta di saggi L’ été (Gallimard 1954): «Au milieu de l’hiver, j’apprenais enfin qu’il y avait en moi un été invincible». Per quanto lei stessa esposta alle intemperie della vita e dell’editoria italiana, Ortese è riuscita sempre a tradurre in parole di luce le tenebre che ogni essere umano attraversa e cui sottopone l’ambiente in cui vive: è una invincibile forma di ottimismo, uno stare al mondo tra gioia e dolore senza temere nessuna delle due. 

Il pensiero di Ortese, filtrato dalla letteratura e dagli altri generi cui la scrittrice lo ha affidato, pervade oggi tutti i campi del sapere, dalla filosofia alla biologia, dal femminismo all’urbanistica.  Di assai speciale in questo volume di Margarese, è bene ribadirlo con le parole di Farnetti, c’è che 

a promuovere questo processo, che è interazione di saperi nonché messa in valore di quello specifico della letteratura, è un gruppo assai diversificato di studiose e professioniste, ciascuna delle quali ha seguito il pensiero della Ortese in una delle sue incalcolabili diramazioni ovvero se lo è portato appresso.

Il tempo è un altro intende provare – e ci riesce – a dare nuovi natali all’ispirazione ortesiana, mettendo al centro quella luce propria di cui l’autrice brilla, in armonia con quella dolcemente malinconica degli addobbi natalizi ma reale, vitale e inesorabile, come l’alba al fondo di una notte d’inverno. 

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