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Come ripensare oggi crisi e patologie sociali?

Autore

Rahel Jaeggi
Rahel Jaeggi, Professoressa di Practical Philosophy con riguardo particolare alla Social Philosophy e alla Political Philosophy presso la Humboldt University of Berlin, e presso l' Institute for Advanced Study a Princeton.

Alienazione significa indifferenza e scissione, ma anche mancanza di potere e assenza di relazione nei confronti di se stessi e di un mondo esperito come indifferente ed estraneo. L’alienazione è l’incapacità di porsi in relazione con altri esseri umani, cose, istituzioni sociali e anche – questa è l’intuizione fondamentale della teoria dell’alienazione – con se stessi 

Anche se sembrava scomparso dal dibattito nel tempo del capitalismo trionfante, il problema dell’alienazione sembra essere sempre – e forse oggi di nuovo – attuale. Di fronte ai recenti sviluppi economici e sociali si assiste a una crescente inquietudin e che, se non nel nome quanto meno nella sostanza, ha a che fare con il fenomeno dell’alienazione. La vasta ricezione che ha ottenuto il libro di Richard Sennet L’uomo flessibile con la sua tesi sul «capitalismo flessibile» che minaccia l’identità dei singoli e la tenuta della società, le preoccupazioni sempre più forti riguardo le tendenze alla mercificazione o alla «commercializzazione» di ambiti di vita sempre più estesi, e anche i nuovi movimenti di protesta sorti contro la perdita di controllo e l’impotenza di fronte all’economia globalizzata, sono tutti segni di una rinata sensibilità nei confronti di fenomeni che le teorie prima menzionate descrivevano con i concetti di «alienazione» e di «reificazione». E sebbene nel «nuovo spirito del capitalismo» la critica dell’alienazione sembri essere superata in modo cinico – le richieste rivolte al moderno «lavoratore-imprenditore», flessibile e creativo, per il quale non esiste più alcun confine tra lavoro e tempo libero, non sono forse una realizzazione dell’utopia di Marx dello «sviluppo onnilaterale» dell’uomo che «di mattina può pescare, di pomeriggio cacciare e la sera dedicarsi alla critica»? –, le ambivalenze di simili sviluppi sono il segno della persistenza del problema, più che della sua scomparsa. Il presente studio ha lo scopo di far rivivere il concetto di alienazione in quanto concetto fondamentale per la filosofia sociale. Il mio punto di partenza è duplice: da una parte sono convinta che il concetto di alienazione sia ricco di contenuto e produttivo, capace di dischiudere ambiti fenomenici che possono essere ignorati solo al prezzo di impoverire le possibilità di espressione e di interpretazione teorica. D’altra parte, la tradizione con la quale il concetto di alienazione è associato non può essere semplicemente ripresa in modo irriflesso, dal momento che i presupposti di questa tradizione sono stati giustamente messi in questione. Per tale ragione ogni ulteriore discussione sull’alienazione richiede una ricostruzione critica dei suoi fondamenti concettuali. Il concetto di alienazione rinvia a tutta una serie di motivi tra loro interconnessi. Alienazione significa indifferenza e scissione, ma anche mancanza di potere e assenza di relazione nei confronti di se stessi e di un mondo esperito come indifferente ed estraneo. L’alienazione è l’incapacità di porsi in relazione con altri esseri umani, cose, istituzioni sociali e anche – questa è l’intuizione fondamentale della teoria dell’alienazione – con se stessi. Un mondo alienato si presenta all’individuo privo di senso e di significato, come un mondo irrigidito o impoverito, che non è il proprio, in cui non si è «a casa» o sul quale non si può esercitare alcun influsso. Il soggetto alienato diventa estraneo a se stesso, si esperisce non più come un «soggetto attivo ed effettivo», ma come «un oggetto passivo», alla mercé di forze sconosciute. Si può parlare di alienazione «laddove gli individui non si ritrovano nelle proprie azioni» o laddove noi non possiamo essere «padroni dei poteri che noi stessi siamo». 

L’alienazione è l’incapacità di porsi in relazione con altri esseri umani, cose, istituzioni sociali e anche – questa è l’intuizione fondamentale della teoria dell’alienazione – con se stessi 

Per quanto diversi possano essere i fenomeni sopra enumerati, essi ci consegnano un primo abbozzo del concetto di alienazione. Una relazione alienata è una relazione deficitaria che si ha con se stessi, con il mondo e con gli altri. Indifferenza, strumentalizzazione, oggettivazione, assurdità, artificialità, isolamento, insensatezza, impotenza – questi diversi modi di caratterizzare i fenomeni sono forme di questo deficit. Una caratteristica peculiare del concetto di alienazione è quindi che esso si riferisce non solo all’assenza di libertà e all’assenza di potere, ma anche a un peculiare «impoverimento» della relazione con sé e con il mondo. La mia tesi è la seguente: al giorno d’oggi la critica dell’alienazione non può, ma neanche deve necessariamente essere fondata su presupposti «essenzialistici» o «metafisici» in senso forte; essa non può, ma neanche deve necessariamente fare riferimento ad argomenti paternalistici o perfezionistici. La dimensione della critica dell’alienazione rilevante per la filosofia sociale e per l’etica può essere resa accessibile anche senza quei modelli argomentativi fortemente oggettivistici che vengono spesso associati a essa. Ci si può inoltre avvalere del significato critico della diagnosi dell’alienazione senza dovere confidare sulla certezza di un’armonia o di una riconciliazione definitive, sull’idea di un individuo completamente trasparente a se stesso o sull’illusione di potere avere se stessi e il mondo completamente a propria disposizione. La problematica sollevata dal concetto di alienazione cessa di essere interessante precisamente nel momento in cui si presuppone un’armonia prestabilita tra i rapporti, un’«unità» intatta degli individui con se stessi o con il mondo; essa diventa produttiva, invece, quando mette in questione queste relazioni senza assumere che esse possano essere completamente libere da conflitti. Concentrandosi su ciò che impedisce di vivere pienamente la propria vita, essa mette in rilievo le condizioni dei rapporti riusciti con sé e con il mondo, che dal punto di vista normativo possono essere descritte in modo relativamente parco ma non privo di qualsiasi contenuto. 

Il punto fondamentale nel concetto di alienazione potrebbe allora risiedere proprio nella sua capacità di mediare tra alternative non soddisfacenti – tra soggettivismo e oggettivismo etico, tra un’astensione neutrale dalle questioni etiche e l’orientamento a concezioni etiche sostanziali della buona vita, tra l’abbandono dell’idea di autonomia e il rimanere ancorati a concezioni illusorie della soggettività. Il potenziale del concetto potrebbe consistere non tanto nell’assicurare una robusta teoria etica sostanziale, ma piuttosto nell’essere capace di criticare il contenuto di forme di vita, senza dover fare riferimento a un patrimonio di valori etici sostanziali fondato in termini metafisici. Inoltre, il potenziale del concetto potrebbe consistere nella possibilità di qualificare i modi di rapportarsi a se stessi senza dover presupporre un soggetto unitario e padrone di sé. Una vita non alienata, allora, non sarebbe una vita riconciliata, né felice, forse neanche la buona vita. Non essere alienato significherebbe, invece, un certo modo di condurre la propria vita e un certo modo di mettersi in rapporto con se stessi e con le condizioni in cui si vive e da cui si è determinati: significherebbe potersene appropriare

(..) Il concetto di «appropriazione» indica qui un modo di mettersi in relazione con se stessi e con il mondo, di rapportarsi al mondo e di poter disporre di esso e di se stessi. L’alienazione, in quanto distorsione di questo rapporto, riguarda (..) la modalità di realizzazione del rapporto con se stessi e con il mondo e quindi la non riuscita dei processi di appropriazione o il loro impedimento. (..) L’alienazione può quindi essere compresa come il danneggiamento di processi di appropriazione (o come prassi di appropriazione deficitaria). Se quindi il superamento dell’alienazione sembra essere un rapporto di appropriazione riuscito, si possono indagare le condizioni della sua riuscita senza che esso debba perciò essere considerato un processo di tipo teleologico o che può concludersi in maniera definitiva. E tantomeno è necessario pensare questo processo – in termini essenzialistici – come il recupero di un’essenza – già da sempre propria e determinata. 

Un simile procedimento – una ricerca rivolta alle distorsioni dei rapporti di appropriazione – ha delle conseguenze per gli esempi cui si è accennato sopra: anziché definire da un punto di vista materiale o di contenuto i potenziali che l’uomo «onnilaterale» dovrebbe sviluppare, quest’analisi si rivolge alle distorsioni nello sviluppo di interessi e capacità. Anziché rimanere impigliati nei paradossi svianti di una definizione dei «veri» desideri, contrapposti a quelli non autentici e alienati, si tratta qui di svolgere un’analisi delle condizioni della formazione della volontà e dei diversi modi di integrare i desideri. E anziché ricostruire le relazioni sociali a partire da schemi di moralità sostanziale, ci si occuperà qui delle condizioni di attuazione delle pratiche sociali e delle condizioni della loro formazione. 

L’alienazione può quindi essere compresa come il danneggiamento di processi di appropriazione o come prassi di appropriazione deficitaria 

I seguenti aspetti sono quindi decisivi per il mio approccio ai rapporti di appropriazione: 

  • Il concetto di «appropriazione» fa riferimento a una concezione ampia dei rapporti pratici con se stessi e con il mondo. Con esso ci si riferisce a una capacità di rapportarsi a se stessi intesa in senso ampio, alla capacità di avere accesso o «poter disporre» di se stessi e del mondo, ossia di fare propria la vita che si conduce, di potersi identificare con ciò che si vuole e ciò che si fa o in altri termini: di potersi realizzare in ciò. 
  • Dal punto di vista della teoria dell’alienazione il rapporto con il mondo e il rapporto con se stessi sono co-originari. Il danneggiamento del rapporto con sé, il «non poter disporre di se stessi» deve quindi essere sempre compreso anche come un danneggiamento del rapporto con il mondo. Che si tratti dell’appropriazione della storia della propria vita, del «compito di divenire se stessi attraverso le proprie azioni» che trova il suo eco nella «decisione» heideggeriana o nell’appropriazione marxiana delle proprie attività: ci si riferisce qui sempre all’appropriazione del «mondo» e con essa all’appropriazione dei presupposti (variamente determinati) del proprio agire. In questo senso è alienato chi non può rapportarsi a se stesso e (quindi anche) ai suoi presupposti e non può quindi farli propri. 
  • Se da una parte il modello dell’appropriazione così schizzato si rifà al «denso» concetto dell’appropriazione che troviamo anche in Marx, d’altra parte nella mia ricostruzione si tratta proprio di non concepire l’appropriazione come mera riappropriazione di qualcosa di essenzialmente dato. L’appropriazione è un processo produttivo, ciò di cui ci si appropria  è allo stesso tempo risultato del processo di appropriazione. I presupposti ai quali ci si dovrebbe rapportare – in modo non alienato – e la relazione – non alienata – che si dovrebbe realizzare non sono quindi, e questo è determinante, né «inventati» né «costruiti». 

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