Investire in ricerca significa investire in innovazione. La mia “fuga” dall’Italia verso opportunità europee

Autore

Matteo Donegà
Nato a Como il 01 Settembre 1985. Attualmente lavoro come Head of Translational Science per Inbrain Neuroelectronics, una compagnia di neurotecnologie con sede a Barcellona e nata dalla Graphene Flagship, un'iniziativa della comunita' europea che finanzia progetti per lo sviluppo di tecnologie a base di grafene; occasionalmente lavoro anche come consulente per altre aziende di neurotecnologie. Prima di questo lavoro ho lavorato presso Galvani Bioelectronics (UK), una startup nata da GlaxoSmithKline e Verily Life Science, ricoprendo vari ruoli (inizialmente come postodoc e poi come Principal Scientist). Mi sono laureato in Biotecnologie presso l'Universita' di Milano-Bicocca. Ho conseguito il dottorato di ricerca in Neuroscienze presso la University of Cambridge (UK). Sono sposato e attualmente vivo con mia moglie Anne-Laure in Alsazia, Francia.

Vi siete mai chiesti perché tanti ricercatori lascino l’Italia? Che percorso seguano all’estero? Cosa trovano là che qui non trovano? Con queste righe mi piacerebbe dare un esempio di come una vita da ricercatore possa essere plasmata dalla “fuga” all’estero e dal vivere all’interno della Comunità Europea. 

Credo che la mia vita possa essere divisa in due grossi spezzoni. Il primo è rappresentato dalla mia formazione educativa e accademica ricevuta in Italia. Una vita scolastica pressoché nella norma, con un diploma scientifico (Liceo Scientifico E. Fermi a Cantù, in provincia di Como), seguito da un percorso di studi universitario con laurea specialistica in biotecnologie (Università degli Studi di Milano-Bicocca) conseguita nel 2010. Dopo la laurea ebbi un’esperienza lavorativa all’Istituto di Neuroimmunologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Dopo meno di un anno mi si presentò però un’occasione di cambiamento e crescita. Questa rappresentò l’inizio del mio secondo spezzone di vita che ha occupato i successivi 11 anni della mia vita professionale e personale, che prosegue tuttora. 

E’ stato stimato dall’ISTAT che, tra il 2009 e 2015, 14.000 ricercatori italiani siano emigrati all’estero per cercare più fortuna o, più semplicemente, per continuare la propria esperienza formativa. Un dato che probabilmente è sottostimato, riferendosi soltanto a quei ricercatori iscritti all’AIRE (associazione italiana residenti all’estero). Fu proprio in quel periodo (a cavallo tra 2010 e 2011) che anche io mi trasferii all’estero, in Inghilterra, più precisamente a Cambridge. La decisione di trasferirmi fu dettata da numerose ragioni: il prospetto formativo in una delle più prestigiose università al mondo (la University of Cambridge), la possibilità di conoscere ed esplorare nuove culture in un posto a solo un’ora e mezza di volo da casa e la consapevolezza di un futuro lavorativo più complicato se fossi rimasto in Italia. Le prospettive di una difficile carriera scientifica in Italia mi erano già state presentate a più riprese: un percorso accademico tortuoso e competitivo con anni di precariato e la certezza di concorrere con molti per pochissime posizioni di ruolo sparse tra gli atenei italiani. In questo scenario, tanti colleghi e tante colleghe conosciute in Italia stavano già nuotando per non affondare in questo sistema, mentre diversi altri consideravano l’opportunità di andare all’estero. Mio cugino Mauro poi era un fermo sostenitore di questa opportunità essendo anche lui un ricercatore trasferitosi tanti anni fa, ormai, a Ginevra per lavorare al CERN, il Centro Europeo per la Ricerca Nucleare.

La mia nuova vita a Cambridge iniziò con un anno di lavoro presso il laboratorio del Dr Stefano Pluchino (oggi Professore associato all’Università di Cambridge), anche lui uno dei tanti emigrati all’estero in quel periodo. Durante il mio primo anno “applicai” per una borsa di dottorato nello stesso dipartimento (Neuroscienze) e laboratorio. Fui fortunato ad essere selezionato per il programma con una borsa di studio e un progetto internazionale completamente finanziato dalla Comunità Europea. I successivi 3 anni e mezzo li spesi (come ogni dottorando) praticamente tutti i giorni in laboratorio. Lo stress psicologico causato dal vivere in un paese completamente diverso dal proprio e dal ciclo di successi e fallimenti tipici di un dottorando erano alleviati da un fattore inaspettato: la grande maggioranza delle persone presenti nel dipartimento era italiana. La presenza di due ricercatori (“group leader”) italiani, aveva favorito l’arrivo di molti dottorandi e “postdoc” italiani. Il resto del dipartimento era composto per lo più da ragazzi e ragazze provenienti da altri paesi europei: Spagna, Francia, Portogallo e Germania in particolare. Dopo poco tempo mi fu chiaro che la presenza italiana non era elevata solo nel mio dipartimento, ma anche in altri dipartimenti dell’università e del principale ospedale della città. Ancora ricordo le sessioni di palestra con un gruppo di sei medici anestesisti lombardi che rappresentavano la maggioranza degli anestesisti dell’ospedale. L’intera città di Cambridge era popolata da una folta rappresentanza italiana. Comune denominatore tra loro non era solo la provenienza ma anche la stessa ragione che li aveva spinti a partire. 

L’Italia è, da anni, uno dei paesi avanzati con i più bassi investimenti nel settore della scienza e tecnologia. Secondo dati dell’agenzia Europea Eurostat, l’Italia ha investito poco meno dell’1,50 % del proprio PIL nel 2019 (l’ultimo dato disponibile); un dato inferiore alla media europea del 2,19 % e di gran lunga inferiore al 3,17 % della Germania o al 2,2 % della Francia (paesi che non sono nemmeno nei primi posti della classifica mondiale). Il nostro paese è quindi molto al di sotto del 3% di spesa auspicato per il target EU2020. Questo ha ovviamente grosse ripercussioni a livello accademico, dove diventa difficile trovare fondi per fare ricerca e finanziare laboratori o posti di ruolo. Inoltre, la mancanza di investimenti influisce anche sulla ricerca a livello industriale così come sullo sviluppo e sulla commercializzazione che solo industrie all’altezza possono garantire. L’Italia arranca anche dal punto di vista degli investimenti privati in scienza e tecnologia, di gran lunga al di sotto di altri paesi come Germania e Francia, e ancor più rispetto a Gran Bretagna e Svizzera. L’industria rappresenta non solo l’opportunità di commercializzazione di scoperte scientifiche (tramite licenze di brevetti prodotti spesso a livello accademico) e di attrarre ulteriori investimenti ma anche l’opportunità di lavoro per scienziati ed ingegneri, come nel mio caso.

A inizio del 2016 conseguii il mio diploma di dottorato, qualche mese dopo aver accettato un’offerta di lavoro dalla più grande azienda farmaceutica anglo-svedese, chiamata GlaxoSmithKline (GSK). Verso la fine del mio dottorato iniziai la ricerca di opportunità per i miei successivi passi professionali: un contratto da “postdoc”, cioè un contratto a progetto in un laboratorio di ricerca spesso diverso da quello del dottorato, è il passo tipico per molti ricercatori. Mentre ero alla ricerca di un nuovo laboratorio ebbi la possibilità di scoprire più da vicino il mondo della ricerca all’interno di un’azienda. Questo grazie a innumerevoli corsi di orientamento offerte dal dipartimento e dall’università, ma anche ad amici e colleghi che avevano seguito un percorso simile. Dopo un lungo periodo di riflessione decisi di intraprendere questa nuova strada e di andare ad esplorare il mondo della ricerca all’interno di una industria. Inizialmente come postdoc all’interno di un piccolissimo dipartimento, chiamato GSK-bioelectronics. Ci occupavamo di intraprendere un nuovo ramo di terapie sperimentali basati sulle neuro-tecnologie, ovvero sviluppando tecnologie capaci di interagire con il sistema nervoso per stimolare o bloccare processi biologici in grado di interferire con il progresso di alcune patologie. Un’ iniziativa intrapresa da GSK intorno al 2012. Questo piccolo dipartimento, nel 2017, diventò poi una vera e propria startup, chiamata Galvani Bioelectronics, grazie ad investimenti provenienti da GSK e da Alphabet-Verily Life Science, quella che una volta era conosciuta come Google Life Sciences. Per altri 4 anni ho fatto ricerca all’interno di questa startup ricoprendo vari ruoli. 

Durante questi ultimi anni a Cambridge ho anche conosciuto la persona che è poi diventata mia moglie. Di origini francesi, anche Anne-Laure è una scienziata trasferitasi a Cambridge per ragioni professionali. Una carriera accademica simile alla mia, seguita dal lavoro in altre aziende farmaceutiche presenti nell’area di Cambridge (Pfizer ed AstraZeneca), con grandi investimenti in ricerca e sviluppo. 

Alla fine del 2019, io e la mia compagna ci siamo trasferiti in Francia, dove abitiamo da due anni al confine con Germania e Svizzera. Una decisione spinta da motivi personali, come la prossimità alle nostre rispettive famiglie e una maggior vicinanza alle nostre culture e stili di vita rispetto all’Inghilterra (e si, anche Brexit ha influito sulla nostra decisione). La scelta del luogo in cui vivere è stata influenzata anche dal punto di vista professionale: siamo vicini a Basilea (Svizzera), Strasburgo (Francia) e Friburgo (Germania), tutti posti che offrono molte opportunità nel campo delle scienze e delle tecnologie. Mia moglie lavora infatti a Basilea, una piccola cittadina in molti aspetti simile a Cambridge: la grossa presenza di cittadini europei, una vita scientifica e culturale attiva, la presenza di numerosissimi centri di ricerca accademici e soprattutto industriali, con grandi aziende farmaceutiche e piccolo-medie startup. E similmente al sistema Gran Bretagna, anche in Svizzera l’interazione tra università e industria guida il ritorno economico degli investimenti in ricerca: fondi di investimenti privati (“venture capitals”) promuovono e finanziano il trasferimento di tecnologie e brevetti dall’università all’industria dove vengono poi sviluppati in prodotti che vengono portati sul mercato. Io ho proseguito la mia carriera nell’ambito delle neuro-tecnologie sfruttando ancora una volta il sistema Europa e le nuove modalità di lavoro imposte dalla pandemia. Ora lavoro da remoto, da quasi un anno, per una piccola startup basata a Barcellona, chiamata Inbrain Neuroelectronics. Come me, altri scienziati della compagnia lavorano dall’estero (tra Svizzera, Olanda, Belgio) e viaggiano quando possibile e solo se necessario.

Sebbene queste condizioni lavorative possano cambiare in futuro, sono sicuro che la mia esperienza e il mio curriculum mi consentiranno di trovare alternative a Basilea (o altrove), dove persone con una formazione altamente qualificata possono beneficiare di numerose opportunità. 

E’ difficile dire con certezza se la mia carriera professionale sarebbe stata o meno la stessa rimanendo in Italia. Tuttavia ci sono forti ragioni per pensare che così non sarebbe stato. Lo stesso vale per i numerosi amici italiani che ho conosciuto all’estero, la maggior parte dei quali ancora vive, lavora e produce ricchezza al di fuori dell’Italia. Questo fenomeno, definito Brain Drain”, cioè l’impatto economico che la “fuga di cervelli” ha sul nostro paese, ha forti ripercussioni. Soldi investiti per formare tanti ricercatori ad un livello molto competitivo vengono infatti persi con gli interessi quando, una volta scappati all’estero, essi contribuiscono alla produzione di miliardi di euro di ricavati. Stime basate su 50.000 ricercatori residenti all’estero parlano di più di 150 miliardi di euro persi dal nostro paese durante la loro vita lavorativa. Sebbene ci siano iniziative locali che mirino ad ovviare alle mancanze generali del sistema per mantenere scienziati in Italia o per spronare il rientro di quelli emigrati all’estero, queste opportunità sono rare e spesso prive di garanzie a lungo termine. L’Italia produce ancora grande qualità scientifica e rappresenta sempre uno dei maggiori competitori per i fondi messi a disposizione periodicamente dalla comunità europea. Tuttavia, infusioni temporanee di soldi non sono sufficienti. I cambi di programma o di finanziamento dettati da cambiamenti di piani di investimenti o di interventi politici non favoriscono infatti la stabilità necessaria per un sistema di ricerca che funzioni.  

Sebbene ci siano molti problemi economici e non da risolvere in Italia, investire in ricerca significa  investire in innovazione, e questo non può essere più rimandato se vogliamo restare al passo degli altri grandi paesi europei. Investire nella ricerca e promuovere le interazioni tra univesità e industria si traduce a lungo termine in un ritorno economico, guidato dall’attrazione di maggiori investitori e da una maggiore competitività industriale che produce industrie profittevoli e la creazione di nuovi posti di lavoro. Rinunciare alla ricerca significa puntare verso settori industriali meno competitivi, meno capaci di adattarsi al mercato e che spesso si spostano in paesi con ridotti costi di manodopera. Seppure la situazione oggi è ancora negativa, riflessioni e discussioni di questo genere sono oggi portate avanti da scienziati ed ingegneri in modo più organizzato ed efficiente. Gruppi come l’Associazione Internazionale dei Ricercatori Italiani (AIRIcerca; https://airicerca.org/) stanno lavorando per far crescere un ambiente culturale positivo, con proposte concrete provenienti dall’esperienza cumulativa di ciò che funziona e non in altri paesi. Favorire un ambiente culturale attivo facilita il mantenimento di cervelli in Italia, promuove il loro rientro, e ne attrae di altri. Gran Bretagna, Svizzera, Germania (oltre agli USA) lo fanno da decenni e attraggono scienziati e persone altamente specializzate da tutto il mondo. 

La disponibilità di fondi europei post-pandemia e le opportunità presentate dalla rivoluzione ambientale dettata dal cambiamento climatico devono essere viste come un’occasione per creare un nuovo sistema Italia, in cui scienza e tecnologia possano diventare una nuova colonna portante della nostra economia per i secoli a venire.

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