La crisi è una scelta

Autore

Carlo Pacher
Carlo Pacher, classe 1995, lavora per la formazione e lo sviluppo delle persone in La Sportiva. Ha conseguito una doppia laurea in Scienze Filosofiche presso gli atenei di Padova e Jena, in Germania, con una tesi dal titolo: "Intersoggettivà, costruzione, limite. Intorno alla riflessione hegeliana sul linguaggio", tema a cui ha lavorato sotto la guida dei Professori Luca Illetterati e Klaus Vieweg. Precedentemente aveva affrontato il tema della conoscenza di sé in Platone per l'elaborato di tesi triennale con il Professor Carlo Scilironi. Nell'estate 2021 ha preso parte al corso executive "Strategie e nuovi modelli di sviluppo sostenibile" presso CUOA Business School. Attivo in più realtà di volontariato sociale a livello locale, musicista per passione.

C’è chi va in crisi davanti al menù del ristorante, chi per la valigia da riempire; ci sono la crisi di governo e la crisi economica e, anche perché nel mentre “i ristoranti sono comunque sempre pieni”, tutto ciò che abbiamo intorno somiglia sempre più ad una crisi di valori. E se poi va in crisi una relazione, s’ingenera una crisi di nervi, esistenziale, o entrambe? Sicuramente, dovessimo pure darci un colore, sarebbe crisi nera.

Crisi è uno di quei termini così differentemente declinabili nella nostra amata lingua e talmente quotidianamente utilizzati che corriamo il rischio di svuotarne il senso, di esaurirlo, di non capire nemmeno più che cosa stiamo significando mentre lo pronunciamo. Al fine di tutelare uno dei grandi poli semantici che tratteggia la nostra esistenza ed intesse la nostra condizione antropologica, vale la pena di scavare nell’etimologia il significato di questa parola, di questo concetto.

Il termine «crisi» deriva dal verbo greco «krìno», da cui il sostantivo greco «krìsis», inalterato poi nelle formule latina e italiana, che normalmente utilizziamo. «Krìno» sta a significare l’operazione doppia di «distinguere [e quindi] scegliere»/«scegliere [dopo che] si è distinto». Il verbo latino più esatto e preciso per tradurre tale azione è «cerno», da cui la nostra “cernita”, che è appunto una scelta sulla base di un’attenta distinzione tra diverse componenti. Occorre tenere bene a mente l’ordine cronologico dei significati: «krìno» intende nettamente prima «distinguere/separare» e poi «scegliere/dirimere/emettere sentenze».

Il termine crisi, propriamente, non è quindi il termine negativo che spesso intendiamo mal interpretandone le radici lessicali, ma sta ad indicare il punto del processo decisionale in cui si staziona per compiere le più accurate analisi e le più attente valutazioni per, e prima, di dover prendere la scelta. Una scelta netta, una scelta aut aut, una scelta che distingue un di qua e un di là, un “a monte” e un “a valle”, un prima e un dopo. Metaforicamente, essere in crisi lo si potrebbe rappresentare come il posizionarci sul collo di bottiglia, alla strettoia dell’imbuto, sul graticolo di un setaccio; essere nel punto in cui i nodi sono venuti al pettine, si sono fatte le analisi del caso e occorre necessariamente buttarsi nella scelta. È un atto senza dubbio faticoso, ma non già negativo in sé. 

Diventa a questo punto interessante chiedersi perché, lungo la storia concettuale di questo termine, l’azione originariamente significata sia scivolata verso un intendere che immediatamente riconduce ad una situazione di fatica, negativa in senso lato, di mal-essere.

Certamente una prima considerazione si sofferma di necessità sul tipo di azione che la crisi esprime, cioè uno stato in luogo, uno stare fermi: si dice per l’appunto “essere in crisi” riferendosi allo stato di impasse che si abita prima di aver preso la scelta critica. Uno stare fermi in una zona scomoda, pressati in modo crescente, tra il sapere di non poter non scegliere e la difficoltà di prendere in esame variabili che giocano alla pari nella partita dell’indecisione. Complessità, fatica, stress sono tre dinamiche contemporaneamente presenti nella situazione di crisi.

Unito a ciò c’è il peso del contesto in cui il processo critico si svolge e delle conseguenze che la scelta determina: quell’atto finale è tanto difficile da prendere proprio quando gravoso è il peso delle conseguenze che responsabilmente dovremo portare su di noi a valle della decisione. Cambiare un lavoro, lasciare o perdonare la persona amata, partire o rimanere…quanto più la scelta non contempla retromarce, tanto più essa è realmente critica.

Il sentimento di profondo smarrimento che oggi suscita il termine “crisi”, tuttavia, ci racconta qualcosa di più di noi stessi rispetto ad un’esagerata accentuazione delle fasi di uno strutturato processo decisionale. Il punto è piuttosto l’incapacità cresciuta e crescente di attraversarlo fino in fondo quel processo, di prendere effettivamente la decisione finale e di saperne portare le conseguenze. Un percorso che potremmo definire con proprietà “crisi della crisi”, ovvero una situazione di stallo rispetto all’intraprendere concretamente grandi decisioni che si eleva al quadrato, determinando in effetti un’assenza di decisioni definitive, critiche.

Si tratta di un percorso, poiché l’ipotesi che si va formulando consiste nel collocare agli albori della cartesiana inversione di rotta del pensiero occidentale l’incipit di una concezione del mondo che ha determinato tale incapacità. La storia della filosofia è particolarmente generosa nel riportarci, già pochi secoli dopo, il primo sentimento di una difficoltà cronica alla decisione stabile e definitiva grazie all’opera di Søren Kierkegaard. Analizzando le scelte di fondo che distinguono gli stili di vita e le personalità estetiche ed etiche, il danese fotografa il paradosso di una vita impostata su una grande mole di piccole scelte transitorie che si traduce in una complessiva non-scelta di vita ed è inoltre uno dei primissimi a tematizzare la possibilità della “scelta di non scegliere” (bandiera poi di un certo comunismo), il tutto in capolavori dai titoli emblematici come Aut-Aut o Timore e tremore. È questa la traccia di sentiero che conduce all’abisso di incapacità tanto decisionale quanto di conseguente responsabile impegno con cui si possono leggere alcuni stalli critici della nostra contemporaneità: il tasso di natalità ai minimi storici, l’imbarazzante assenza di unanime condanna nei confronti della guerra, la sempre minore durata delle coppie, le grandi dimissioni nel mondo del lavoro, l’abbandono in breve tempo di uno sport/un’arte tra i giovanissimi.

La sensazione è che una delle grandi conquiste del pensiero occidentale, la moderna relatività di contro alla rigidità degli assoluti medievali, sia sfuggita al suo senso, divenendo nient’altro che un nuovo assolutismo, cadendo nel suo stesso tranello.

La riscoperta del significato autentico di crisi chiama piuttosto ad una sfida vecchia quanto la nostra antropologia – e perciò sempre attuale: essere umani significa anche prendere su di sé la fatica del processo critico, attraversare l’analisi delle variabili, determinare la scelta e saperla portare; essere cioè capaci di crisi, intendendo i quattro passaggi testé descritti sistematicamente connessi e indivisibili l’uno dall’altro. E se è vero che l’essere umano è finito, transitorio, in divenire, effimero, altrettanto lo è l’evidenza che esercitare la crisi è l’attività principe che, proprio nel nostro incessante divenire, ci consente di determinare le persone che siamo e di dispiegare fattivamente la nostra libertà. Del resto, la letteratura insegna: il parricidio di Edipo, Paolo e Francesca nella Divina Commedia, la fuga di don Marignan nel Plenilunio di Maupassant, l’attesa di Godot messa in scena da Beckett…storie di crisi propriamente definite, che non cessano di raccontare a noi stessi chi siamo.

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