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Viva i nostri alleati!

Autore

Domenico Bolognese
Presidente di Campo 65 e Sales Director e International Business Developer.

Esiste un luogo lungo la strada statale 96 situato a metà strada tra Altamura e Gravina in Puglia. Un apparente non-luogo che sembra in procinto di implodere ma che invece è tenuto assieme da un fitto fascio di elastici tesi all’infinito e sul punto di spezzarsi: luogo sospeso nel tempo e nello spazio, tra il 1941 ed il 2023, tra l’Alta Murgia e le remote colline della Nuova Zelanda.

Stiamo parlando di Campo 65, il più grande campo di prigionia per alleati in mano italiana della seconda guerra mondiale, poi divenuto centro di addestramento dell’Esercito di Liberazione della Jugoslavia ed infine Centro Raccolta Profughi.  

(https://www.passionelinguaggi.it/2021/12/02/memoria-e-ragione-lesperienza-della-nascente-comunita-di-patrimonio-del-campo-65/).

Un luogo la cui storia è ben nota e documentata in tutte le sue tre fasi, ma che pare essere stato invisibile, per quasi 80 anni, agli occhi dell’intera comunità dell’Alta Murgia.

A pensarci bene il termine invisibile non è esatto, perché invisibile è un qualcosa di immateriale, incorporeo, spirituale. Campo 65 è invece l’esatto opposto: materiale, corporeo, reale. È lì presente, con i suoi 31 ettari, con il suo ingombrante imbarazzante silenzio. 

Possiamo quindi affermare, senza timore di essere smentiti, che non è il luogo ad essere invisibile ma che sono coloro che lo hanno guardato senza vedere nulla ad essere, in realtà, ciechi.

Una cecità particolare che è mutata anch’essa nel tempo. La prima forma di cecità registrata è stata quella di coloro che sapevano, perché avevano visto di persona o sentito cose nel momento in cui stavano succedendo. Una cecità “comprensibile” dettata dalla voglia di dimenticare, di andare oltre, di rimuovere un passato inizialmente troppo vicino, poi troppo lontano, ma ancora doloroso o scomodo per essere rievocato. È la cecità dei nostri avi, dei nostri padri, dei nostri nonni che tacevano, non ricordavano, rimuovevano ma che, a domanda secca, oggi ricordano: “Segnerí come se chjème u càmpe alla vi’ de Gravine?  U càmpe di prigionírre”.

Al contrario ci vedevano benissimo coloro che, a bordo delle ruspe, nel 1987 grattarono via il campo, fino ad allora sopravvissuto quasi intatto attraverso seconda guerra mondiale, dopoguerra, guerra fredda. Chissà se dal terrazzo della palazzina comando, agli inizi degli anni 60, era possibile vedere le testate dei missili nucleari Jupiter che svettavano a pochi km di distanza, in una delle 3 basi missilistiche (delle 10 totali presenti sull’Alta Murgia) ed installate nei territori di Gravina e Altamura. 

Una vista riacquistata “una tantum”, per le grandi occasioni, prima di ritornare nell’oscurità. 

Tanto quanto basta per radere quasi completamente al suolo una piccola città di 12mila abitanti con quasi 80 edifici, dotata di fogna ed acqua corrente, grande quanto mezza Pompei. 

Dopo quel tragico giorno altri bagliori di luce sono stati registrati anche di una certa importanza, pur se non risolutori: le marce della pace susseguitesi a partire proprio dagli anni 80, il progetto di un Parco della Pace quasi portato a compimento ed i cui fondi sono poi stati destinati altrove, le ricerche dell’Istituto Pugliese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea pur se focalizzate esclusivamente sulla fase ultima di Centro Raccolta Profughi (esempio questo di cecità accademica), l’apposizione di vincolo storico nel 2017. 

Poi come una luce al neon che, dopo qualche tentativo, si illumina, ecco che nel 2018 la luce si è finalmente accesa grazie alle attività di ricerca e divulgazione dell’Associazione Campo 65 che ha avuto l’abilità ed il merito di coinvolgere storici ed archeologi, figli dei prigionieri di guerra, profughi, professori e studenti liceali, qualche politico più o meno illuminato, l’Esercito Italiano, istituzioni e fondazioni internazionali, insomma quella incredibile comunità di patrimonio internazionale che si è materializzata, condensata, attorno a questo luogo ed alle sue memorie. 

È stato sufficiente aprire gli occhi, la finestra dei ricordi, delle memorie, dei segni e della documentazione che era lì; immane, importante, esageratamente copiosa. Finestra che, aperta per caso, si è spalancata fragorosamente colpita dal vortice potente della storia. 

Dunque oggi la vista pare essere stata riacquistata. Il che ci rende tutti, chi più chi meno, responsabili della cura e valorizzazione di questo luogo e delle sue memorie.

Ma il pericolo non è ancora scongiurato e la strada è ancora lunga e densa di insidie. 

Le strutture sono tutte a rischio di crollo ed i tentativi di strumentalizzazione, a fini di mera spicciola squallida propaganda politica, sono all’ordine del giorno. Del resto la storia stessa del campo e le sue contraddizioni, lo rendono un perfetto terreno di scontro ideologico o presunto tale.

Nel frattempo è arrivata una guerra fratricida nel cuore dell’Europa e ci siamo ritrovati a bocca aperta nel riconoscere i nomi delle città ucraine sulla mappa dell’Unione Sovietica realizzate dai partigiani jugoslavi sulla parete di una baracca sopravvissuta. 

Una scritta, sempre dei partigiani jugoslavi, svetta su un architrave. Un monito profetico destinato ai posteri: ZIVELI NASI ZAVEZNIKI SSSR-ANGLIJA-AMERIKA … Viva i nostri alleati URSS-Inghilterra-America.

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