Il fallimento, oltre a essere un destino ineludibile, proprio dell’essere umano e della natura delle cose, è una speranza. Arjun Appadurai ricorda che “siamo esseri finiti, e come tali destinati a fallire”. Una frase che potrebbe suonare come una sentenza e, invece, apre a quella speranza che è un sentimento che ci proietta al futuro, che promuove l’impegno e muove il cambiamento. Pensare di essere infallibili è infatti un’illusione di onnipotenza che genera oligarchie di egoismi. Una foglia di fico che nasconde malamente una grande debolezza: quella che fa credere di poter bastare a se stessi, negandosi all’altro. Ma è solo nelle relazioni interpersonali che germogliano le comunità e le intelligenze in grado di produrre cambiamenti e opportunità diffuse. Quello che viviamo è un tempo che ha mostrato più volti del fallimento. Sta a tutti noi aprire una stagione di riflessioni in grado di produrre il cambiamento necessario. Come dice Ugo Morelli, infatti, “l’esistente è fallito, con i suoi numeri sempre orientati al di più è meglio, fatti di indifferenza, ingiustizia sociale, disuguaglianza e volgarità, distruttive dell’ambiente e della cultura, del paesaggio e della memoria. Solo l’immaginazione creativa ci può portare a un mondo possibile e vivibile”. Fare i conti con il fallimento, dunque, oltre a tenere vivi pensiero e azione, ci mette davanti anche al concetto di limite. E questo vale in tutti i campi, che siano economici, sociali, lavorativi, ambientali e anche etici. Arriva il momento in cui l’asticella non è più spostabile e le scelte non più rinviabili: farlo vuol dire imboccare percorsi di non ritorno che finiranno per travolgere anche chi quell’asticella l’ha spostata e quella scelta l’ha rinviata. Il Covid è solo l’ultimo prodotto del fallimento del nostro modello economico e sociale. Oppure, pensiamo anche alle enormi disuguaglianze che viviamo, spesso con indifferenza e normalità, o a come il lavoro sia stato mercificato e svuotato di senso, ridotto a ingranaggio di un sistema veloce, superficiale, che si dimentica degli ultimi e riduce le persone a essere valutate e accettate in funzione soltanto del loro essere utili, funzionali e adeguate a questo sistema che le inquadra solo come consumatori. Ecco, uno scenario del genere rischia di far vincere la rassegnazione che è nemica del cambiamento e che soffoca la speranza e, quindi, il futuro. Invece, dalla presa d’atto del fallimento dobbiamo promuovere l’unione delle intelligenze che sanno immaginare un’alternativa possibile allo stesso modo in cui Michelangelo liberava le sue sculture dal blocco di marmo in cui le vedeva imprigionate.