Il teatro e le sue sfide. Un dialogo con Marco Bernardi

Autore

Alessandra Limetti
Alessandra Limetti, Milanese ma bolzanina d’adozione, attrice e vocologa, con una laurea in Filosofia e diverse specializzazioni accademiche nell’ambito della voce e dei suoi utilizzi artistici e professionali, è docente di comunicazione e public speaking e svolge attività di consulenza e formazione aziendale nell’ambito delle risorse umane. Si è a lungo occupata di progetti culturali e teatrali come strumenti di intervento per le aree di disagio sociale e di teatro in carcere e, tutt’oggi, di progetti di didattica teatrale ed espressiva con soggetti diversamente abili, anche nell’ambito del teatro professionale. Speaker e vocal coach, lavora con centri di formazione artistici, studi di registrazione e radio ed è specializzata in vocal training per attori e professionisti della voce parlata, oltre che in didattica teatrale per le scuole superiori, anche in collaborazione con il Teatro Stabile di Bolzano. Critico teatrale iscritto all’ANCT (Associazione Nazionale critici di teatro), scrive per diverse pubblicazioni e per il quotidiano Alto Adige.

Nel riflettere sulla situazione del teatro italiano (ma il contorno non muta di molto altrove, come ci raccontano i teatranti londinesi, che anche di recente hanno prodotto video di sensibilizzazione sullo stato di allerta in cui versa l’arte), riferirsi a un punto di vista tanto autorevole quanto capace di entrare analiticamente nella ratio della questione è un atto quasi dovuto, per equilibrare la prospettiva e non smettere di interrogarsi sulla vocazione profonda del Teatro come istituzione, il cui nocciolo permane immutato, ieri come oggi.  

Marco Bernardi, che nel quadriennio 2018-2021 ha fatto parte della Commissione Teatro del MIBACT, è stato per 35 anni alla guida del Teatro Stabile di Bolzano, realtà che ha portato ai massimi livelli di eccellenza sul territorio nazionale, sia dal punto di vista della qualità artistica sia nell’aspetto amministrativo-manageriale. Un artista e professionista che ha saputo far crescere, stabilizzare e mantenere sana un’istituzione come quella di un teatro stabile (poi TRIC) senza mai abdicare a una proposta estetica di livello né alla funzione alta del teatro pubblico: fare e promuovere cultura.  

Rispetto all’eccezionalità del momento presente, Bernardi ci mette in guardia circa le assolutizzazioni e le proiezioni che inevitabilmente fioriscono attorno alla situazione: «Quando le società sono fortemente nell’occhio della crisi, nel vivere un’emergenza in modo oggettivamente drammatico, tendono a esagerare i cambiamenti che questa porterà con sé su tutti i sistemi, a tutti i livelli. Personalmente trovo inutile affermare perentoriamente che niente sarà più come prima, o chiedersi quali grandi e radicali mutazioni si manifesteranno nel teatro a causa di questa pandemia. Si tende a drammatizzare anche il futuro e a pensare che tutto sarà diverso. È una versione distorta, poco credibile. I meccanismi profondi di relazione tra esseri umani non cambiano a distanza di secoli, figuriamoci a distanza di mesi – o di anni. Il vero problema adesso, reale e urgente, è quello dell’occupazione delle maestranze artistiche e tecniche, per le quali la pandemia assume contorni ancora più gravi. Ma per il resto tendo a non vedere la crisi come portatrice di qualcosa di terribile o, al contrario, di benefico, o di benefico dopo una crisi terribile». 

In qualità di direttore artistico, Bernardi è sempre stato attento alle istanze del territorio, tanto che il suo ha sempre voluto essere un teatro pubblico capace di coniugare l’accurata rilettura dei classici e la drammaturgia contemporanea con la sua funzione di farsi ponte tra le culture teatrali italiana e tedesca. Si è dunque adoperato nel promuovere una “drammaturgia del territorio” che contribuisse alla costruzione di un’identità condivisa della comunità italiana dell’Alto Adige senza mai scadere nel “localismo”.  

Localismo cui adesso si fa giocoforza ricorso, ma che può rivelarsi un’arma a doppio taglio e portare a un impoverimento dell’offerta qualitativa: «Le circostanze attuali hanno portato a un eccesso di localismo. Ma questo non è un bene, non lo è mai stato e non lo sarà nemmeno in futuro. È ovvio che, per motivi contingenti, sia un passaggio inevitabile, ma se in un teatro – specialmente in un teatro a vocazione pubblica – l’obiettivo è l’eccellenza, il bene assoluto dell’espressione artistica, il localismo non può farsi norma. In questo periodo il teatro si è impoverito di pluralità, dunque di qualità e anche di ricerca di qualità. L’emergenza non fa mai bene, è retorica affermare che possa anche fare bene, che – come predicano alcuni – possa essere uno scossone da cui usciranno chissà quali altre creatività. È una fatica dover cambiare continuamente progettualità e programmi, ed è un sistema così destabilizzante e deumanizzante che non si può pensare di doverlo protrarre a lungo, benché sia la condizione nella quale si trovano ad operare tantissimi direttori artistici, registi, artisti, produttori. La saggezza del teatro è la moltiplicazione di visioni e forme artistiche, ma ora le condizioni non lo permettono». 

Rispetto alla domanda che tutti si pongono, su un auspicabile – o temuto – “dopo”, Bernardi resta ancorato a un solido principio di realtà: «Non credo a grandi mutazioni in un dopo. Torneranno a esserci artisti di grande, media, debole forza creativa. Si tornerà a un confronto libero e aperto, a favorire i livelli più alti di creatività e artisticità e non i più bassi. Ma, purtroppo, i problemi immediati ora sono altri. Io probabilmente incarno una visione più distaccata grazie all’esperienza e grazie all’età, ma sono fortemente convinto che l’unica cosa che conti sia la tensione verso l’assoluto livello creativo, che dovrebbe essere sempre il faro che guida le scelte artistiche. Certo, è un principio che in emergenza si può metter tra parentesi – perché, per fortuna, l’essere umano ha ancora una grande importanza e le priorità ora sono altre – ma nella speranza che torni a essere messo in fretta in primo piano. Non vedo l’ora di tornare a parlare di qualità e solo di qualità e non di altri parametri».  

Il confronto con altri mezzi di espressione o di diffusione, infine, è stato non sempre proficuo o ottimale ma interessante in cui, se non altro, si è messa a tema e problematizzata una dialettica possibile: «Lo spettacolo dal vivo è stato costretto a confrontarsi con altri mezzi e questo è l’unico vero fenomeno buono, o perlomeno interessante. Siamo stati tutti forzati a confrontarci con il digitale, con il web, con le riprese televisive. A volte con risultati discreti, a volte con assoluta sciatteria di risultati. Ma il teatro sarà sempre costituito da un artista che mette in atto la propria arte e da uno spettatore che lo vede e lo sente e lo guarda. Nessuna crisi storica potrà smontare la funzione del teatro. Che è fatto di relazioni umane. Può essere interessante il confronto con il remoto, dare spunti e stimoli, ma ora stiamo andando verso la saturazione. Abbiamo bisogno di presenza. A distanza viene a mancare l’elemento rituale che si crea, e che è una delle cose più importanti della relazione tra esseri umani. Il rito dà qualità, mette in moto i fenomeni, è come un acceleratore nucleare». 

In attesa di poter tornare a condividere questo rito allo stesso tempo antico e sempre nuovo, questo “acceleratore di particelle” umane e sociali, etiche ed estetiche, non ci resta che tamponare l’emergenza, ma senza perdere di vista quello che Bernardi ha chiamato “il faro”. Della funzione “alta” delle istituzioni culturali e artistiche, della creatività, della qualità. Dell’eccellenza.  

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