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Semplicità della legge: un sogno illuministico?

Autore

Emanuela Ianniciello
Abilitata all'esercizio della professione forense. Collaboratrice alla redazione di ESI Edizioni Scientifiche Italiane - Il Foro Napoletano. Cultrice della materia in Diritto Penale presso l'Università della Campania Luigi Vanvitelli e l'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. Delegata del Garante dei Detenuti presso il Consiglio della Regione Campania. Dottoressa di ricerca in Diritto penale. Specializzata nelle professioni legali. Tirocinante presso la Segreteria Tecnica dell'ABF della Banca d'Italia, collegio Napoli. Tirocinante, ex art. 73 del D.L. n. 69/2013, presso la sez. II del Tribunale Amministrativo partenopeo in affiancamento alle ordinarie attività svolte dal Consigliere Gabriele Nunziata. Visiting Researcher presso il Dipartimento di Criminologia dell'Università di Oxford.

Che cosa significa, per un giurista, semplicità?

Siamo eredi della crociata condotta dall’illuminismo giuridico contro gli arcani della giurisprudenza d’antico regime. Ma quella battaglia è stata realmente vinta? Conserva, quanto meno, un qualche valore simbolico?

La tensione verso un diritto semplice ha una sua storia. Per secoli i giuristi si sono cimentati nell’interpretazione di fonti eterogenee e stratificate (il diritto romano antico, la giurisprudenza medievale, le norme sovrane, le opinioni dei doctores, le decisiones dei tribunali): ciò li ha obbligati a inquadrarle in forma sistematica, e il sistema è per sua natura complesso. La complessità, a sua volta, ha conferito all’attività dei giuristi una tradizionale aura di impenetrabilità, oggetto ora di riverenza ora di aspre contestazioni: di queste ultime il populismo non è, in fondo, che un’epifania. 

Sul piano diacronico, la necessità che il diritto venga ‘capito’ dall’universalità dei destinatari rappresenta un’esigenza relativamente recente, che risale al tramonto della dimensione prettamente sapienziale dell’ordinamento. In questa prospettiva può, ad esempio, leggersi l’affermazione – già in nuce nella riflessione di Thomas Hobbes – del principio di legalità: affinché questo trovi attuazione, è condizione imprescindibile che il suddito – ché tale è ancora il soggetto dell’ordinamento hobbesiano – possa esattamente decifrare il contenuto della norma e scegliere come determinarsi.

Il primo vero programma di semplificazione legislativa va senz’altro ascritto a merito dei philosophes. Rientra infatti tra le richieste più qualificanti quella della piena decifrabilità della littera legis, che avrebbe dovuto preludere all’eliminazione di qualsiasi procedimento interpretativo. Una simile mèta può oggi apparire ingenua. Ma va messa in relazione con l’accezione prettamente denigratoria che gli illuministi attribuivano al lemma interpretazione: quasi che esso implicasse abuso, manipolazione, arbitrio, nonché, sul piano costituzionale, sconfinamento del giudiziario nel perimetro legislativo.

La voce Loi (Droit naturel, moral, divin, & humain) dell’Encyclopédie, a firma di Louis de Jaucourt, può considerarsi il manifesto delle istanze illuministiche a proposito dei caratteri indefettibili della legge. Essa, secondo de Jaucourt, deve essere giusta, facile a eseguirsi, appropriata al governo e al popolo che la recepisce. Qualsiasi legge equivoca – rifletteva de Jaucourt – è ingiusta perché frappe sans avertir (colpisce senza preavviso); qualsiasi legge che non sia chiara, netta, precisa risulta viziata. Le leggi – incalzava la voce – devono indicare sin dalle prime battute i termini del ‘comando’: i consueti preamboli sono superflui, sebbene siano stati escogitati per giustificazione del legislatore e soddisfazione del popolo. Oltretutto – ironizzava l’Autore – se la legge è cattiva e contraria al pubblico interesse il legislatore deve guardarsi dall’emanarla; se è necessaria, non c’è bisogno di farne l’apologia. Le leggi – questo il monito dello studioso transalpino – possono cambiare, ma il loro stile deve restare immutato: semplice, preciso, tale da far sempre trasparire l’antichità della loro origine quale testo sacro e immutabile. Che le leggi – concludeva sul punto de Jaucourt – respirino sempre candore: emanate per prevenire o per punire la malvagità degli uomini, esse devono conservare la più grande innocenza (Louis de Jaucourt, Loi (Droit naturel, moral, divin, & humain), in Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers par une société de gens de lettres, mis en ordre et publié par M.r *** […]. Tome neuvième, Ju-Mam, A Neufchastel, Chez Samuel Faulche & Compagnie, Libraires & Imprimeurs 1765, pp. 643-647: 644).

La prosa brillante e icastica non impediva a de Jaucourt di salvare alcuni aspetti della tradizione giuridica d’antico regime: in particolare, l’articolazione delle leggi risalente a Montesquieu e plasmata, com’è noto, sulle differenze tra le forme di governo. Ancor più legata alla dottrina precedente suona la voce Loi (Jurisprudence) di Antoine-Gaspard Boucher-d’Argis, la quale non solo riproponeva la tripartizione tra leggi naturali, delle genti e civili, ma si rifaceva alla macro-distinzione di Jean Domat tra leggi immutabili e leggi arbitrarie. Lo stesso Boucher-d’Argis, inoltre, non metteva in dubbio la facoltà dei magistrati di interpretare le sens, se del caso attingendo all’esprit des la loi (Antoine-Gaspard Boucher-d’Argis, Loi (Jurisprudence), in Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers par une société de gens de lettres, mis en ordre et publié par M.r *** […]. Tome neuvième, Ju-Mam, A Neufchastel, Chez Samuel Faulche & Compagnie, Libraires & Imprimeurs 1765, pp. 647-649: 649).

Più netta, anche se incentrata esclusivamente sul versante del diritto penale, la presa di posizione di Cesare Beccaria. Il giusfilosofo milanese lanciava ai legislatori del tempo un inequivoco e suadente invito: «Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare [e] semplici». (Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di Gianni Francioni […], Milano, Mediobanca 1984, § XLI, p. 122). Questa considerazione va ricondotta al nesso che lo stesso Autore stabiliva tra l’«oscurità delle leggi» e l’inevitabile, conseguente necessità di interpretarle: atto quest’ultimo che, come si è già accennato, nel vocabolario degli illuministi equivaleva, per lo più, a manipolarle. Il difetto della incomprensibilità, ad avviso di Beccaria, si aggravava, comportando riflessi negativi anche di ordine politico-istituzionale, allorché le leggi risultassero scritte «in una lingua straniera al popolo», ponendo quest’ultimo in una sgradevole posizione di «dipendenza» da «alcuni pochi», vale a dire dai dotti, dalle élite detentrici del potere (ivi, § V, p. 39).

L’intuizione beccariana, ossia il rapporto tra semplicità della legge e sua modulazione lessicale, fu sviluppata da Jeremy Bentham. Il celebre intellettuale britannico era convinto che la scienza della legislazione, strumento ineludibile per l’elaborazione dei codici, non potesse che muovere da uno studio del linguaggio, finalizzato a semplificarlo, scarnificarlo, renderlo accessibile alla comunità. In Bentham l’aspirazione alla semplicità non era solo strumentale alla nuova configurazione formale del diritto (la forma-codice, per l’appunto), ma s’inseriva in un progetto più vasto, vòlto a rifondare la conoscenza su basi, al contempo, teoriche e pratiche, ideali ed empiriche: il progresso culturale rappresentava, per lo studioso, il presupposto d’un profondo rinnovamento politico e sociale. Il giurista e filosofo inglese, peraltro, aveva ben chiaro che il linguaggio giuridico presenta, per sua natura, una difficoltà: non sempre esprime ‘cose’ reali, più spesso sottintende concetti tecnici, istituti, dogmi. Consapevole del carattere ‘fittizio’ della lingua giuridica, Bentham raccomandava di renderne comunque percepibile anche la natura ‘relazionale’: a tale obiettivo si poteva giungere se si fosse riusciti a coniugare l’esigenza della semplicità (garanzia di certezza e comprensibilità) con la tenuta del sistema (cfr. Angela Trombetta, La semplicità della legge tra codice e sistema, Bari, Cacucci 2003).

Il medesimo approccio ‘prudente’ si riscontra in autorevoli illuministi meridionali. Ne La Scienza della legislazione (anni Ottanta del secolo XVIII) Gaetano Filangieri consigliava al sovrano di emanare «leggi generali, precise, semplici e chiare», ma nel contempo di lasciare ai magistrati «l’adattare queste leggi a’ casi particolari», purché questo adattamento non degenerasse in «capriccio» o in pretestuoso ricorso all’equità (Gaetano Filangieri, La Scienza della legislazione. Edizione critica. Volume primo, a cura di Antonio Trampus, Venezia, Centro di Studi sull’Illuminismo europeo “G. Stiffoni”, 2003, cap. X, p. 101).

Il paradigma illuministico della semplicità della legge appare oggi in crisi. Da una parte, permane l’esigenza di neutralizzare l’arbitrio giudiziario: e non v’è dubbio che una norma strutturata in termini elementari agevoli questo traguardo. Dall’altra, l’ermeneutica contemporanea reputa impraticabile il celebre sillogismo di Beccaria, secondo cui, per sottrarre al giudice ogni margine di creatività, la pronuncia giudiziale sarebbe dovuta consistere in una scelta tra libertà e pena, all’esito d’un raffronto tra premessa maggiore (la legge) e premessa minore (il fatto) (Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., § IV, p. 36). L’illusione beccariana consisteva nel credere che davvero potesse immaginarsi una legge così semplice e chiara da risultare auto-applicantesi. Una fiducia ormai smentita da quelle correnti ermeneutiche le quali negano addirittura l’esistenza di qualsiasi norma prima dell’operazione interpretativa. 

Nonostante tali non peregrine perplessità, permane tuttavia inalterata l’opportunità ‘politica’ di formulare le leggi in termini semplici. Com’è stato ancora di recente rimarcato con precipuo riferimento al perimetro penalistico, la chiarezza semantica costituisce un presupposto irrinunciabile di effettività: una norma formulata in termini comprensibili può senza dubbio aspirare a una maggiore probabilità di essere «compresa ed applicata con successo» (Cristina De Maglie, La lingua del diritto penale, in disCrimen, 30 aprile 2019, pp. 1-39: 38).

Anche nelle democrazie avanzate, dove l’ingestibile quantità di norme co-vigenti ne ostacola la conoscenza e la comprensione persino agli esperti, si ripropone ciclicamente il tema della ‘semplificazione’, operazione più volte (ma, sinora, vanamente) messa in cantiere anche in Italia. Non sono mancate indagini qualificate che si sono interrogate sulle cause profonde di tali insuccessi: in estrema sintesi, esse possono ricondursi alla costante tendenza al compromesso politico che caratterizza le assemblee legiferanti; all’auto-referenzialità delle classi dirigenti; alla sempre più palese e generalizzata incompetenza linguistica e, lato sensu, culturale (cfr. ad es. Michele Ainis, La legge oscura. Come e perchè non funziona, Roma-Bari, Laterza 20102).

D’altronde, nell’epoca della de-codificazione (per citare il titolo del celebre saggio del 1978 di Natalino Irti) le leggi nuove si muovono fatalmente secondo orbite disarmoniche rispetto a quelle già vigenti e senza rispettarne l’assetto sistematico. Questa caratteristica comporta crescenti stratificazioni, discipline settoriali sempre più minuziose, una rassegnata sensazione di ‘inconoscibilità’. Sicché ormai la complessità della legge non risiede tanto nel relativo lessico quanto nel continuo e spiazzante rimando ad altre fonti, di incerta allocazione e di oscura comprensione. 

In secondo luogo, lo sviluppo scientifico e tecnologico, il pluralismo di valori, la continua mutazione degli assetti sociali ed economici obbligano il legislatore a inseguire formule specialistiche che accentuano la percezione di ‘estraneità’ del testo rispetto alle comuni conoscenze del cittadino: distanza acuìta – inutile negarlo – dall’obiettivo decadimento della qualità culturale del ceto parlamentare.

Infine, bisogna tener conto che la formulazione per princìpi della crescente normativa sovranazionale e la contestuale configurazione multi-livello degli ordinamenti non facilitano la comprensione dei contenuti né favoriscono l’univocità dei significati.

Agli effetti combinati dei fattori qui sommariamente passati in rassegna occorrerebbe reagire recuperando il valore del ‘sistema’. Sarebbe, questo, un compito della scienza giuridica o, per dirla in termini più dimessi, del formante dottrinale, ma una realistica analisi dello status quo ne rivela la debolezza. Analogo declino pare investire il formante legislativo, specie se confrontato con il massiccio incremento della giurisprudenza quale ‘fonte’ ormai largamente prevalente anche nei Paesi di civil law. È palese che un diritto vivente risultante dalle decisioni giurisdizionali e dagli orientamenti consolidati delle corti supreme si riveli ancor più tecnicistico e meno penetrabile alla comprensione del cittadino comune.

Insomma, quello di Beccaria assume sempre più le sembianze di un ideale tanto nobile quanto utopistico.

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