Ereditare il proprio nome: la poetica della soggettivazione in Jojo il Coniglio

Autore

Monica Facheris
Specializzanda in psicoterapia a orientamento psicoanalitico, si occupa di clinica dell'età evolutiva e dell'adulto. Lavora presso Jonas Bergamo e Telemaco di Jonas Milano. Membro della Società Milanese di Psicoanalisi.

Si dovrebbe riflettere a lungo per parlare 
di certe cose che così si persero, 
quei lunghi pomeriggi dell’infanzia 
che mai tornarono uguali –  e perché? 

Dura il ricordo -: forse una pioggia, 
ma non sappiamo ritrovarne il senso; 
mai fu la nostra vita così piena 
di incontri, di arrivederci, di transiti 

come quando ci accadeva soltanto 
ciò che accade a una cosa o a un animale: 
vivevamo la loro come una sorte umana 
ed eravamo fino all’orlo colmi di figure. 

Eravamo come pastori immersi 
in tanta solitudine e immense distanze, 
e da lontano ci chiamavano e sfiorivano, 
e lentamente fummo – un lungo, nuovo filo – 
immessi in quella catena di immagini 
in cui duriamo e ora durare ci confonde. 1 

Ecco, una catena di immagini in cui duriamo: sono i versi del poeta Rilke, così precise e delicate nel delineare quell’orizzonte “insuperabile” che è l’infanzia! Mi agevolano nell’aprire l’argomento agganciandomi all’ultimo testo pubblicato da Massimo Recalcati dedicato all’opera di Jean Paul Sartre, dove l’autore mette in luce questo punto della concettualizzazione del filosofo francese, propriamente, appunto, la dimensione “insuperabile” dell’infanzia in rapporto al concetto di esistenza2.  

Possiamo pensare la nascita come un momento di precipitazione, durante il quale, il nuovo venuto, in un movimento verticale di caduta nell’esistenza, fa esperienza di una inermità fondamentale che Freud chiama Hilflosigkeit. Un tempo arcaico che implica la carne stessa del bambino e non vi è possibilità alcuna per lui di nominare tale esperienza, di rappresentarla e verbalizzarla: è un tempo di silenzio, di senza parola, laddove, piuttosto, vi è il grido3. Non di meno, l’impatto è il punto in cui il cucciolo d’uomo diviene “bambino” nell’incontro con le maglie dell’Altro, alle quali egli si aggancia, accettando quella dipendenza dall’Altro che gli è necessaria. La carne si fa corpo. Il traumatismo fondamentale appena descritto ha, pertanto, il carattere della necessità, traverso cui si apre per il soggetto il tempo dell’infanzia: in altre parole, quel misterioso “si” del soggetto nei confronti dell’Altro è un acconsentire all’impatto traumatico col linguaggio, affinché esso possa includerlo nella filogenesi dell’umanità. Diventare un Uomo.  

Diventare un essere umano, dunque, può darsi soltanto a partire da una alienazione fondamentale: è sempre Sartre a indicare alla psicoanalisi un’idea di soggettività intesa allora come un lavoro, una continua “ripresa” retroattiva di questo tempo iniziale della vita. La soggettività non coincide con l’identità, ma piuttosto è un processo, un lavorio perenne di revisione, rilettura, di quella “immissione” – come l’ha definita il poeta – del soggetto nella catena significante. Recalcati, in questo suo ultimo lavoro, come in altri suoi precedenti, ci spiega come tale “ripresa” riguardi la questione dell’eredità: cosa si eredita? Ed ereditare cosa comporta? Ereditare consisterebbe precisamente in questa ripresa, che egli paragona ad un viaggio. In effetti, se esiste una alienazione è perché possa darsi una separazione: un movimento di ricerca, di interrogazione, di messa in discussione, di rottura, perdita. Un’avventura simile comporta sofferenza, o meglio, una certa capacità di soffrire; in altre parole, richiede di avvicinare quel reale traumatico, imparare ad averci a che fare. 

Arrivati a questo punto, per poter meglio accompagnarci ad un simile avvicinamento, mi appoggerò al prodigioso film di Taika Waititi, Jojo Rabbit (2019) – nel quale, peraltro, la poesia di Rilke ha un ruolo significativo: la pellicola, infatti, si presta bene alle argomentazioni di cui ci stiamo occupando, avendo la capacità di raccontare il difficile processo di soggettivazione proprio attraverso gli occhi dei bambini! L’ironia – dal greco “dissimulare” – è l’espediente linguistico che ci consente di accostare, guardare, pensare, ciò che altrimenti è dell’ordine dell’impensabile, che è dell’ordine del trauma, per l’appunto. Facendo essa da architrave all’impianto registico – insieme ad un puntuale uso del nonsense – permette di articolare molteplici stratificazioni traumatiche: quella soggettiva, del passaggio dall’infanzia all’età adulta; l’incontro con l’alterità assoluta con l’Altro-sesso; infine, quella storica, orrorifica, dell’Olocausto. Anzi, è proprio tale scelta poetica a fare da cassa di risonanza all’indicibile, ce lo fa sentire, lasciando lo spettatore profondamente disorientato ma non aggredito. Non di meno, l’ironia è una facoltà altamente complessa riconducibile al gioco, così fondamentale nel lavoro soggettivo in età infantile.  

Il film, pertanto, intreccia gli effetti singolari del trauma del linguaggio con altri tipi di trauma, eventi che tagliano la temporalità quotidiana del protagonista dandosi nei termini dell’accadimento puro, travolgendo il conosciuto gettandolo nel caos: da un lato l’amore, dall’altro lato la guerra. Tali precipitazioni richiedono al piccolo Jojo di cimentarsi in quel viaggio di cui ci parla Recalcati, assumersi la responsabilità della scelta – compito tremendo e bellissimo insieme, per parafrasare sempre il nostro Rilke. Di che pasta è fatta una scelta simile? Come può essere assunta dal soggetto? In altre parole, come accade di “diventare un uomo”? A tal proposito, mi ha profondamente colpito come il protagonista, nelle varie scansioni temporali del film, sia di volta in volta alle prese proprio con questo diventare un uomo. Detto altrimenti, tale ricerca riguarda il prendere il proprio posto nel mondo, fare proprio il proprio nome, le radici.   

Jojo è il nomignolo famigliare che rimarca questa dimensione alienata, infantile, del nostro protagonista, e risuona come il nome di un oggetto. Del resto, Lacan, nella sua Nota sul bambino (1969)4 dice che il bambino passa necessariamente da tale posizione presso la madre. In effetti, ciò che sappiamo di lui ci arriva dal racconto della mamma Rosie, la quale ci lascia ben intuire che Jojo è figlio dell’amore, che egli è desiderato. Scopriamo inoltre che il padre non c’è, il bambino si aggrappa all’idea che egli sia in guerra a difendere il Reich ma tutti sanno che è un disertore. Intuiamo che quest’uomo combatte nella Resistenza. Di fronte al fanatismo nazista di Jojo, però, la madre non cerca di convincere il figlio di nulla, fa ben altro: partecipa lei stessa alla Resistenza facendo propaganda clandestina e nascondendo una giovanissima donna ebrea in casa; e, nei confronti di Jojo, testimonia ogni giorno l’amore tra lei e il marito: parlando di lui lo rende presente, vivifica così l’esistenza del figlio mantenendola aperta al dubbio. Sebbene dunque il padre non ci sia fisicamente, egli vi è sempre, simbolicamente, sullo sfondo della vita del figlio. A questo proposito, ciò che affascina di questo film è il suo porre l’accento sulla femminilità in rapporto alla trasmissione della Legge del desiderio: è attraverso di lei, le sue parole, i suoi gesti quotidiani, che l’eredità di predispone e si tramanda, sia per Elsa che per Jojo.  

Per quasi tutto il film, però, Jojo vive ancora in quel tempo in cui essere accettato e sentirsi parte di un gruppo di uguali è fondamentale. Gli manca il papà e sente di dover proteggere la mamma; così, fa sua la certezza spacciata dal Raich su cosa significhi diventare adulto: “assicurarsi un posto”, dice, presso il Führer, il padre delle folle adoranti.  

“Assicurarsi un posto”: spesso nella clinica dell’adolescenza vediamo all’azione questo assunto in varie forme, laddove i giovani tentano di aggirare la questione della separazione evitandola, rivestendo l’identità – cioè il piano immaginario della soggettività – con ruoli, etichette, abiti come divise. E puntualmente si mettono nei guai, un po’ come Jojo. In tal senso, l’amico immaginario è una figura che, mentre si accosta al bambino come “personal trainer di fiducia” (per il momento, il vero amico, Yorkie, non è così importante per lui), rappresenta il padre castratore che abita l’immaginario di ogni figlio e che generalmente è molto diverso dal padre reale. Il nostro Jojo, entrato nella Hitler-Jugend, inizia, senza metterla in discussione, a scoprire il gioco terribile del divenire “adulto” nella concezione stabilita da Hitler stesso:  

“Il mio programma educativo per la gioventù è arduo. La debolezza dovrà essere spazzata via. Nei miei castelli dell’Ordine Teutonico diventerà adulta una gioventù che farà tremare il mondo. Io voglio una gioventù brutale, tiranna, intrepida e crudele. (…) Non deve avere nulla di debole e delicato. La libera, splendida bestia predatrice deve emergere brillando dai suoi occhi. Così io sradicherò migliaia d’anni di civilizzazione umana.” 

Nel totalitarismo è evidente come la singolarità del desiderio soggettivo venga meno in favore di una immaginaria uniformità che, non per niente, nel delirio lucido del dittatore, assume la forma di una gigantesca bestia e la Legge è quella del sacrificio assoluto di sé come di chiunque si discosti dal progetto. Sembra per questo puntuale la canzone Don’t wanna grow up di Tom Waits! In effetti, vediamo come Jojo non voglia assolutamente rispondere al compito di soggettivazione della propria esistenza, crescere, per l’appunto, assumendosi la responsabilità della propria differenza rispetto al discorso totalitarista.  

Una scena chiave è quella in cui i compagni della Jugend gli appioppano l’appellativo di coniglio“uccidi!”, gli intimano i baldi compagni, ma lui ha pietà dell’animale e non riesce a fargli del male. Il coniglio, nelle loro accuse, rimanda da un lato alla codardia e dall’altro al padre: “sei un codardo, come tuo padre”. Giunge in suo soccorso il padre immaginario: “sii come il coniglio!”, rivelando la plasticità del significante: “coniglio” si apre alla possibilità che non corrisponda a codardo ma piuttosto alla resistenza. Ciò lo esclude dalla cerchia conformistica dei nazi: ciò che ancora Jojo non può assumere simbolicamente, lo agisce ora nella realtà, lanciando una granata pur non essendone capace, per poi saltarci sopra; provoca così la propria esclusione, di fatto, dal gruppo, pagando un prezzo altissimo: porterà le cicatrici di questo agito per sempre. 

D’altro canto, vediamo come “coniglio” lo riporti non di meno al suo marchio fondamentale: esso, infatti, è nominato anche dalla madre, quando gli annoda le stringhe con pazienza. La potenza creatrice di questa relazione viene restituita dal film con una semplicità disarmante: abbiamo detto che la madre veicola la parola paterna e la dimensione dell’amore per mezzo della propria femminilità. Emblematica è la scena della cena con Jojo, in cui, al posto che rispondere alle sue provocazioni, si rende ancora una volta testimone dell’amore recitando la parte del padre che si rivolge al figlio, dapprima sgridandolo, e poi rivolgendogli parole preziose: “sto tentando di fare la differenza nel mondo… lei fa quello che può”. Questo movimento materno è fondamentale perché, oltre a limitare la pulsione del giovane, gli fa capire che egli non rappresenta l’intero mondo della madre, ma che ella è abitata da un desiderio che lo oltrepassa: da un lato, è un desiderio che va verso un uomo, il padre del ragazzo, dall’altro si orienta fuori dalle mura domestiche; tutto ciò risulta misterioso per Jojo, ovvero, il desiderio materno si fa incognita. Inoltre, il fatto che Rosie non abbia dissolto la propria femminilità nella maternità è ciò le consente di amare il figlio per ciò che egli è, nella sua differenza, lo accetta anche se fanatico, ma senza abbandonarlo a sé stesso, anzi: riponendo in lui, nell’infanzia, la speranza per l’avvenire. Nelle lezioni veronesi raccolte in Legge, desiderio ed eredità (2020) Recalcati ha potuto così affermare che sostanzialmente il Nome-del-Padre è la donna, “perché è la donna che sbarra primariamente il desiderio della madre; è la donna che castra il desiderio della madre”5. Dunque, Rosie mette in pratica ciò che Rilke indica come via regia dell’amore: lasciare l’un l’altro a sé, ovvero, contemplare la giusta distanza. È un verso importante, questo, che potremmo usare come raccordo nel passaggio dall’infanzia all’età adulta, passando per l’enigma dell’incontro con l’alterità.  

Elsa è di qualche anno più grande e si trova alle prese con l’interrogativo tipicamente femminile su cosa sia una donna. Per la psicoanalisi, infatti, essere uomo o donna non si esaurisce sul piano immaginario dell’identità, né tantomeno in una coincidenza con l’organo genitale; ha a che fare, piuttosto, con una posizione inconscia soggettiva. In effetti, a partire dai dialoghi clandestini con Rosie, la questione prende per Elsa la forma di un affascinante enigma: “guardare una tigre negli occhi e fidarti senza paura, ecco cosa vuol dire essere una donna”. Tigre? Fiducia? E non sa che a breve ne farà esperienza, laddove dimostrerà di sapersi affidare ed anche di saper giocare sapientemente con l’immaginario, fingendo di essere una nazista durante la perquisizione.  

Come dicevamo, infatti, il secondo tempo della soggettivazione, è la separazione, che richiede sì fiducia, ma non tanto in qualcosa o in un qualcuno, ma nella propria capacità di fare i conti con l’imponderabile, ovvero, lasciare l’un l’altro a sé, che appare qui, ora, come un altro modo per dire dell’eredità.  

Jojo ed Elsa iniziano a conoscersi e l’arte, la poesia, funzionano da mediatori, promotori del conflitto generativo che l’alterità innesca. Emerge qui un’altra versione dell’immaginario, cioè l’aspetto redentore della Forma, come l’ha definita Recalcati nel suo libro su Sartre, dove l’estetica non punta a negare il reale dell’esistenza ma, piuttosto, ad accostarla6. Proprio come tenta di fare il film di Waititi. Così, la forza dell’incontro tra i due è tale che a suo tempo si dimostrerà più grande, più potente della spinta distruttiva nazista.  

Vi è poi un ulteriore passaggio del film che ci aiuta ad avvicinarci al trauma nella sua forma contingente: l’omicidio della madre di Jojo e l’orrore violento della guerra che si scatena sulla città. Improvvisamente il mondo si fa cupo e caotico, morti e macerie svuotano lo sguardo di Jojo; e così, il dolore che accompagna il trauma, rimane silenzioso7 in queste scene sconvolgenti e prive di parole, in cui il reale emerge con potenza e l’immaginario appare ai suoi occhi per ciò che è: una grottesca micidiale buffonata. 

Il soggetto viene riportato a quella condizione di inermità originaria che pietrifica, ammutolisce, se non che ad un certo punto Jojo riesce a muovere le gambe e a rannicchiarsi in un nascondiglio, come un piccolo animale tremante. La verità della solitudine esistenziale per Jojo si dà in tutta la sua portata traumatica e non c’è più nulla a cui aggrapparsi, adesso. Cosa resta, come andare avanti? In realtà non poco: da un lato, Jojo incontra l’incarnazione del Padre del dono nel Capitano K, il quale gli salva la vita, prima di venire ucciso lui stesso; dall’altra parte, a casa, vi è ancora la sconosciuta, Elsa. 

Sorge la domanda: esiste veramente un-altro-diverso da incolpare, sul quale vendicare la propria disperazione? È questo è il momento dell’incontro più profondo tra i due ragazzi ed è soltanto adesso, dopo aver perso tutto, dopo aver sperimentato la distruzione, che per Jojo si compie una torsione della propria alienazione: egli dice no a quella che si rivela come l’inconsistenza immaginaria dell’uniformità, dice no alle certezze illusorie del nazismo e sostiene la fatica di attraversare lo scompaginamento provocato dall’incontro con l’alterità della giovane Elsa. Anch’egli, ora, deve praticare un atto di fiducia nel proprio desiderio: Jojo assume la responsabilità della propria parola e, oltre a dichiarare il suo amore ad Elsa, le dirà la verità circa la fine del conflitto bellico, dandole di fatto la possibilità di andarsene. E solo così che lei sceglierà a sua volta di restare, di non abbandonare Jojo, ma di uscire a ballare insieme a lui per strada, libera.   

L’eredità pertanto non riguarda la biologia, il DNA, e non è determinata nemmeno dall’orientamento sessuale dei soggetti implicati. Elsa non è figlia di Rosie, eppure è in grado di lasciarle un gancio, quell’enigma, sul quale la giovane si muoverà per costruire la propria femminilità.  Il Capitano K è in grado di compiere un atto di donazione e protezione altrettanto importante nei confronti di Jojo. Il padre reale non c’è, ma combatte sul fronte della Resistenza. La madre altrettanto. L’eredità fondamentale che queste figure adulte lasciano ai due “figli” è propriamente la testimonianza, vera, praticata, che essi perseguono il proprio desiderio, facendo ciò che possono, ogni giorno.  

A questo punto, possiamo fare un movimento circolare, considerando che Johannes è un nome ebraico che rimanda alla misericordia di Dio: in effetti, sin dal principio, JoJo si mostra come un bambino misericordioso verso le altre creature, sa riconoscere la bellezza della vita in un coniglio così come riesce ad esprimerla, alla fine, verso la sua amata Elsa. Inoltre, Giovanni è l’apostolo a cui è stato attribuito il Libro dell’Apocalisse: si tratta di un testo difficile, che non ha mai ricevuto una interpretazione precisa e definitiva, proprio perché, forse, riguarda quel reale che sfugge alla significazione. Pertanto, secondo gli studiosi, esso è stato scritto per dare speranza, per aiutare a sopportare l’insopportabile, ovvero, per poter stare di fronte all’imponderabile. Johannes è in effetti testimone dell’Apocalisse: incontra l’orrore dell’esistenza, la violenza e la morte; ma, in tutto questo, egli ha imparato l’Amicizia, ciò che gli permette di sopravvivere e prendere il suo posto fra gli altri uomini: allo specchio, egli può dirsi: “Johannes, oggi fai ciò che puoi”.

1 R. M. Rilke, Poesie 1908 – 1926, a cura di A. Lavagetto, Einaudi, Torino, 1997.
2 M Recalcati, Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio, Giulio Einaudi editore, Torino, 2021. 
3 S. Freud, Progetto per una psicologia (1895), in Opere, Vol. 2Progetto di una psicologia e altri scritti 1892-1899, Torino, Bollati Boringhieri, 1989. 
4 J. Lacan, Nota sul bambino, in Altri scritti, Giulio Einaudi editore, Torino, 2013.  
5 M. Recalcati, Legge, soggetto ed eredità. Lezioni veronesi di psicoanalisi, Mimesis Edizioni, Milano, 2020, p. 88. 
6 M. Recalcati, Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio, Giulio Einaudi editore, Torino, 2021, p. 26. 
7 Ciò ha a che fare con il fatto che non vi è un senso dell’evento traumatico – il quale è, per l’appunto, puro accadimento – e questa discrepanza con la parola produce la ripetizione: tale movimento di reazione al trauma attraverso la ripetizione viene ben spiegato da Massimo Recalcati in Il trauma del fuoco: note sulla poetica di Claudio Parmiggiani, in Frontiere della psicoanalisi, vol. 1, Il Mulino, Bologna, 2020, pp. 61-71.

Articolo precedenteAndrea Zanzotto, l’anima del mondo
Articolo successivoLa ferita delle donne

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Ultimi articoli

Fare un salto non è avanzare… ovvero il neoliberista saltatore

...e se tra l'altro fosse meglio arretrare? Si tratterebbe di fare un salto all'indietro. Per quanto difficile quest'ultima soluzione porterebbe in nessun...

F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia, La maggioranza deviante. L’ideologia del controllo sociale totale.

UM: Non siete stupiti della ripubblicazione del vostro libro a cento anni dalla nascita di uno di voi e in un'epoca che...

Il salto di Fosbury e la scelta di essere liberi

UNA RIFLESSIONE FILOSOFICA A PARTIRE DALL’IMPRESA DI CITTÀ DEL MESSICO 1968 Le seguenti considerazioni prendono corpo ad un anno...

Ripetizione, salto, crisi. Sulla nascita.

Ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento, tranne che in senso opposto: l’oggetto del ricordo infatti è stato, viene ripetuto all’indietro, laddove...

A che basta un salto

«Chi non salta un francese è! È! Chi non salta…». Un coretto scandito e ripetuto più volte da un miscuglio di voci...