Umiliazione

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Generoso Picone
Generoso Picone, Giornalista, Scrittore, autore di pubblicazioni storiche e di analisi sociale, studioso della letteratura italiana contemporanea.

Il punto più basso dell’umiliazione toccato da Filumena non è quello delle giornate e delle nottate al vico San Liborio, nella condizione di miseria e di fame che la costringe a prostituirsi per poter semplicemente continuare a vivere. Certo, è lì che la realtà spietata dello stare al mondo le si presenta con crudezza estrema e impone da subito le regole del gioco da rispettare: vendere se stessa, il suo corpo, i suoi giorni, il suo futuro per avere in cambio una seppur minima opportunità di resistere. In quel basso, tra le macerie e le rovine della Napoli straziata dalla guerra che si illude di diventare milionaria e non sa invece come la nottata da passare sarà decisamente lunga e forse infinita, prende le mosse la sua storia: il racconto di Filumena Marturano. 

  Eduardo De Filippo, il suo autore nei tre atti della commedia del 1946, l’accompagnerà in un altro luogo per il quale Emil Cioran avrebbe potuto ben scrivere il sillogismo dell’amarezza del 1952, cioè che “chi non ha conosciuto l’umiliazione ignora che cosa significhi arrivare all’ultimo stadio di se stessi”. Il suo ultimo stadio si delinea a casa Soriano, nell’appartamento di don Mimì, il ricco pasticciere che, dopo essere stato tra i primi clienti e il più assiduo in venticinque anni, ora la mantiene. Come una moglie che invece non è mai diventata, tenuta a distanza tra promesse e infingimenti di una legittimazione che non arriva: perché un neoborghese rampante e spregiudicato nella città che si copre di moralismo ipocrita dovrebbe poi sposare una donna che è stata prostituta? Non solo. Lei amministra anche gli affari del laboratorio della ditta Soriano e si prende cura della gestione dell’abitazione di don Mimì. Qui, però, deve sopportare la presenza della sua ventiduenne amante Diana e si tratta di una umiliazione mortificante che si intreccia all’offesa della sua dignità di donna e di madre. Fino a diventare insopportabile. 

  Nel dramma che Eduardo De Filippo volle inserire nella “Cantata dei giorni dispari” – quelli della pietà, dell’angoscia e della disperazione – prende forma la strategia di Filumena Marturano, la donna umiliata e offesa, un Ivan Petrovic del romanzo di Fedor Dostoevskij che rovescia il suo destino. Simulerà con straordinaria efficacia un’agonia e in articulo mortis costringerà Soriano a sposarla. La crede davvero moribonda e cede all’estrema richiesta, immaginando che il legame avrà breve durata. A matrimonio stipulato e consacrato lei svelerà la sua finzione. Don Mimì si ribella, l’avvocato riuscirà a far sciogliere e annullare il vincolo sancito nell’inganno e Filumena subisce l’ennesimo colpo. Ma non cede.

  Proprio in nome dell’onore suo e dei tre figli, forse avuti con Soriano o forse no, forse uno solo e chi poi mai, forse e comunque a che cosa serve chiederselo, ecco che decide di reagire. Da dominata si fa dominatrice, recupera le forze dell’orgoglio troppe volte calpestato, ribalta le posizioni e ingabbia don Mimì Soriano nel dubbio: uno dei tre figli è tuo, ma non lo saprai mai, “e figlie so’ figlie. E so’ tutte eguale”. Enrico Fiore, analizzando la trama della vicenda all’indomani della versione televisiva proposta da Francesco Amato e interpretata da Vanessa Scalera e Massimiliano Gallo, ha ricordato sul “Corriere del Mezzogiorno” il frammento 4149 dei “Diari” di Friedrich Hebbel, che, datato “Vienna, 18 aprile 1847”, recita: “Una donna a suo marito: sì, è vero, solo uno di questi tre bambini è figlio tuo, ma non ti dico quale perché non voglio che tratti male gli altri”. Eduardo potrebbe averne saputo, nonostante non ne accenni quando spiegò che l’idea di Filumena Marturano era nata da una piccola notizia letta su un quotidiano. Poche righe: “Una donna a Napoli, che conviveva con un uomo senza esserne la moglie, era riuscita a farsi sposare soltanto fingendosi moribonda. Questo era il fatterello piccante, ma minuscolo; da esso trassi la vicenda ben più vasta e patetica di Filumena, la più cara delle mie creature”. Probabilmente anche per la traccia autobiografica che conserva, rimandando a quanto accadde a sua madre Luisa che non vide mai riconosciuto il rapporto avuto con Eduardo Scarpetta da cui erano nati lui, Titina e Peppino. I quali assunsero appunto il cognome materno De Filippo. L’investimento di pathos drammaturgico sarebbe dovuto al residuo perturbante del segno psicanalitico, magari diluito dall’intento politico eduardiano nel denunciare sullo sfondo la crisi della famiglia tradizionale colta nel suo sgretolarsi e quindi nella rifondazione su basi non più meramente economiche ma valoriali. Si tratta di materiali che decisamente concorrono a comporre l’opera e a conferirle elementi simbolici caratterizzanti tanto da diventare universali nei tre atti messi in scena. 

  Ma il dato che si impone con furiosa energia è quello che emerge nel profilo rabbioso di Filumena Marturano. Un personaggio che nelle varie vestizioni teatrali, cinematografiche e televisive, interpretato da Titina De Filippo, Regina Bianchi, Pupella Maggio, Sophia Loren, Valeria Moriconi, Isa Danieli, Lina Sastri, Mariangela Melato, Mariangela d’Abbraccio e Vanessa Scalera, ha scavallato i decenni per affermarsi come l’icona della donna che elabora la ferita dell’umiliazione, macina la sopportazione di un dolore quotidiano durato un quarto di secolo fino a farne il fondamento della sua identità e impiegando la furbizia della volpe machiavellica che ha attraversato i bassi e i vicoli di Napoli riesce a rivendicare e a conquistare il diritto che le spetta.  Prima che il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara dichiarasse che “l’’umiliazione è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità”, intendendo – nonostante la successiva rettifica, l’inevitabile aggiustamento, il tardivo ripensamento –  trasmettere l’invito a praticare una sorta di metodo vendicativo che squaderna canoni educativi e sconvolge impianti pedagogici, sarebbe stato opportuno che avesse aspettato almeno la visione della più recente versione di “Filumena Marturano”. Un esempio che gli avrebbe consentito di comprendere in quale maniera dai vicoli San Liborio di questi tempi si possa risalire alla luce della giustizia.

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