Dai pochi passi a lei dedicati dal Nuovo Testamento a una ricchissima vicenda di reinterpretazioni teologiche, artistiche e letterarie: ecco il curioso destino di Myriam/Maria, la fanciulla ebrea che nel Magnificat (Lc 1,46-55) canta il ribaltamento delle sorti prospettato dal Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, che scaraventa i potenti dai loro troni, distrugge i superbi e innalza gli umili. Il contenuto del Magnificat è l’annuncio pubblico della gloria di quel Dio, che si manifesta nella storia nella maniera più umanamente inattesa. Redazionalmente, si tratta probabilmente di un salmo preesistente alla sua riscrittura da parte dell’evangelista Luca, un inno della comunità giudeo-cristiana intessuto di molte reminiscenze del Primo Testamento (si veda in particolare il cantico di Anna, 1 Sam 2,1-10), che celebrava la salvezza donata ai poveri del Signore, in ebraico gli anawim, citati 21 volte nella Bibbia ebraica (letteralmente il termine indica chi è curvo, non solo sotto l’oppressione dei prepotenti o il peso della povertà, ma soprattutto nell’umiltà dell’adorazione verso Dio, vincendo così ogni tentazione di superbia, orgoglio e autosufficienza). Quei poveri di cui quella giovane – autentica figlia di Sion, come ripeterà volentieri la tradizione cristiana – si fa portavoce e figura esemplare. In questa chiave, il Magnificat è un canto di liberazione rivoluzionario, che non promette di sostituire un potere all’altro ma rovescia criteri considerati inamovibili. Come lei, altre donne nella Bibbia – Miriam sorella di Mosè, Deborah, Giuditta – hanno intonato canti rivoluzionari e si sono rese collaboratrici dell’impossibile, impensabili voci di una speranza diversa dalle logiche mondane. Così Maria, gravida della Parola di Dio, crede nelle promesse divine, e ora, con occhi nuovi, può leggere in profondità la storia e vivere la profezia di un mondo nuovo.
Vorrei proporre alcune semplici considerazioni sull’incipit dell’inno, Lc 1,46b-48a: “L’anima mia magnifica il Signore/ e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,/ perché ha guardato l’umiltà della sua serva” (trad. CEI 2008), in particolare sulla sua ultima parte. Se la parola italiana umiltà richiama esplicitamente all’abbassamento verso terra (humus in latino), che significato ha il termine greco tapeínosis, cioè umiltà, idea centrale dell’intero Magnificat? Gli esegeti si soffermano su due sensi basilari: umiltà sociale, come afflizione, oppressione, disgrazia, bassa condizione, insignificanza di fronte alla storia, anonimato; e umiltà spirituale, indicante l’atteggiamento del cuore di chi si sente piccolo davanti a Dio. Qui si può pensare a un mix delle due accezioni. Stando al contesto degli ultimi libri del Primo Testamento e del pensiero giudaico fra II secolo a.C. e I secolo d.C., i tapeínoi sono gli umili che assumono davanti a Dio una postura caratterizzata da pietà, abbandono ossequiente, fiducia, autoconsegna, sottomissione amorosa. Maria riconosce la propria umiliazione (ma nessuno la umilia!), e ne fa uno stile esistenziale coscientemente assunto in forma di timore di Dio e consegna fiduciosa nelle sue mani. Gli anawim, cui lei va ascritta, sono infatti al contempo gli oppressi e i timorati di Dio. L’umiltà di Maria richiama dunque la sua condizione generale di vita, quella di una donna (in una società patriarcale e maschilista) senza alcun rilievo sociale, su cui Dio però si è curvato. In ogni caso, va notato che nel Magnificat l’innalzamento degli umili non è speculare al ribaltamento dei potenti. Solo in virtù di questa asimmetria è lecito proclamare che Dio ha fatto l’una e l’altra cosa: il modo in cui chi dal basso è tirato su è del tutto diverso dalle procedure con cui è rovesciato chi è sopra. L’umile resta sempre tale; non si vergogna del proprio passato, ma ne celebra la verità profonda. Al contrario il potente, spogliato della propria forza e abbandonato da quanti un tempo gli si sottomettevano interessatamente, non può pubblicamente celebrare ciò che ha perduto, perché sa “di che lagrime grondi e di che sangue” (Foscolo, Dei sepolcri, v.158). Una semplice donna, umile ma resa feconda, è assunta così a simbolo di Israele, popolo umiliato e resto fecondo nella storia, e di tutta la chiesa dei poveri, realtà insignificante per la sua piccolezza e debolezza.