Cuor mio privato delle dolci vesti protettrici

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Spoglia come il cielo

ero stravaccata sulle dolci colline bianche come il latte,

sulle coppe del petto, così morbide da farmi da rifugio

in questa giornata di urla.

Ero rimasta lì, fino al calar del sole, impaurita d’esplorare il corpo mio,

troppo pieno di sentieri ormai scavati da parole aspre come limoni.

Tremavo al solo pensiero di ripercorrere la strada dove man a mano mani m’avevano strappato di dosso i vestiti.

Osservavo il cielo, mi facevo trasportare come nuvola

anche se non potevo scappare, vivo assieme al mio corpo ed era ora di fare i conti con esso,

di combattere i mostri che mi si erano appiccicati addosso

di formare nuovi capi, più resistenti.

Mi sono alzata quando oramai s’era fatta notte, vedevo tutto il percorso da fare,

le dolci forme su cui camminare

al chiaror della luna.

Per minuti sono rimasta con il capo rivolto verso l’alto,

sognando di poter volare via

e raggiungere quella bellezza oppure di costruire una casa su una stella.

Il mio compito era fare i conti col mondo;

allora mi son incamminata, con le mani sulle orecchie,

impaurita dalle gocce che iniziavano a passarmi accanto

non accorgendomi che quelle provenivano proprio dagli occhi miei.

Non avevo una meta, il pavimento continuava a muoversi e spesso finivo col muso a terra,

è finita che mi sono sbucciata le ginocchia ed ero già stanca in partenza.

Tanto non sarei riuscita a togliermi di dosso quella melma che altri m’avevano versato,

era fin troppo difficile.

Mi sono imbattuta poi in una porta, situata sotto il mento

e ci sono entrata, con aria rassegnata.

Eccomi al pranzo di famiglia, -cavolo- penso,

vi è pure il cagnolino che ora, si spera, riposi in pace

e poi ho sgranato gli occhi, quando mi sono accorta che c’ero anch’io.

Parenti sorridenti,

con lame al posto dei denti,

forchette come armi e coltelli per punzecchiarmi,

io con lo sguardo da bambina, con gonna cucita a mano

con bocca piena nella speranza che le loro frasi non entrino in me

e ad ogni inizio d’argomento chiudo gli occhi;

aperti, chiusi, aperti, chiusi.

Alla visione di questo spettacolo mi siedo sul vecchio divano di nonna,

pieno zeppo di polvere, di ragnatele e da lontano ho notato pure un piccolo scarafaggio.

“Sono nel passato” questo pensiero mi è balenato nella mente ma l’ho scacciato subito, incredula.

Ecco che mi offrono un bicchiere d’insicurezze, paure che poi mi segneranno per l’intera vita,

ed ora si stanno preparando per il pezzo forte,

mi fanno notare di mangiare troppo

ed io quel cibo lo inghiottivo con malavoglia.

Mi indicano la pancia ed io rimango sbigottita

mi urlano che sono un peso ed io inizio a piangere,

la lacrima mi travolge 

ed ecco che mi ritrovo su una barca 

urlo e piango anch’io al ricordo di quel giorno,

sono impaurita perché non so dove sto per finire,

i brontolii della mia pancia iniziano a farsi sentire: chiudo gli occhi.

Cado e finisco davanti ad una gelateria,

il mio appetito mi conduce all’interno del negozio ed incontro una mia vecchia amica,

iniziamo a chiacchierare e ordiniamo,

io prendo il solito lei invece questa volta cambia, “Chissà” penso io.

Ci siamo fatte grosse risate finché, in un momento di silenzio, lei mi ha detto:

“Tu sei come il gelato, ogni tanto ti stufi e lo cambi.”

Mi catapulto in un rovo, sangue esce dalla mia pelle ormai completamente graffiata

ed inizio a sentirmi spoglia, priva di qualsiasi tipo di copertura.

Riesco a liberarmi dai rovi e trovo, proprio davanti a me, mio padre.

“Piccola è tutto ok?”, mi prende la mano,

recupera dalla tasca il suo solito fazzoletto di scorta, lo inumidisce con le mie lacrime

ed incomincia a disinfettarmi le ferite.

La luce inizia a calare ed egli ride,

ride sempre più forte, seppur conosce a memoria la frase 

“Non urlare mi dai fastidio”

che per anni ho dovuto ripetere.

Ride così rumorosamente da dovermi coprire le orecchie con le mani,

ed anch’io inizio ad urlare, grido ‘basta’ continuamente

ma lui non smette, anzi

sfrega così velocemente le ferite che sanguinano solo di più

si diverte col mio dolore, inizia a sputare parole d’odio ed io piango

piango e lui sghignazza,

prende ‘disinfettante’ dal mio viso così da potersi divertire ancor più con i graffi che mi percorrono l’intero corpo

finché mi spinge ed io, 

cado.

Quando apro gli occhi sono in un prato,

circondata da persone che conosco bene

che canticchiano parole pungenti come aghi:

“Senti le ossa, osserva il color 

della sua pelle che è un orror

orror di ragazza che brutta che è

voglio scappare che schifo che c’è

malata dev’esser sennò che spiegazion

posso riuscire a darmi che è di questo color

color morto…”

Mi alzo da terra, sentendo ridere a crepapelle le portatrici della cattiveria,

singhiozzo, sentendomi sempre più nuda

così incomincio a correre, nella speranza di non udire più quella canzone tanto brutta quanto dolorosa.

Corro con gli occhi chiusi e finisco con l’imbattermi con la mia migliore amica di un tempo

che m’abbraccia,

mi lascio andare, mi abbandono a lei,

felice e contenta di averla incontrata in un percorso così doloso.

Ella m’accompagna a casa sua e mi lascia sistemare nel suo letto, dicendomi di riposare.

Dopo una corta dormita ma rigenerante, mi sveglio all’alba, pronta a ripartire,

vogliosa di tornare alle coppe per riprendere a guardare il cielo.

Quando mi alzo dal letto noto che la camera è in subbuglio,

-ladri-, penso nel mentre che cerco la mia dolce amica.

Tutte le tapparelle abbassate,

ella non c’è più

poi sento bussare alla finestra dell’unica camera con la tapparella alzata,

ovvero la mia.

Eccola, fuori alla finestra, facendomi un gesto di cattivo gusto,

saltella, -è felice- penso,

poi vado alla porta per aprirle, pensando che si è scordata le chiavi ma è bloccata,

inizio ad agitarmi ma nulla vuole aprirsi,

così cado nel panico.

Al buio cerco una via d’uscita, vogliosa di rompere una finestra e chiederle a che razza di gioco sta giocando

ma poi mi accuccio a terra e lascio alle mie lacrime la possibilità di uccidermi.

Esse stanno piano piano riempiendo l’intera casa d’acqua pronta ad affogarmi,

finché la porta del seminterrato si apre

ed io sguscio via.

Tossisco, avvelenata dalla mia stessa tristezza

e quando ho sollevato il capo

un gruppo di individui cercavano di strapparmi le ultime e poche vesti che mi proteggevano,

non avevo granché forze

non possedevo più la stessa di un tempo;

ero scarica.

Continuavano a godere tramite il mio corpo

ed io mi sentivo più morta che mai,

seppur respiravo, ogni mio ansito mi uccideva sempre più.

Quando erano abbastanza soddisfatti hanno lanciato il corpo mio da una parte,

ed io purtroppo l’ho seguito, proprio perché -mio-.

Dopo circa due ore mi sono alzata e incamminata verso il nulla.

Sono arrivata presto in un paese e, purtroppo, la notizia era già arrivata.

Pomodori mi tirano addosso, ed il loro succo si mischia col mio sangue,

parole, tanti insulti ed una frase che mi ha colpita è stata:

“Si fa cani e porci quella”,

mi travolge ed io piango e cado, continuo a cadere

finendo a terra al buio.

Per giorni sono rimasta così, senza nessuna intenzione di alzarmi,

impaurita dal mondo per quante altre vesti avrebbe potuto strapparmi.

Ero rimasta con un leggero strato, pronta a spezzarmi

paralizzata al pensiero di cosa sarebbe successo al cuor mio se anche quel velo fosse stato tolto a brandelli.

Accoccolata a me stessa, cercavo di trasformare le mie braccia come coperta,

la mia testa, appoggiata alle ginocchia, come scudo, per impedire il completo frantumo di me stessa.

Mi vergognavo moltissimo

e continuavo a versare lacrime

che mi facevano di conseguenza da bevanda.

Pensavo a cosa potevano dirmi ora che continuavo a singhiozzare tutto il giorno,

delle mie ossa sporgenti e visibili,

delle cicatrici di guerra, del sangue che colava.

Al calar del sole ho visto una bambina dai capelli lunghi e castano nocciola

mi ha donato una coperta vera, bianca, bianca come il corpo mio.

Mi sono alzata, legandomela attorno e speranzosa di incontrare quella bimba durante il mio percorso

per dirle quanto le sono riconoscente. 

Mentre camminavo, ho deciso di parlare con me stessa, di ricordarmi chi sono

rimettermi addosso le vesti che mi erano state tolte,

non rendendomi conto di essere tornata sulle dolci bianche colline,

di aver attraversato dunque il paese, le persone, i pranzi…

ero di nuovo al punto di partenza ma questa volta mi sentivo bene,

bene con me stessa.

“I graffi guariranno”, parlavo tra me e me

poi da lontano, gli occhi che prima mi facevano scivolare per le lacrime che strabordavano

mi hanno comunicato che non parlavo da sola

ma con quella piccola bimba seduta accanto,

a cui stavo tenendo la mano

dopo averla avvolta nella coperta che mi era stata donata, proprio da lei.

-Biancaneve

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