A che basta un salto

Autore

Aurora Martinelli
Aurora Martinelli, nata nel 1998, dopo gli studi classici ha conseguito una Laurea Triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Padova con una tesi dal titolo “La lunga liberazione. La questione della specificità femminile nelle esperienze post Olocausto” con la professoressa Enrica Asquer. Contenta, ma non abbastanza, ha conseguito un'altra laurea in Graphic Design presso la LABA di Rovereto con una tesi di progetto dal titolo "Sfumature. Interazione tra podcast e comunicazione visiva in un progetto di divulgazione storica" col prof. Matteo Carboni. Mossa dal desiderio di unire l'anima storica e quella grafica e lavorare nel campo della comunicazione culturale, attualmente si muove tra Trento, dove collabora con la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi e con lo Studio di Davide Dorigatti, e Bologna, dove lavora per Un Altro Studio.

«Chi non salta un francese è! È! Chi non salta…». Un coretto scandito e ripetuto più volte da un miscuglio di voci profonde e voci stridule, una piccola folla urlante e chissà quanto consapevole. 
Emma non riusciva bene a dire da dove provenisse questo ricordo, però sapeva di caldo, di uomini sudaticci e vestiti di azzurro con le guance arrossate dall’entusiasmo e dalle bevute. Strano che le venisse questo flash mentre si trovava in una situazione diametralmente opposta: in piedi, nel silenzio di una chiesa, a debita e rispettosa distanza dagli altri presenti. Ah ecco, dovevano essere i mondiali del 2006. Lei era piccola e non le era mai importato nulla di calcio, ma mettendo insieme qualche pezzo le venne in mente che quell’anno era al mare, e mentre i suoi genitori seguivano attenti la partita sotto il tendone del bar del campeggio, gremito come non mai, lei era sola e libera di correre per il piazzale di cemento della baby dance. Lei non amava la confusione, i corpi appiccicosi che ad un certo punto perdono il senso del limite e dello spazio e si abbracciano, spintonano e scuotono per un entusiasmo condiviso che lei non riusciva a comprendere. Quella partita e quel trionfo che per tutti gli altri fu mastodontico, per lei non significavano niente. Si faceva i fatti propri, e anziché saltare al ritmo degli altri, lei stava semplicemente saltando uno degli eventi più epici della storia del calcio italiano – o almeno così la capì in seguito. Le venne da sorridere, ma cercò di trattenersi, pensando che quello era stato il primo germe del vizio che l’avrebbe accompagnata per il resto della vita, almeno per quella che aveva fino ad allora vissuto. La scuola organizza la gita sulla neve, non ci vuoi andare? A maggio faremo il saggio con l’orchestra al completo. Saremo elegantissimi, per le parti avremo le teche nuove tutte colorate, e alla fine una sorpresa di cui nessunissimo sa nulla. Devi esserci, come faranno i contralti senza di te? Ci troviamo a vedere la finale di Sanremo, so che non ne vai matta ma faremo una bella cena, ci sarà da bere e da commentare ogni singolo outfit. Puoi anche venire a mani vuote, eh. Ci sarai? Festa di fine anno in un locale fighissimo, con DJ e bibite scontate. Verranno tutti, vuoi mica mancare solo tu? 
Sì, alla fine mancava sempre e solo lei. Saltava tutto come si salta la pubblicità prima di un video su YouTube. Non le importava di appartenere a qualcosa, di vivere una vita seguendo quello che altri decidevano per lei che fosse imperdibile. Era quella la sua libertà: decidere che cosa le importasse a prescindere da tutti gli altri. Oggi però non era proprio potuta mancare in quella chiesa, a salutare una persona che aveva deciso di saltare una volta per tutte. Guardava quel ragazzo sorridente in una cornice d’argento circondata dai gigli e attraverso i suoi occhi, nella foto ancora vivi seppure immobili, sbirciava dentro la sua vita e si chiedeva che senso avesse avuto, per lui, sforzarsi di saltare sempre al ritmo degli altri come quei tifosi accaldati accalcati al campeggio, di essere sempre dentro agli eventi per un qualche senso di appartenenza, se poi era bastato un unico salto per cancellare tutto. 

Accanto a lei, Agnese la guardava. Quando erano bambine, lei ed Emma passavano interi pomeriggi al parco. Si ricordava perfettamente del giorno in cui arrivando scoprirono che c’era un nuovo gioco, un grande tappeto elastico all’ombra di un castagno. Agnese ci si era subito fiondata sopra, facendosi strada tra gli altri bambini, e aveva iniziato a saltare con loro. Emma l’aveva raggiunta con calma e, una volta salita, si era seduta tra i piedi che piombavano e risalivano a intermittenza. Non era ferma, non poteva esserlo, ma in quella confusione cercava e ostentava una sua stabilità perfetta. Al confronto con quella statua marmorea, Agnese si sentiva una bandiera al vento, incapace di capire quello che voleva e buona solo a farsi trascinare. Ferma all’università da troppi anni, sempre alla ricerca di una nuova esperienza, di una nuova città, di nuovi legami che però poi cambiavano, al ritmo dei salti che lei e gli altri attorno facevano. Lo sguardo giudicante di Emma l’aveva spesso fatta sentire sbagliata, ma a lei questo tappeto elastico così affollato piaceva. E anche se con tutto quel saltare sul posto non era mai andata né avanti né indietro, e non era mai arrivata così in alto da riuscire a strappare una foglia di quel castagno, in quel momento, guardando la foto incorniciata d’argento, si chiedeva come avesse fatto Emma a restare seduta tutta una vita per la stanchezza o la timidezza o la paura del caldo o della neve o della gente ubriaca. Senza rimpianti, pur sapendo che sarebbe bastato un unico salto per cancellare tutto. 

Dalla prima bancata, Valeria si voltò per un attimo a cercare i loro sguardi. Aveva già esaurito il primo pacchetto di fazzoletti, le sue tasche erano gonfie quanto i suoi occhi, ma voleva sorridere. Aveva cercato di arginare il flusso dei suoi pensieri, però ce n’era uno di cui non riusciva a liberarsi. Guardava la fotografia alla sua sinistra e senza parlare le rivolgeva una domanda: se fossi riuscita a dirtelo prima, avresti cambiato idea? Per quanto le apparisse disperata una vita che decidesse di restare solo perché aggrappata a un’altra che stava crescendo nel buio, era naturale per lei sperare che sì, le cose sarebbero cambiate, ed era anche naturale e bello immaginarsi che lui ne sarebbe stato emozionato e felice quanto lo era lei, anche se non avrebbero mai e poi mai pensato di dare una vita insieme. Una volta, lui le aveva detto che lei era come quel dinosauro pixellato del gioco che si fa aprendo internet col computer disconnesso. Il dinosauro corre in avanti, e bisogna cliccare la barra spaziatrice per farlo saltare sopra i cactus perché, se li si prende, si perde. Lei, che aveva sempre fatto tutto perfetto, nei tempi giusti. Lei, che aveva sempre cliccato al giusto momento, mai un secondo prima, mai un secondo dopo, e aveva saltato tutte le piante grasse con grande disinvoltura, si trovava ora a gestire da sola qualcosa che non aveva previsto. Un salto che non sapeva come far partire, dove l’avrebbe portata, e da cui nemmeno sapeva come si atterrasse. Uno slancio verso l’ignoto, la cui grandezza l’atterriva, ma che al tempo stesso sapeva di vita e della certezza che quell’unico salto non sarebbe bastato a cancellare, ma a ricominciare tutto.

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