Il salto di Fosbury e la scelta di essere liberi

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

UNA RIFLESSIONE FILOSOFICA A PARTIRE DALL’IMPRESA DI CITTÀ DEL MESSICO 1968

Le seguenti considerazioni prendono corpo ad un anno di distanza dalla morte di Richard Douglas Fosbury, campione olimpico di salto in alto ai Giochi di Città del Messico 1968 e indimenticato inventore della tecnica di salto che da lui prende nome. Ripercorrere i fotogrammi dei video che ne celebrano le gesta sportive è, ancor oggi, emozionante: essi sono capaci di riportarci indietro nel tempo, al 20 ottobre 1968 appunto, e di sintonizzarci sul clima festante dello Stadio Olimpico Universitario di Città del Messico. Davanti a noi c’è un ragazzo dinoccolato, che cammina nervosamente sulla pedana del salto in alto: apre e chiude le mani in maniera stereotipata, come per concentrarsi, e guarda l’asticella posta, poco distante dalla sua persona, ad un’altezza di 2 metri e 24 centimetri, catalizzando su di sé – senza volerlo – lo sguardo dei presenti. Si tratta di quello che alcuni cronisti e detrattori hanno definito come il peggior saltatore di tutti i tempi. Le prime prove da lui effettuate nelle qualificazioni hanno provocato nel pubblico un senso di ilarità sbalordita: quel ragazzo di Portland, così eccentrico, con i suoi scarpini chiodati di colore diverso, salta in modo alternativo. Tutti eseguono il salto ventrale; lui, invece, prima di spiccare il volo, si gira e passa sopra all’asta di schiena, guardando verso il cielo. Nessuno ha mai saltato in quella maniera; questo ne aumenta in qualche modo la simpatia. La sua semplicità e la sua genuinità fanno il resto e lo trasformano nell’idolo della folla. Nel pomeriggio della finale, a giocarsi le medaglie sono appunto lui, Dick Fosbury, l’outsider, e due campioni celebrati: il sovietico Gavrilov, atleta eccezionale che avrebbe vinto l’oro agli Europei di Atene nel ’69 e l’altro americano Ed Caruthers, olimpionico a Tokyo, quattro anni prima. Giunti a 2 metri e 24 centimetri rimangono in lizza solo i due rappresentanti degli States: entrambi sbagliano i primi tentativi; poi è Fosbury ad avere la meglio e a portarsi a casa medaglia d’oro e record olimpico. Da quel momento il Fosbury flop diventa il gesto atletico simbolo della disciplina; il suo stile viene adottato da tutti i saltatori in alto. Si può senz’altro dire che l’atleta statunitense sia un rivoluzionario dello sport e che lo diventi nel momento in cui riesce ad innovare radicalmente la tecnica della sua disciplina. Quella di Fosbury è l’espressione di una scelta che determina una discontinuità e che, per la sua originalità, è in grado in un certo qual modo di cambiare la realtà. 

Quest’affermazione ci induce a sostare sulla metafora rappresentata dal gesto di Fosbury per uscire dall’angusto orizzonte dello sport, spalancare lo sguardo allo scenario più ampio dell’esistenza e riflettere così sulla cifra antropologica della scelta quale dimensione essenziale del nostro essere liberi.

«L’importanza di una riflessione sul senso della scelta – scrive a tal proposito Roberto Mancini – si riassume in due ragioni. La prima, quotidiana e sperimentata da tutti, è legata alla difficoltà di scegliere di scegliere, cioè di accettare la facoltà e insieme l’obbligo di prendere consapevolmente una via tra le molte alternative che si prospettano nella vita. Ciascuno si ritrova il compito di deliberare e di agire in prima persona senza consumarsi in uno stato di oscillazione permanente, senza rifugiarsi nell’astensione e nel rinvio, senza tenersi aperte vie di fuga come fossero le sole cose in cui crediamo veramente. (…) La seconda ragione che ci sprona ad approfondire questo tema deriva dal fatto che la scelta intrattiene un rapporto essenziale con la ricerca del principio e del senso della vita. Nella misura, infatti, in cui guardiamo al mondo e alla condizione umana non come governate dal caso o dalla necessità di un meccanismo impersonale, bensì come generate e sorrette da dinamiche personali nell’accezione più aperta del termine, interrogarsi su cosa significhi scegliere è, nel contempo, interrogarsi sul principio di ciò che viviamo e di quanto per noi ha senso e valore»1.

In breve, si può affermare che la scelta sia un’esperienza che pretende la nostra attenzione perché confrontarsi con essa equivale a misurarsi con la difficoltà di assumere fino in fondo il compito della nostra libertà e quello, ancor più determinante, del nostro tendere – per suo tramite – alla felicità. Cosa vuol dire tuttavia, in senso proprio, scegliere

Per capirlo credo sia necessario differenziare la polarità della scelta, da quella della preferenza e da quella della decisione. Se la preferenza si pone come l’opzione che si determina allorquando una certa situazione ponga di fronte a possibilità limitate, con margini relativi di movimento, si può sostenere che la decisione indichi un atto della volontà con cui si chiude una qualche questione o si risolve un problema, un atto con il quale si taglia con una certa dimensione (de-caedere in latino vuol dire proprio questo2): appunto per tale motivo il termine decisione è utilizzato per dire il modo netto, tranchant, con cui avviene una certa azione, cioè per dire che agiamo senza esitazioni di sorta, chiudendo con un certo passato. Non così avviene per la scelta che, quando è realmente scelta ossia scelta buona o per il bene, più che chiudere con il passato, apre al futuro, riuscendo parimenti a gettar luce sul presente.

«La scelta – osserva ancora Mancini – è quell’atto della volontà in cui [ci si] porta verso il futuro. È orientamento, apertura, approssimazione, movimento di ricerca verso tutto ciò che è considerato bene, valore, vita, fondamento. La scelta non cerca di sventare il futuro o di batterlo sul tempo, ma di incontrarlo e, per quanto è in noi, di prepararlo. Perciò essa sembra irriducibile sia alla prevalenza della situazione data, tipica del preferire, sia a quella della forza risolutiva soggettiva, tipica del decidere»3.

Quando si sceglie – come analogicamente Fosbury ci insegna mediante la sua rivoluzione – si assume un orientamento esistenziale e un modo d’essere capace di modificare l’esistente: tale orientamento risulta, in primis, un atto in grado di coinvolgere l’integralità della persona umana che, scegliendo, non si spende per un semplice proponimento ma agisce fattivamente; in secundis, determina – come detto – una novità, giacché quando un soggetto sceglie, coloro che si relazionano con lui dovranno misurarsi con l’inedita dinamica messa in campo. 

Quanto sin qui esposto può essere compendiato in due tesi di fondo: la prima di esse ci dice che la vita di ciascuno di noi non può essere decisa, ma scelta. La nostra personale vocazione, la nostra originale interpretazione dell’esistenza e il nostro approdo ci richiedono non tanto decisioni – legate alla contingenza delle situazioni – ma scelte a cui rimanere fedeli4.

«La fedeltà – aggiunge di nuovo Mancini – non come pura adesione della volontà all’obbligazione morale o giuridica, quanto come consonanza tra il modo d’essere della persona e la direzione del cammino che ha intrapreso, è il respiro stesso della scelta. La durata in cui tale fedeltà si dispiega non è solo quella della memoria rivolta alla meta, a ciò che è stato scelto, ma è la continuità dell’identità personale, è conferma di sé. In questo senso, scegliere è anche scegliersi»5.

La seconda tesi, la cui consistenza è testimoniata in maniera particolarissima dal salto di Fosbury da cui si era partiti, si riduce a questo: che – come non è la libertà (intesa quale libertarismo privo di vincoli di sorta) a renderci veri, ma è la verità a farci liberi – così non è l’originalità (presa qui, in senso deteriore, come sinonimo di bizzarria o stravaganza) a renderci liberi, ma che è la libertà a renderci originali, ossia non lacerati in parti e tensioni tra loro antagoniste ma tendenti, in modo personalissimo, all’armonia del proprio essere e al bene per se stessi e per gli altri.

NOTE

  1. R. Mancini, Il silenzio, via verso la vita, Qiqajon, Magnano 2002, p. 138
  2. Cfr. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983, p. 300
  3. R. Mancini, Il silenzio, via verso la vita, pp. 146-147
  4. Cfr. K. Jaspers, Filosofia, II. Chiarificazione dell’esistenza, Mursia, Milano 1978, pp. 148-150
  5. R. Mancini, Il silenzio, via verso la vita, pp. 150-151

1 commento

  1. Professore,
    grazie delle sue particolari, preziose riflessioni che nutrono la nostra mente e la nostra anima.
    Sono stimoli di grande intuizione, di originale profondità, che elevano il nostro pensiero, arricchendo il nostro essere per esser ci in modo unico e speciale.
    Sono doni di inestimabile livello culturale, filosofico, umano, esistenziale, che lasciano un segno in chiunque ne faccia tesoro.
    Grazie e buon proseguimento per il prossimo lavoro.

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