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Contro se stessi o con se stessi? Appunti sparsi per una fenomenologia interiore della guerra

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

A differenza di quanto ci si potrebbe attendere da un intervento elaborato in una congiuntura storica come quella che stiamo attraversando – un’epoca di particolarismi, di scontro globale tra narrazioni inconciliabili e di conflitto generalizzato tra blocchi alla ricerca di un nuovo equilibrio mondiale1 – quest’articolo vuole occuparsi del tema della guerra prescindendo da ogni possibile riferimento alla geopolitica. Esso mira piuttosto a perlustrare un campo di battaglia più intimo e apparentemente circoscritto – quello del cuore umano – per mostrare come ogni conflitto – dal più feroce e pervasivo al più impalpabile e latente – trovi la sua scaturigine nella guerra contro se stessi

Tale tesi – senz’altro ermetica, almeno sulle prime – risulta plausibile qualora, sulla scorta delle felici osservazioni consegnateci da Pier Paolo Ottonello nel suo saggio L’uomo equivoco2, si consideri la guerra contro se stessi come l’opposto (ovvero la perfetta omissione) della guerra con se stessi. Quest’ultima si configura come l’essenza dell’esistere umano e come la tensione all’assoluta integrità del nostro essere: solo quando tale proiezione è totale – dice il filosofo – l’orizzonte della distensione, della pace, si fa assoluto; ogniqualvolta, al contrario, tale guerra s’adagi in soste, armistizi, compromessi, pacifismi, la vita viene dissipata nell’autodistruzione da cui deriva ogni forma di guerra guerreggiata: di parole, di sangue, di privazioni3

Trovo che il pensatore genovese abbia ragioni da vendere nel dichiarare che chi percorra le strade della negazione di sé e della propria interezza – tendendo inevitabilmente a privare anche gli altri di qualcosa – imbocchi ipso facto la via dell’annichilimento. Per comprendere perché ciò sia vero, credo sia opportuno focalizzare la nostra attenzione sulla natura della guerra con se stessi. In che cosa consiste? Come può essere descritta? La risposta a quest’interrogativo è tanto semplice da delineare nella sua formalità, quanto difficile da vivere nella sua complessa pericolosità: essa può venire fondamentalmente ricondotta ad un protocollo sinfonico caratterizzato da tre movimenti circolarmente concatenati ed autoimplicantisi. 

Il primo movimento esistenziale con cui misurarsi per combattere con se stessi consiste nell’esercitare il proprio pensiero al fine di maturare uno sguardo capace di accogliere il reale per quello che è, al di là di ogni riduzionismo ideologico auto o etero-imposto; il secondo movimento coincide con il confronto serrato da parte del soggetto con la dinamica del suo desiderare, specchio della condizione umana e chiave attraverso cui rileggerci nel nostro esser posti tra bellezza e dolore, a confronto con una pienezza che ci riguarda da vicino ma che, al tempo stesso, ci trascende4; il terzo movimento, infine, acquista consistenza quando l’io, scegliendo di adeguarsi al codice del bene, decida di vivere la relazione ad ogni tu cui è rivolto – pur nella consapevolezza dei limiti che accompagnano intrinsecamente l’umano – alla luce di quanto prescritto dalla Regola d’oro, la quale recita: Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te. 

Soffermiamoci brevemente sulla fisionomia delle tre posture belliche appena descritte per coglierne la quintessenza: muoviamo dall’esercizio del pensiero. Quando questo modus vivendi raggiunge il suo compimento? Direi quando l’atto del nostro pensare arrivi ad inspirare il senso delle cose e ad espirare se stesso per aderire alla bellezza dell’esistente, in qualsiasi modo questo gli si palesi. Solo allora il pensiero può porsi come trascendenza destinata non alla suprema solitudine, ma all’incontro con il volto luminoso della verità. La tradizione greca, e più in genere occidentale, ha coltivato e coltiva da sempre l’idea che pensare secondo verità equivalga a vedere la realtà in maniera autentica perché priva di contrazioni o deformazioni: la cosa è pienamente legittima laddove il vedere e il conoscere che ne consegue siano letti nella loro connotazione sapienziale più radicale, come un con-nascere, un iniziare effettivamente a vivere, superando gli inciampi dettati dalla conflittualità e dall’op-posizione io/tu. 

C’è poi la dimensione del desiderio: preso nella sua radicalità e non confuso con il suo surrogato contemporaneo più in voga che è la voglia, esso può contribuire alla lotta con se stessi per la sua capacità di unificare l’intera persona nel suo protendersi fuori da sé. Vivere il desiderio vuol dire scoprire il suo nucleo etico e liberarne la forza esplosiva dentro di noi, un’energia che, se da un lato dice la nostra povertà e la nostra debolezza, dall’altro ci permette di comprendere come il nostro destino ultimo non sia quello di realizzare conquiste ma di essere chiamati a realizzarci nell’incontro con altri.

«Il desiderio – afferma a tal proposito Roberto Mancini nel suo Il silenzio, via verso la vita – si struttura per avere il proprio oggetto e si configura come un percorso di apprendimento che dura tutta la vita, in cui s’impara che cosa significhino realmente i termini avere e oggetto. L’avere implicato nel desiderare ha valore ontologico, riguarda direttamente l’essere del soggetto. Il desiderio non si risolve mai nell’appagamento, nella neutralizzazione del proprio oggetto o nella fusione con esso. Per cogliere questo dato non è necessario contrapporlo al bisogno, che invece parrebbe esaurirsi nella dinamica stimolo-risposta: esso non vuole affatto annullare in sé il proprio oggetto, ma si riaccende sempre, è tensione permanente. Per questa sua natura, Levinas coglie nel desiderio l’accesso all’esperienza dell’infinito, inteso come alterità dell’Altissimo»5.

Da ultimo, c’è l’adeguazione al codice trascendentale del bene, un nucleo valoriale che ci precede e che è eredità e, insieme, promessa: eredità nel suo offrirsi come custodia del senso della verità a partire dalla fondazione del mondo6; promessa nel suo essere messaggio dato per la vita, affinché questa giunga a destinazione. 

Ebbene, mi sembra che lo snodo della corrispondenza al bene rappresenti davvero l’acme della guerra con se stessi: nella sua espressione più radicale che consiste, come adombrato in precedenza, nell’applicazione sine glossa della Regola aurea, il soggetto coglie la stabilità del comandamento che ci impone più che di non fare il male a sé e ad altri (neminem laedere), di fare il bene (uniquique suum tribuere), quel bene che conviene a me e all’altro perché conviene all’essere umano in quanto tale7

Vivere la propria esperienza interpretando con impegno gli stili esistenziali ora enucleati è – lo si accennava sopra – pericoloso; ma, d’altro canto – come ricorda Hölderlin – «là dove c’è il pericolo, cresce ciò che salva»8. Per una di quelle strane circostanze dalle quali le parole hanno avuto origine, esperienza e pericolo condividono – nell’etimologia latina e non solo – lo stesso prefisso linguistico. Experientia è un vocabolo formato da ex e periculum o peritus. Così avviene per empereia in greco, Erfahrung in tedesco, esperienza in italiano, experiencia in spagnolo, lemmi con cui si ha sempre a che fare con la plurivocità della radice indoeuropea per9, la quale connota sia il pericolo, sia l’attraversamento di un passaggio, di un limite. Sì, perché di questo si tratta quando ci si sottrae alla guerra a contro se stessi per abbracciare in pienezza il combattimento senza esclusione di colpi con se stessi: di superare la soglia dell’io per arrivare esistenzialmente a dis-porsi in un atteggiamento che lasci percepire il reale e soprattutto l’alterità così come un essere umano dovrebbe percepirli per essere all’altezza del compito e della vocazione che la vita gli assegna.

¹  Cfr. L. Caracciolo, La pace è finita. Così ricomincia la storia in Europa, Feltrinelli, Milano 2022, pp. 8-9.

² P.P. Ottonello, L’uomo “equivoco”, Marsilio, Venezia 2001, p. 25.

³ Ibi, p. 25.

⁴ Cfr. R. Mancini, Il silenzio, via verso la vita, Qiqajon, Magnano 2002, p. 58.

 ⁵Ibi, p. 62.

⁶  Cfr. Matteo 13, 35.

⁷ Cfr. C. Vigna, Sulla Regola d’oro, in Etica del desiderio come etica del riconoscimento, Orthotes, Napoli 2015, p. 145.

8 Cfr. F. Hölderlin, Poesie, Mondadori, Milano 1971, pp. 216-217. 

9Cfr. C. Canullo, L’estasi della speranza. Ai margini del pensiero di Jean Nabert, Cittadella, Assisi 2005, p. 16.


2 Commenti

  1. Analisi senz’altro profonda ed esaustiva! Vivere la propria esperienza nel profondo npstro essere lasciando da parte le inevitabili inframettenze dell’io o del soggettivismo di cui appare intrisa la nostra esperienza interiore…

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