Alcune riflessioni politiche a partire dal saggio Puntare sull’intelligenza? Uomini colti e comunità liberali di Antonio Petagine
Che la nostra democrazia e, più in generale, le democrazie occidentali oggi arranchino è un dato di fatto: ad appesantirle c’è un calo sempre più vistoso della partecipazione dei cittadini alla loro vita, un’affluenza sempre minore dei medesimi alle urne, una crescita esponenziale del consenso delle masse verso estremismi e movimenti populisti che fanno leva sulla forza del numero piuttosto che su quella delle regole, una sfiducia generalizzata della gente per le istituzioni rappresentative, inversamente proporzionale alla leaderizzazione di una dialettica politica appiattita sulla media logic e sulla sua rapida superficialità. C’è chi, molto lucidamente, tratta le patologie delle attuali democrazie come epifenomeni di una grave fattispecie di demopatia: il sistema politico languirebbe perché a soffrire – secondo tale ottica – sarebbe il demos ad esso congiunto. I suoi problemi – come osserva acutamente Luigi Di Gregorio1 – sono il precipitato di una lunga transizione che conduce dalla Modernità alla Postmodernità e che si manifesta in maniera proteiforme nella perdita del senso sociale, nella crisi del sapere, nella logica consumista dell’usa e getta (capace di coinvolgere, oltre che l’ordine delle cose, anche il piano delle relazioni intersoggettive), nell’inaridimento dei tradizionali luoghi politici e nella corrispettiva proliferazione di non luoghi.
Personalmente sono del parere che la crisi contemporanea della democrazia sia effetto e, insieme, causa della crisi della persona (e dell’umano ad essa collegato), sussistendo tra le due polarità una sorta di implicita quanto nefasta circolarità viziosa. A ben vedere, la stagione in cui viviamo è caratterizzata – almeno nel nostro Occidente sazio e disperato – da una grave forma di spaesamento individuale che diventa, inevitabilmente, confusione collettiva e da una parallela sindrome di disorientamento generale che condanna l’individuo – l’individuo, dico, rifacendomi volutamente ad un paradigma socio/politico inequivocabile – ad uno smarrimento corrosivo, capace di intridere sia la sua visione del reale che la sua progettualità. Il contesto in cui ci muoviamo nega il valore della persona; attenta alla dignità della vita umana e all’integrità della sessualità, mistificandone la natura; si chiude alla divina Trascendenza e si orienta verso spiritualità liquide che, spesso, idolatrano un sacro indeterminato e selvaggio. Il diffuso senso di decadenza derivante dalle ideologie imperanti del pluralismo, del relativismo e della tecnocrazia pervade fatalmente la società e si traduce in una sorta di fosca inquietudine in grado di avviluppare l’intero orizzonte antropologico. A differenza di quanto accadeva fino a pochi decenni fa, l’uomo postmoderno sembra angosciato da paure nuove, mobili, elusive e, al tempo stesso, plastiche nel loro sovrapporsi e compenetrarsi vicendevole; paure indistinte, generate dal globale sentimento d’insicurezza e dalla percezione della perdita di controllo sugli eventi, prodotta da pericoli reali e, insieme, priva di cause chiare, immediatamente riconoscibili.
Come prendere collettivamente atto di questo stato di cose e provare così a superare la situazione d’impasse in cui ci stiamo dibattendo? Una proposta estremamente interessante in merito a tali interrogativi ci arriva da Antonio Petagine e da un suo intervento intitolato Puntare sull’intelligenza? Uomini colti e comunità liberali2.
Lasciandosi ispirare dalle considerazioni di Allan Bloom (La chiusura della mente americana. I misfatti dell’istruzione contemporanea) e di Martha Nussbaum (Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica), lo studioso – docente di Storia della filosofia presso l’Università Roma Tre – mostra la necessità, per l’attuale contesto sociale, di tornare a riflettere in maniera seria e urgente sul senso e sul valore politico della cultura, arrivando a farci capire come le nostre democrazie non possano fare a meno di uomini colti, idonei a promuovere qualcosa che somigli alla civiltà.
«Perché ciò accada – osserva Petagine – non basta fare appello alla volontà dei singoli, esortandoli a prendersi cura della propria cultura personale. Si tratta piuttosto di creare luoghi in cui persone dalle provenienze e dalle attitudini diverse siano spinte a coltivare ricchezza di sapere e larghezza di vedute; di decidere se e perché valga la pena di puntare sull’intelligenza, ritenendo che sia questa, considerata nella sua pienezza, nella sua interezza e nel suo genuino valore [come esercizio di cultura, preciso e universale, appunto, e come apertura sinottica alla realtà, aggiungo io sulla scorta di Aristotele3 e di p. Giuseppe Barzaghi4] ad esprimere il meglio di noi»5.
L’operazione qui delineata è tanto difficile da realizzare quanto decisiva. Occorre certamente constatare come nel mondo in cui viviamo – sia pure a fronte di una continua e crescente innovazione e di una richiesta di competenze sempre più raffinate e specialistiche – la cultura sia fortemente marginalizzata dal quadro complessivo della vita delle persone e moltissimi nostri contemporanei temano più di essere insoddisfatti che di essere superficiali e, ancor più, di essere ignorati piuttosto che di essere ignoranti6; ma è proprio per questo che quanto delineato da Petagine va perseguito con forza: ne va della libertà delle persone (ovvero della loro capacità di dirigere la propria vita verso il giusto, il vero e il buono perseguiti per se stessi) e della liberalità delle nostre società e delle nostre democrazie. Perché in questi contesti la cultura torni autenticamente ad essere quanto è chiamata ad essere, cioè lievito esistenziale e forza propulsiva di vita, è necessario che gli uomini di cultura lavorino – più che ad avere un numero sempre crescente di ammiratori – ad incrementare le fila dei loro imitatori. Con le loro conoscenze e le loro parole, con i comportamenti e il proprio stile, essi dovrebbero ottemperare a due compiti politici sostanziali: a testimoniare, anzitutto, che, nella vita, la dimensione della gratuità è sempre quella più alta (ciò è vero perché la gratuità è il tratto in cui l’intelligenza manifesta pienamente sé stessa e la propria eccellenza) e a rendere, conseguentemente, la loro cultura un patrimonio pubblico, posto a servizio del prossimo in vista della fioritura del bene comune. Scrive a tal proposito Petagine:«Senza comunità di riferimento, lasciata alla pura volontà dei singoli e ai loro mezzi, la cultura scivola facilmente in un fenomeno naif, estemporaneo, oppure in un hobby a cui ci si può dedicare a tempo perso. Il quadro cambia quando si fa parte di una comunità, perché essa fornisce delle occasioni strutturate in cui sviluppare l’intelligenza in senso liberale, interdisciplinare e integrale. John Henry Newman riteneva che la cultura liberale, se perseguita fino in fondo, potesse aprire la mente, correggerla, raffinarla, renderla capace di conoscere, di sintetizzare, padroneggiare, regolare e usare la sua conoscenza, darle potere sulle sue facoltà, applicazione, flessibilità, metodo, esattezza critica, sagacia, ingegnosità, prontezza, espressione eloquente. Per suscitare il desiderio di acquisire queste capacità non bastano certamente vaghe esortazioni moraleggianti a prendersi cura della propria cultura personale. Ad essere necessaria è un’azione comune, un’autentica passione educativa, un impegno massimamente politico, nel senso più nobile del termine e, forse per questo, anche più urgente»7.
NOTE
- Cfr. L. Di Gregorio, Demopatia. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, p. 27.
- Cfr. A. Petagine, Puntare sull’intelligenza? Uomini colti e comunità liberali in Allargare gli orizzonti del pensiero. Scommettere sulla cultura tra specializzazione e interdisciplinarietà, Orthotes, Napoli 2020, pp. 41-62.
- Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, I, 4, 1094b-1095a, Laterza, Bari, 2010, pp. 5-6: «È tipico della persona colta ricercare in ciascun genere di cose la precisione solo per quanto lo permette la natura della cosa, dato che è cosa evidentemente assurda sia accettare che un matematico faccia appello alla persuasione, sia attendersi dimostrazioni scientifiche da un retore. Ciascuno, infatti, valuta bene ciò che conosce e di questo è buon giudice; quindi, l’uomo colto lo è in ciascun singolo campo, e buon giudice in assoluto è colui che ha una cultura universale».
- Cfr. G. Barzaghi, Metafisica della cultura cristiana, Esd, Bologna 1996, p. 123.
- A. Petagine, Puntare sull’intelligenza? Uomini colti e comunità liberali, p. 44.
- Cfr. Ibi, p. 45.
- Ibi, p. 62.