Autonomia – Dipendenza nel mondo del lavoro

Autore

Emanuela Fellin
Emanuela Fellin, pedagogista clinica, svolge la sua attività professionale, di studio, ricerca e consulenza per lo sviluppo individuale, sia con l’infanzia e l’adolescenza, che con gli adulti. Si occupa di interventi con i gruppi e le organizzazioni per la formazione e lo sviluppo dell’apprendimento e della motivazione. L’impegno di studio e applicazione è rivolto agli interventi nei contesti critici dell’educazione contemporanea, sia istituzionali che scolastici. Le tematiche principali di interesse vertono sui concetti di vivibilità, ambiente, cura e apprendimento. I metodi utilizzati sono quelli propri della ricerca-intervento e della consulenza al ruolo per lo sviluppo individuale e il sostegno alle dinamiche dei gruppi e delle organizzazioni.

Nel contesto della psicologia del lavoro, il rapporto tra autonomia e dipendenza nel legame capo-collaboratore rappresenta un nodo cruciale per la gestione efficace delle risorse umane. La Self-Determination Theory (Deci & Ryan, 2017) sottolinea come l’autonomia sia un bisogno psicologico fondamentale che alimenta la motivazione intrinseca e il senso di realizzazione professionale. Tuttavia, un’organizzazione basata esclusivamente sull’autonomia senza un adeguato supporto e senza che vi sia un buon esercizio di contenimento relazionale e reciproco, quindi senza una buona gestione della dipendenza, può generare insicurezza e disorientamento, specie in contesti complessi e dinamici.

La dipendenza, d’altro canto, non è necessariamente un fattore negativo. La Teoria dell’Attaccamento Organizzativo (Harms, Credé, Tynan, Leon & Jeung, 2020) evidenzia come un legame sicuro con la figura di leadership possa favorire fiducia e stabilità emotiva, facilitando la gestione delle incertezze lavorative. Un capo che offre supporto senza cadere nel micromanagement, cioè evitando di ridurre tutto alla logica del comando-esecuzione-controllo, consente ai collaboratori di sviluppare una dipendenza funzionale, necessaria soprattutto nelle fasi iniziali della carriera o in momenti di transizione.

Dagli studi di Bandura (2021) sulla self-efficacy emerge che il senso di autoefficacia dei collaboratori cresce quando ricevono responsabilità progressive e feedback costruttivi, permettendo di interiorizzare competenze e decisioni. Un’eccessiva dipendenza dal capo, invece, può ridurre la capacità decisionale e la proattività, creando un circolo vizioso di insicurezza e immobilismo. In alcuni contesti organizzativi si osservano fenomeni di dipendenza patologica, in cui il collaboratore diviene incapace di prendere decisioni autonome per paura di sanzioni o ritorsioni implicite, generando un clima di stress cronico e demotivazione.

Il concetto di doppio legame (Bateson et al., 1956) offre un’ulteriore chiave di lettura per comprendere dinamiche disfunzionali nel rapporto capo-collaboratore. Quando i leader inviano messaggi contraddittori, ad esempio chiedendo autonomia ma punendo l’iniziativa, i collaboratori possono sviluppare un senso di paralisi decisionale e ansia lavorativa. Questa ambivalenza comunicativa compromette la fiducia nel management e può condurre a una cultura organizzativa basata sulla paura e sulla rigidità.

Il modello di leadership trasformazionale (Bass & Riggio, 2006) fornisce una chiave di lettura utile per bilanciare autonomia e dipendenza. I leader trasformazionali ispirano i collaboratori attraverso una visione chiara e il riconoscimento delle loro capacità, incentivando autonomia decisionale senza rinunciare a un ruolo guida. Questo approccio, se ben calibrato, evita il rischio di una leadership laissez-faire, caratterizzata da eccessiva delega e scarso supporto, che può risultare deleteria soprattutto in team meno strutturati o con competenze ancora in via di sviluppo.

Un altro aspetto centrale è la cultura organizzativa. Secondo Schein (2017), le aziende con una cultura orientata alla fiducia e alla responsabilizzazione tendono a favorire un equilibrio sano tra autonomia e dipendenza. In questi contesti, i capi non sono percepiti come controllori, ma come facilitatori di crescita e sviluppo. Al contrario, ambienti caratterizzati da controllo rigido e gerarchia

eccessiva tendono a soffocare l’iniziativa individuale, riducendo l’engagement e aumentando il turnover.

Dal punto di vista pratico, le aziende possono adottare strategie mirate per ottimizzare questa dinamica. Programmi di mentoring, affiancamenti graduali e feedback strutturati sono strumenti efficaci per favorire una dipendenza iniziale positiva, che poi si trasforma in autonomia operativa. Inoltre, la creazione di percorsi di crescita chiari e la promozione di un clima di fiducia riducono il rischio di dipendenza disfunzionale e favoriscono l’empowerment dei collaboratori.

Possiamo affermare che a caratterizzare la vita lavorativa è la solitudine. La singolarità, per i lavoratori appare strettamente connessa alla precarietà. Prima ancora che essere un fatto relativo alle attuali regole contrattuali e all’effettiva perdita di interesse verso le realtà aziendali da parte dei lavoratori, la precarietà che causa la singolarità è un sentimento diffuso, uno stato d’animo, un modo di sentirsi dominato dalla paura. Paura di perdita di opportunità e di possibilità; paura dell’altro lavoratore che, nelle strategie di gestione basate sulla competitività esasperata, spesso diventa un nemico o un antagonista; paura del futuro proprio e di quello dei figli; paura di perdita di conoscenze, capacità e competenze in assenza di investimenti in formazione; paura di emarginazione; paura di cause indefinite, le più alienanti, che creano un clima di disagio e di indifferenza.

L’indifferenza come codice della crisi di legame nei luoghi di lavoro, si presenta come una progressiva sospensione della risonanza con gli altri, dell’appartenenza che può sostenere la partecipazione e la propositività, della motivazione che può indurre a investire in conoscenza e saperi necessari per ogni negoziazione progettuale. A pensarci bene sono proprio gli assetti invisibili e immateriali che assurgono a risorse essenziali per ridefinire senso e significato del lavoro e ruolo e funzioni della rappresentanza e delle forme di vita organizzative. Ma siamo in mezzo al guado.

Una via per rendere le organizzazioni luoghi interessanti in cui vivere, seguendo le logiche attuali del work life balance, è l’attivazione di percorsi di Internal Coaching©.

E’ una metodologia di gestione delle relazioni interne ai gruppi e alle organizzazioni che si configura come proposta di intervento per sostenere la crescita professionale e soggettiva, la soddisfazione lavorativa, la qualità delle relazioni e lo sviluppo organizzativo. Ha come obiettivo la ricerca e l’azione per guidarsi e guidare, coinvolgere e valutare la partecipazione al lavoro e i risultati delle prestazioni lavorative, coinvolgendo la formazione e il counselling individuale e di gruppo.

Internal coaching nasce dalla necessità di creare condizioni di valorizzazione delle relazioni lavorative, del rapporto con il compito, di sostegno allo sviluppo delle motivazioni e delle capacità di leadership, di facilitazione dei processi cooperativi nei gruppi di lavoro. La personalizzazione dell’esperienza lavorativa e la rilevanza crescente delle relazioni nei processi di lavoro, anche in ragione della digitalizzazione, dell’avvento dell’infosfera e delle profonde trasformazioni che il lavoro sta sperimentando, richiedono metodi e strumenti evoluti, snelli e semplici, per la gestione delle motivazioni, delle aspettative, della formazione e dello sviluppo organizzativo. La dematerializzazione e la centralità del capitale simbolico sono i fattori critici più rilevanti della trasformazione in corso e richiedono inedite e innovative forme di gestione delle relazioni, delle motivazioni e dello sviluppo organizzativo e delle competenze. Si tratta di una necessità connessa anche alla difficile gestione del cambiamento e delle relative resistenze.

Il rapporto capo-collaboratore quindi non è un continuum tra autonomia e dipendenza, ma un equilibrio dinamico che deve adattarsi al contesto, alle competenze e alla maturità professionale dell’individuo. Le ricerche più recenti dimostrano che i leader più efficaci sono quelli in grado di modulare il proprio stile di gestione in base alle esigenze dei collaboratori, favorendo un ambiente di lavoro in cui autonomia e supporto coesistono in modo armonico, potenziando sia la performance aziendale che il benessere individuale.

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