Premessa
È la nostra continua oscillazione tra autoconsapevolezza e autoannientamento che può aprire le porte alla meraviglia. Non smettiamo mai di cercare e tentiamo persino di credere a quello che ci sembra di aver trovato per sempre, salvo sentirci annichiliti nella ripetizione e avviarci verso un nuovo inedito percorso di esplorazione. La meraviglia, a saperla considerare, a tentare di sollevarla da dove se ne sta nell’ordine delle cose, per cercare di portarla “intorno alle stelle” (cum sidera), alla fine verrà. E sarà fonte di estensione di noi o di annichilimento per vertigine, di incontenimento per eccesso, di disorientamento per perdita di confini.
Non si lascia imbrigliare la meraviglia e a pensarci bene è lei che ci coglie. Si può cercare, sfiorare, presentire, si può inseguire, perseguire, persino accarezzare, provvisoriamente sentire e vivere, ma non si può afferrare, pena ridurla a canone, a merce, a stilema, a emodities (emotion – commodities).
Lo sa bene la falena, quando si aggira al limite della perdita di sé stessa intorno alla fiamma di una candela.
Lo ha scoperto Orfeo quando non ha resistito e si è volto a guardare Euridice, perdendola per sempre.
Lo sapeva bene l’astuto Ulisse che si è fatto legare per cercare di reggere l’attrazione fatale del canto delle Sirene.
La meraviglia si dissolve se si cerca nello straordinario e nell’eccezionale; diviene sodale e avvicinabile se, come Alberto Caeiro (Fernando Pessoa), si accoglie l’evidenza che “c’è abbastanza bellezza nello star qui”; se con Marcel Proust si riconosce che “viaggiare non è vedere nuovi posti, ma vedere con occhi nuovi”.
È l’ambiguità, quindi, il tratto distintivo della meraviglia, che si concede a patto di non volerla possedere; che nell’alimentare la nostra autonomia e la nostra estensione conferma la nostra dipendenza.
È dove si incontrano mondo interno e mondo esterno che, attesa e imprevista, emerge la meraviglia.

Attesa
A lungo abbiamo pensato che fosse l’inatteso a farci vivere la meraviglia.
È in realtà la nostra tensione verso gli altri e il mondo, la nostra attesa quindi, a donarci gli “attesi imprevisti”. Siamo mammiferi. Trascorriamo una parte del tempo della nostra vita, quella prenatale, nel corpo di un’altra mammifera. Noi umani, nove mesi. Segue poi, dopo la nascita, una fase di neotenia che per noi umani è la più lunga rispetto alle altre specie dei mammiferi. La neotenia viene considerata un ritardo rispetto alla capacità di autonomia e di autosufficienza insieme alla conservazione di tratti infantili in età adulta. Negli esseri umani è particolarmente lunga e importante, in quanto noi abbiamo uno sviluppo fisiologico estremamente prolungato caratterizzato tra l’altro dalla lunga maturazione del sistema nervoso centrale che dura diversi anni dopo la nascita. Quel tempo riguarda un’attesa particolare a cui si associano molte delle distinzioni della specie umana. Essere dipendenti dai caregiver in modo radicale e prolungato, in quanto nessun essere umano potrebbe sopravvivere se non accudito per mesi dopo la nascita, rende allo stesso tempo creativi, capaci di attivarsi per reagire, orientati ad una tensione che rinvia costantemente alla ricerca dell’autonomia e dell’inedito. La tensione verso l’inedito è un continuo stato di attesa, o meglio più che uno stato e un divenire attendendo. E che cosa si attende se non una svolta verso la meraviglia, un atteso imprevisto che ancora una volta aprirà una finestra inedita per sentire il mondo sentendo sé stessi? Del resto non si apre uno spazio generativo senza dubitare di una cosa esistente o negarla, né si crea qualcosa senza attenderla a partire dal vuoto del dubbio o della negazione. Non si accede alla meraviglia se non la si attende: senza l’ipotesi che genera l’attesa, quando la meraviglia si presenta non la si riconosce: non si vede il meraviglioso nell’ordinario. Non è perciò l’inatteso a farci accedere, seppur provvisoriamente, alla meraviglia. Solo l’attesa può preparare un lampo nel buio o un break-down del senso dominante.
Sì, perché noi siamo fatti per cercare.

Domanda
In principio vi è una domanda.
La domanda su noi stessi e sulla realtà è per noi un gioco infinito, inquietante e meraviglioso. La meraviglia, diversamente dalla violenza, non vuole nulla, se non perseguire il suo inestinguibile stupore estatico. Attendiamo la meraviglia al punto da sospendere volontariamente l’incredulità. Esiste, infatti, una relazione abbastanza stretta fra meraviglia e finzione, così come fra meraviglia e illusione. La finzione, infatti, non è l’inganno, non riguarda il dire una cosa per un’altra. Fingere è fare “come se”, rappresentarsi nella fantasia, creare con l’immaginazione: “Ma sedendo e mirando, interminati silenzi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo (Leopardi)”. L’illusione ha una relazione stretta con la meraviglia in quanto è associabile al gioco, ovvero al giocare dentro un contesto, in un percorso, in una ricerca di conoscenza o di significato. È Alfonso Maurizio Iacono a portare avanti la più avanzata ricerca su questi temi. In ogni caso sono la domanda di senso e significato, la domanda e il bisogno di conoscere, la propensione emozionale di base alla ricerca, che preparano la meraviglia.

Ascolto
L’ascolto attento del vento ci fa credere ad una sinfonia della natura. In quel caso la meraviglia non dipende solo dalla capacità fisiologica di sentire. Ascoltare quindi non è solo sentire, ma implica il coinvolgimento dei processi emozionali e di una apertura sensibile al mondo e agli altri. Ascoltare è apprendere, conoscere il tempo e lo spazio che ci circonda e comunicare con noi stessi e il mondo circostante. L’accesso alla meraviglia passa per un coinvolgimento corporeo, emozionale e relazionale di cui l’ascolto è una condizione necessaria.

Osservazione
L’osservazione di una nuvola la trasforma in un volto; quella di un fiore in un simbolo, dell’amore, ad esempio. Con prevalente riferimento all’attività del corpo-cervello-mente, l’osservazione riguarda la relazione osservatore-osservato, il campo, la materia d’osservazione; un argomento degno di osservazione; lo spirito di osservazione, la capacità di cogliere e ritenere non solo gli aspetti esteriori delle cose ma anche il carattere delle persone, la realtà di una situazione e, in genere, quanto nelle cose, nelle parole, in un’opera, è degno di esser notato e di diventare materia di considerazione.

Relazione
Ci creiamo individuandoci nella relazione con gli altri viventi, l’altra metà del nostro cielo, la fonte della nostra ragione poetica. La relazione non è una scelta, è un processo intersoggettivo in cui si genera la soggettività individuale. Luogo di tutte le possibilità e di tutti i problemi con l’altro, la relazione è una porta della meraviglia. La comunicazione e il riconoscimento nelle relazioni interpersonali emergono e dipendono dalla combinazione, dal dialogo e dal conflitto delle differenze individuali, che sono costitutive di ogni processo di individuazione. La relazione è incarnata in quanto sostenuta dall’approssimazione tra corpi in movimento. Gli esseri umani sono individui di una specie che è naturalmente relazionale, e la relazione è costitutiva dell’individuazione personale. La relazione è reciproca in quanto basata sulla modulazione intenzionale e sulla circolarità. La natura e la qualità della relazione dipendono dal livello di reciprocità e dall’influenza che emergono e si affermano nella contingenza di una data situazione. Da quella contingenza può emergere e scaturire la meraviglia.

Empatia
È nella risonanza con gli altri viventi di cui siamo parte e da cui dipendiamo, umani, altri animali, piante, acqua, aria, suolo, che emerge l’empatia con cui sentendo il mondo sentiamo noi stessi. Siamo fatti per riconoscerci come simili, ma possiamo disattivare quel riconoscimento e nonostante le somiglianze è il soggetto a determinare quale uso fa del riconoscimento e delle somiglianze. Se siamo naturalmente empatici e l’empatia non è una scelta, dobbiamo riflettere sull’uso che ne facciamo. La questione dell’empatia, che ha a che fare strettamente con lo spazio noicentrico deve essere laicizzata fino in fondo. Le questioni sono probabilmente almeno due. L’empatia è la dotazione naturale mediante la quale riconosciamo l’altro come nostro simile, sentiamo come se fossimo l’altro. Proprio per questo però la valorizzazione o l’utilizzo di questa opportunità può portare noi umani ad esiti molteplici che possono essere molto positivi o molto negativi. Di certo l’empatia con gli altri e con lo spazio è una porta per la meraviglia.

Bellezza
Il thaûma, la meraviglia del divenire, si traduce in bellezza, mediante l’esperienza estetica. Noi umani, capaci di creatività, componiamo e ricomponiamo in modi ogni volta almeno in parte originale i repertori disponibili del mondo. Nel farlo generiamo distruzione e incanto. Quando l’incanto prevale accediamo all’esperienza estetica. Se quell’esperienza è fatta di una risonanza particolarmente riuscita tra noi, gli altri e il mondo, si aprono le porte della meraviglia e della bellezza, intese non solo come l’aspetto esteriore e cosmetico delle cose, ma come l’estensione di noi stessi, delle nostre emozioni e delle nostre sensibilità, per vie e modi che senza quella esperienza non si verificherebbero. La bellezza è allo stesso tempo porta di accesso alla meraviglia ed esito dell’esperienza di meraviglia.

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