A prima vista il problema della scuola sembra rientrare in quello generale della gestione italiana della cosa pubblica, ma in realtà è molto più grave. Ce ne eravamo accorti già da qualche decennio, ma ogni dubbio è scomparso il 22 ottobre 2022 quando Giuseppe Valditara è diventato ministro dell’Istruzione e del merito. La scomparsa, nella definizione del ministero, dell’aggettivo “pubblica” legato a “istruzione” e l’apparire del concetto di “merito”, infatti, è stata un’evidente dichiarazione di intenti per distruggere sempre più profondamente la cultura in Italia.
Va detto che quello della scuola è un problema diverso da quello dei trasporti e da quello della sanità che possono essere presi a esempio di come si sia riusciti a distruggere dei settori di interesse pubblico con la falsa scusa di tutelare il bilancio statale. Nei trasporti i governi di ogni tendenza fin dall’immediato dopoguerra hanno preferito privilegiare quelli su gomma, e quindi le case automobilistiche, rispetto ai servizi di trasporto pubblico su rotaia che, così, non sono mai stati particolarmente apprezzati anche prima che il ministro Salvini riuscisse a renderli ridicoli ancor prima che inefficienti. Nella sanità stiamo assistendo in diretta alla cinica e mortifera distruzione di un settore pubblico che tutto il mondo ci invidiava, allo scopo di favorire gli amici della sanità privata.
Nella scuola agli obiettivi delle gestioni dei trasporti e della sanità, con continui e cospicui tagli reali e grandi favori alle scuole e alle università private, si aggiungono anche altri due progetti di tipo squisitamente politico: la distruzione della cultura e la sostituzione dell’insegnamento con l’indottrinamento.
Che la cultura abbia sempre dato fastidio al potere è storia antichissima, perché consente maggiori possibilità di fare correlazioni, di guardare le cose da punti di vista inconsueti e, quindi, di avere più stimoli a obiettare usando una libertà di espressione che raramente il potere accetta. In tempi recenti chi ha operato senza vergogna nel voler demolire la cultura è stato Silvio Berlusconi, al quale politicamente non sono mai stato vicino e che ho sinceramente detestato come protagonista del nuovo strapotere delle televisioni, con telegiornali che a noi giornalisti ribolliva il sangue a sentirli definire così, e con trasmissioni svuota-cervello in cui il tratto comune era la forzata lontananza da problemi che potessero impedire le risate che, invece, dovevano essere obbligatorie.
Fino a quel momento ci si illudeva che a difendere la società da questa barbarie potesse bastare la Costituzione con l’articolo 9: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica»; con l’articolo 33: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato» e con il 34: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».
Ma era un’illusione perché in una scuola votata all’istruzione non c’era posto per l’indottrinamento. Comunque Berlusconi ha soltanto aperto, o riaperto, una strada che poi è stata seguita con entusiasmo da Giorgia Meloni con la scelta di portare Giuseppe Valditara, accompagnato da un certo numero di suoi “esperti”, al vertice del ministero che lei esplicitamente voleva meno pubblico e più legato a un teorico merito.
Ci si potrebbe domandare perché essere critici nei confronti di queste due novità semantiche. Semplice: nella prima è evidente il contrasto con i dettami costituzionali, mentre sulla seconda occorre dilungarsi un po’ di più partendo dalla reintroduzione del voto in condotta, espresso in decimi, che fa media con gli altri e che prevede che con un’insufficienza si sia bocciati e con il 6 si debba sostenere un esame di educazione civica, materia di cui, però, non c’è traccia in alcun programma scolastico normale. È deterrenza, non voglia di educare.
È evidente che, rispetto al passato, Valditara ha voluto rendere il voto in condotta, soprattutto verso il basso, un po’ più aderente a quelli delle altre materie, ma la sostanza del concetto di condotta non cambia. Se guardiamo a un passato non tanto remoto era evidente il valore simbolico del 7 in condotta, fissato da Gentile e dal governo Mussolini nel 1923: un voto altino rispetto agli altri di molte pagelle, ma nella condotta si pretendeva la perfezione del 10, o quasi: il 9 era accettato, ma con malcelato disappunto, l’8 ti faceva guardare come un potenziale piccolo delinquente e comunque un rompiscatole che voleva discutere, il 7 era tanto basso da condannarti agli esami di riparazione in tutte le materie.
E questo perché? Forse il saper comportarsi bene è più importante del conoscere l’italiano, il latino, la matematica, una lingua straniera? Assolutamente no. E, infatti, non si potrebbe capire il perché di una simile severità se si pensasse alla buona condotta come sinonimo di buona educazione.
Tutto diventa, invece, platealmente comprensibile se buona condotta diventa sinonimo di disciplina. E la differenza tra disciplina ed educazione è enorme. La disciplina è il rigoroso rispetto delle regole. L’educazione, invece, è il rispetto delle persone. La differenza è fondamentale perché l’educazione è un modo di porsi davanti agli altri, mentre la disciplina è il rispetto di dettami che possono essere fissati da chiunque, magari nella legalità, ma non con giustizia e che non tengono conto del pensiero delle persone che quelle regole in qualche modo dovrebbero governare. Magari di regole cambiate soltanto perché più comode per chi detiene – pro tempore, si spera – il potere.
Se guardiamo a come la scuola sta cambiando, il pensiero non può non andare a Seneca che nelle Lettere a Lucilio accusava: «Non vitae, sed scholae discimus»: impariamo non per la vita, ma per la scuola. Un difetto enorme che si tramanda ancora da quella volta, ma che è stato ulteriormente peggiorato perché sempre meno si insegna per la vita e sempre più per l’orientamento politico con scelte ideologiche ben precise e per il lavoro, con insegnamenti che portano a una specializzazione settoriale e non a una vera e propria cultura che, per definizione, deve allargarsi su svariati campi dello scibile in quanto è l’insieme delle cognizioni che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, e ha rielaborato con il proprio pensiero in modo da convertire le nozioni da semplice erudizione a elemento costitutivo della propria personalità e della consapevolezza di sé e del proprio mondo.
E allora vediamo alcuni altri caposaldi della scuola meloniana visti attraverso le decisioni e le parole di Valditara che è riuscito a farsi notare anche al di fuori dell’ambito scolastico con dichiarazioni come quella con cui ha negato l’esistenza del patriarcato nel nostro Paese, addebitando solo ai migranti le peggiori violenze fisiche sulle donne e i tanti femminicidi.
Particolarmente esemplificativo è il nuovo obbligo di studiare alle elementari la Bibbia che, così dice il ministro, «come l’Iliade e l’Odissea, è una grande testimonianza culturale». Ma appare abbastanza scontato che lo scopo di questa novità non è tanto culturale quanto religioso; infatti poi sottolinea che «dedicheremo due anni delle elementari a studiare i greci e i romani e l’impatto del Cristianesimo sul mondo classico».
E la sensazione diventa ancora più forte se ci si ricorda che sempre Valditara punta a far formare classi nelle quali il numero di alunni stranieri che si iscrivono per la prima volta alle scuole italiane dovrà essere decisamente limitato non includendo, ma dividendo studenti italiani e stranieri, alimentando un’idea di integrazione ridotta a mero apprendimento della lingua, ma anche andando a incidere, neppure tanto indirettamente, sulla possibilità di acquisire la cittadinanza italiana per la quale uno dei requisiti necessari è proprio la conoscenza della lingua italiana.
Altro aspetto contestato è la proposta di Valditara che prevede che chi occupa una scuola e vi causa danni deve essere bocciato. Il ministro ha anche detto di avere allo studio «una norma per far sì che chi occupa, se non dimostra di non essere coinvolto nei fatti, risponda civilmente dei danni che sono stati cagionati».
Al ministro ha risposto a stretto giro la Procura di Roma che ha affermato che occupare una scuola non è reato perché gli studenti che prendono possesso degli edifici scolastici protestando e manifestando starebbero soltanto esercitando un diritto garantito dalla Costituzione, quello di “riunione e manifestazione”. Dunque le occupazioni studentesche non costituiscono reato di interruzione di pubblico servizio poiché «gli studenti devono essere considerati soggetti attivi della comunità scolastica e partecipi alla sua gestione».
Inoltre una norma come quella ipotizzata da Valditara, che considera in ogni caso responsabili degli eventuali danneggiamenti tutti i ragazzi presenti all’occupazione, salvo quelli che dimostrino di esserne estranei, solleva grosse perplessità sul piano del diritto. Se chiunque, per avere un risarcimento, deve provare che il danno è stato commesso dalla persona da cui vuole essere risarcito, le scuole godrebbero, invece, di una posizione di privilegio, attraverso un ribaltamento dell’onere della prova in cui l’occupante dovrebbe fornire la prova negativa di non aver partecipato al danneggiamento, che è praticamente impossibile e lede il diritto di difesa.
Ma forse la cosa che meglio può spiegare la visione del mondo di Valditara è quella sua affermazione secondo la quale «l’umiliazione è un fattore fondamentale nella crescita della personalità. Da lì nasce il riscatto. Da lì nasce la maturazione. Da lì nasce la responsabilizzazione».
A noi, quando eravamo a scuola, ripetevano che dovevamo essere umili per aprirci alla cultura. Se il titolare del dicastero più importante per il futuro del nostro Paese fosse un ignorante potrebbe non conoscere la differenza profonda che corre tra umiltà e umiliazione, ma questo appare impossibile anche perché umili e umiliati hanno la medesima radice etimologica (derivano da “humus”: sentirsi abbassati fino a terra), ma sono profondamente diversi perché la prima parola ha un significato positivo, mentre la seconda è decisamente negativa, tanto che il latino, lingua attenta e precisa anche nelle sfumature, definisce questi due stati in maniera diversa: “umiltà” è “humilitas”, mentre “umiliazione” corrisponde a “offensio”, o “notatio”, o “indignitas”. Visto che Valditara, oltre che ministro, è anche ordinario di Diritto privato e pubblico romano all’Università di Torino, è da escludere che non conosca queste sfumature che poi, con il passare dei secoli, l’italiano ha affievolito fin quasi a farle superficialmente scomparire. Quindi l’ipotesi di ignoranza è da escludere.
Ancor più difficile da accettare è l’idea di una possibile genialità. L’umiliazione, infatti, toglie la dignità e causa un sentimento che non può non portare a uno stato di penosa vergogna e di cancellazione della considerazione di sé, la cui reazione raramente si discosta da un moto di violenza verso sé stessi, o verso chi questa umiliazione ha inflitto.
Resta l’ultima ipotesi, da considerare più attentamente anche perché la più pericolosa: il secondo fine nascosto, che è probabilmente il distinguo più evidente tra la politica intesa come emancipazione generale della polis e quella che, invece, vuole maggiore potere per sé o per il proprio gruppo, anche cercando di rendere non soltanto apparentemente normale, ma addirittura utile l’umiliazione che, nel passaggio dalla mortificazione singola a quella collettiva, si evolve in uno strumento politico di straordinaria efficacia, ma di terribile scorrettezza, oltre che di crudeltà.
Insomma: davanti a un simile concetto palesemente disonesto non si può sorridere e dimenticarsene. È necessario, invece, impegnarsi ancora di più in quanto non di uno stimolo all’emancipazione si tratta, ma di un tentativo di ulteriore sottomissione, di un desiderio di trasformare nuovamente i cittadini in sudditi.