Ormai è ben noto che nel disegno di legge formulato a questo proposito dal Governo Meloni la caccia viene definita una attività che «concorre alla tutela della biodiversità e dell’ecosistema». Sarebbe sin troppo facile argomentare per analogia che le “Nuove indicazioni 2025” formulate dal Ministero per l’Istruzione della stessa compagine governativa concorrano esattamente nello stesso senso alla tutela della libertà di pensiero delle prossime generazioni e alla crescita armoniosa di un “ecosistema” scolastico che per parte sua – per l’inarrestabile dinamica del nostro tempo e della nostra specie da sempre migrante – vive certamente una stagione di cambiamenti impetuosi e di sfide inedite.
Se per un verso – sia qui detto per inciso, ma il tema meriterebbe una trattazione a parte – nelle centocinquantatré pagine delle Indicazioni si cercherebbe inutilmente un cenno concreto alla volontà di porre un argine a quella burocratizzazione della funzione e dei compiti del docente (pur enfaticamente definito «professionista e anche Maestro») che già ha totalmente sfigurato la figura del professore universitario attraverso un lungo calvario culminato con la cosiddetta “Riforma Gelmini” di cui Valditara fu notoriamente tra i principali ispiratori, e che mortificando docenza e ricerca è quantomeno fra le cause prossime della perdita di un ruolo formativo attivo della “classe degli insegnanti”, per altro verso quel che colpisce il lettore è la qualità e l’intenzione teorica delle relazioni istituite fra i principi dichiarati nelle pagine iniziali del documento e le conseguenze che mostrano di derivarne nell’ambito didattico che appare costituire il vero cuore delle Indicazioni: quello, cioè, coordinato da Ernesto Galli della Loggia e relativo alla storia intesa come «lo specifico modo di osservare e raccontare la realtà», e dunque di trarne indicazioni per il presente e il futuro.
Le premesse culturali del documento ministeriale fanno infatti riferimento alla centralità della “persona” sancita dalla nostra Costituzione, iscrivendola per così dire in una duplice strategia: per un verso l’indagine delle relazioni fra persona, scuola e famiglia, per l’altro verso l’interpretazione della persona stessa come identità, relazione, partecipazione.
Parliamo dunque – così saremmo portati ad argomentare – di una identità che riconosce sé stessa aprendosi nella relazione con l’altro, e in modo ancor più impegnativo che diviene nella partecipazione, cioè – leggiamo – nella “apertura intenzionale su tutta la realtà”, all’interno della quale costruire il proprio “progetto di umanità”.
Per questo verso, il rilievo (quasi filologico?) per cui “il termine ‘persona’ ha radici storico-culturali occidentali” dovrebbe sì contribuire nel modo più attivo a rendere problematico e consapevole l’uso dei concetti alla luce della loro dimensione storica, ma in nessun modo potrebbe prefigurare una interpretazione “identitaria” dell’identità, risultando magari anzi del tutto compatibile con quella caratterizzazione del “pensiero aperto” di cui scriveva Merleau-Ponty già nel 1956, dicendo che esso «non crede tanto alle essenze quanto a nodi di significati che saranno disfatti e rifatti diversamente in una nuova rete del sapere e dell’esperienza».
Stupisce dunque (e non da ultimo sorprende anche per il netto salto “stilistico” in cui si compie, manifestando un’aspirazione teorica e programmatica di vasto respiro) il tono perentorio e la sostanza di quanto si legge nelle pagine dedicate alle motivazioni dello studio della storia: «Solo l’Occidente conosce la Storia. […] Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia, come compilazioni annalistiche di dinastie o di fatti eminenti succedutisi nel tempo; allo stesso modo, per un certo periodo della loro vicenda secolare anche altre civiltà, altre culture, hanno assistito a un inizio di scrittura che possedeva le caratteristiche della scrittura storica. Ma quell’inizio è ben presto rimasto tale, ripiegando su sé stesso e non dando vita ad alcuno sviluppo; quindi non segnando in alcun modo la propria cultura così come invece la dimensione della Storia ha segnato la nostra. La Storia, come da oltre due millenni l’Occidente l’intende, non consiste nella raccolta dei fatti e nel metterli in ordine cronologico. Non dovrebbe essere necessario ricordarlo: la Storia consiste nel pensare i fatti. […] È attraverso questa disposizione d’animo e gli strumenti d’indagine da essa prodotti che la cultura occidentale è stata in grado di farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo, di conoscerlo, di conquistarlo per secoli e di modellarlo».
Il ricercatore, per la verità, non potrà fare a meno di avere un sobbalzo – prima ancora che per le vaghe suggestioni hegeliane che sembrano muovere questo passo o per le implicazioni (su cui torneremo) di quel conclusivo “padrona del mondo” – perché di fatto anche a un blando conoscitore del pensiero europeo moderno risulterà evidente che qui si mette in gioco, a dirla tutta, l’Occidente contro l’Occidente, dal momento che quel concetto di storia che verrebbe estromesso e superato dalla ragione occidentale (non consiste nella raccolta dei fatti e nel metterli in ordine) figura invece di fatto come l’esatto concetto di cognitio historica del Razionalismo europeo del Settecento. Tale esempio, pure strategico, sarebbe ovviamente moltiplicabile, ripensandolo pur all’interno della tradizione europea in contesti storici e teorici differenti, dall’antico al moderno.
Ma in generale: esiste un Occidente? Contribuisce davvero alla conoscenza e dunque alla costruzione relazionale e partecipativa dell’identità (costruzione che pure stava “in premessa”, se vogliamo riprendere da quello stesso Razionalismo il principio ermeneutico dell’equità dell’interprete) la rappresentazione di un Occidente che esprime una cultura che si renda intellettualmente padrona del mondo, permettendo così a tale Occidente di conquistarlo per secoli e di modellarlo?
Il problema non sta qui tanto in quella sorta di “nostalgia coloniale” che vi trova espressione secondo un rilievo difficilmente eludibile – nostalgia che ovviamente rimane ineffettuale e a conti fatti vale quasi come un lapsus calami – quanto piuttosto nelle attive implicazioni che da questo assetto discendono, o per meglio dire, che a partire da questa progettazione della storia risalgono verso la costruzione dell’identità, della relazione e della partecipazione. Soprattutto in un contesto scolastico, nonché sociale e territoriale, in cui le differenze di origini e tradizioni etniche, di culture, religioni, universi simbolici ecc. diventano sempre più costituenti di prima grandezza e interpreti ineludibili di ogni progetto di formazione.
Ma appunto, e senza scomodare le pagine di Amartya Sen di Identità e violenza: che costruzione dell’identità, quale pluralità intendiamo rendere visibile e dicibile nel gioco delle identità che ci costituiscono, che costituiscono ogni essere umano prima ancora che ogni comunità? Quale attenzione dialogica nei confronti dell’altro, quale apertura partecipativa come fondamento del pensare sé stessi si promuove nelle generazioni degli studenti e si richiede (con la cogenza di un documento di Indicazioni ministeriali) ai docenti?
Ovunque e in nessun luogo – come direbbe ancora Merleau-Ponty – il compito per eccellenza umano di “osservare e raccontare la realtà” si configura in una immensa letteratura pensante, e davvero dovremmo «chiederci se il nome di filosofia [e correlativamente quello di storia] appartenga solo alle dottrine che si traducono spontaneamente in concetti, oppure se può essere esteso a esperienze, a saggezze, a discipline» che altrove come qui si configurano e configurano la realtà secondo indici differenti, supponendo sempre che «la storia umana non è fin d’ora costruita in modo da dover segnare un giorno […] il pieno meriggio dell’identità», ma che piuttosto essa possa indirizzare il sapere e i nostri progetti di formazione verso la ricerca, «attraverso apparati di cultura sempre atipici, di una vita che non sia intollerabile per la maggior parte degli uomini».
Ci troviamo oggi a confrontarci con una vera e propria tribalizzazione delle identità contrapposte, con esiti che dai grandi conflitti sovranazionali scendono sino alla tonalità emotiva delle interazioni personali (e tale considerazione, in maniera persino scontata, non esclude certo l’uso delle tecnologie dei social e delle nuove tecnologie dell’intelligenza artificiale) ed altresì assistiamo a quella che con Bauman potremmo chiamare la produzione sociale (e storica) dell’indifferenza sociale per l’altro e il diverso.
Ricordando queste letture e riquadrando i nostri temi alla luce di queste considerazioni non ci troviamo di fronte a una perorazione più o meno patetica, ma esattamente al configurarsi di quel nesso fra costruzione dell’identità, relazione e partecipazione le cui radici – come peraltro si è visto – le stesse Indicazioni ministeriali ravvisano nel dettato costituzionale.
Anziché far carico alla storia e al suo insegnamento disciplinare della rappresentazione di un Occidente “intellettualmente padrone del mondo”, e anziché modellare su tale immagine di dominio la costruzione dell’identità degli studenti, portare il principio relazionale e partecipativo, direi, sino nel cuore metodologico del progetto di formazione dell’identità significherebbe forse aprire in direzione di un differente umanesimo.
C’è un nome per un progetto di questo tipo, e se esso non è quello di una “conclusiva” affermazione del “meriggio dell’identità” nella sua specifica connotazione occidentale, non è nemmeno quello di un tribalismo identitario più o meno armato ed elevato in tal modo a forma di convivenza fondata sulla reciproca esclusione.
Limitandoci qui a un paio di esempi, se per parte sua il poeta e saggista martinicano Édouard Glissant parlava di “poetica della relazione” e di una reciproca “opacità” come condizione di possibilità e non come ostacolo al dialogo con il diverso, per parte sua il filosofo senegalese Souleymane Bachir Diagne parla senz’altro di “universalismo”, anzi piuttosto di un attivo “universalizzare” come modo di realizzare l’umanità “con i mezzi dell’umanità”.C’è una ulteriore fondamentale lezione che deriva dalle nuove indicazioni ministeriali, ed è quella che nella progettazione della formazione scolastica sia in questione l’assunzione di un compito politico e non banalmente amministrativo; eminentemente politica, se vorrà essere esercitata, dovrà esserne anche la critica e con essa la costruzione di una forma possibile del futuro.