Uscita di sicurezza

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«La Comunità dove aveva trascorso tutta la vita giaceva addormentata alle sue spalle: all’alba si sarebbe svegliata per riprendere la solita vita ordinata, senza scosse. La vita dove nulla era inatteso. O scomodo. O sgradevole. La vita senza colore, dolore, senza passato». 
L. Lowry, The Giver1

Nella tranquilla Comunità del romanzo distopico The Giver non ci sono problemi di sicurezza perché non ci sono conflitti, tensioni sociali, presenza di nuovi abitanti diversi dai locali. Quasi un sogno che vede famiglie con figli, bambini e anziani accuditi da tutti i membri della comunità a loro volta tutelati e protetti da una Commissione che provvede a soddisfare i bisogni di ognuno, almeno fino a quando sono “utili” e “funzionano”. Un sogno il cui prezzo da pagare è molto alto: la mancanza di scelta. Ogni abitante ha un ruolo che gli viene assegnato a dodici anni e per il quale contano gli anni di volontariato e le attitudini dimostrate. Nessuna violenza né disciplina ferrea viene impartita per questi risultati, ma un controllo sulle emozioni e sul dolore che nasconde un incubo da cui fuggire. In nome della sicurezza si rinuncia all’umanità e si comincia proprio dai più piccoli.

Se pensiamo alla sicurezza e ai minori l’obbligo di sorveglianza e di tutela trova tutti d’accordo nel contesto di un diritto in cui l’adulto ha il dovere del controllo: è l’accezione del termine più antica quella che si riferisce alla protezione, a quella “securitas” che deriva a sua volta da“sine cura”, nell’etimologia latina, quell’assenza “di affanno, preoccupazione” che la sicurezza dovrebbe garantire. Da questo punto di vista si va ben oltre la sorveglianza ed un complesso sistema di controllo in cui i più piccoli semplicemente non debbano “farsi male”. È molto più semplice sorvegliare e proteggere se pensiamo ad uno spazio fisico, delimitato, scandito da orari e regole, ma diventa molto più complesso se pensiamo che dentro questo spazio c’è un gruppo, una piccola comunità di adulti in minoranza e minori in maggioranza che interagiscono e si relazionano quotidianamente.

Il concetto di sicurezza, dunque, non può limitarsi a quello del controllo né, in senso più esteso, a essere delegato, in un sistema gerarchico, a chi esercita in qualche modo una forma di potere. La stessa accezione di sorveglianza va articolata meglio se pensiamo al processo di crescita e di graduale autonomia degli alunni e delle alunne in cui una finalità educativa è anche renderli in grado di riconoscere i pericoli, di sperimentare e di mettersi alla prova in un equilibrio da raggiungere in cui protezione e libertà non siano in contraddizione.

Eppure oggi sul terreno complesso e non sempre lineare della responsabilità di tutelare i minori, si apre una questione che investe il ruolo educativo degli adulti in bilico tra controllo e autonomia, ansie e paure verso uno spazio fisico esterno che si percepisce sempre più minaccioso e uno interno, virtuale protetto dalle pareti di casa di cui si ignorano spesso rischi e pericoli. Da questo punto di vista la sicurezza, quindi, rientra pienamente in percorsi di educazione alla cittadinanza, anche digitale, proprio perché è un diritto che vive su due piani: quello reale di spazi e territori ben definiti e quello virtuale dai confini labili e senza controllo.

Eppure oggi questo tema è fortemente sbandierato e accattivante: presuppone la necessità di un controllo e allo stesso tempo attiva il bisogno e la richiesta di protezione, quindi può essere un collettore di consenso straordinario se associato a rischi e pericoli per l’individuo e per la comunità. Su questo terreno il confine tra realtà e percezione, oltre che sempre più sottile, rappresenta la misura attraverso la quale si gioca la partita della rinuncia graduale a spazi di libertà in nome di quella “mancanza di preoccupazione” che è e rimane un diritto pienamente contemplato nel concetto di cittadinanza, ma che così rischia di diventare il suo contrario cioè di fonte ansie individuali e collettive. 

La sicurezza “dentro e fuori”

Se da uno spazio fisico qual è l’edificio scolastico ci spostiamo a quello relazionale ed emotivo, a partire dal ruolo genitoriale non si può negare che le ansie degli adulti siano aumentate e con particolare riferimento ai presunti pericoli degli spazi esterni che si percepiscono sempre minacciosi. Senza cadere in luoghi comuni che rispolverano nostalgie di precedenti generazioni, quelle su un’infanzia e adolescenza in presenza e in spazi reali, la rivoluzione tecnologica ancora in atto ripropone chiavi di lettura del concetto di sicurezza da punti di vista nuovi. Basti pensare all’uso del cellulare per controllare i movimenti dei propri figli. La paura che possa accadere qualcosa fuori casa, l’antico timore del perdersi nel bosco che dalle fiabe tradizionali in poi esorcizza e cerca di prevenire il rischio di incontrare “lupi” e mostri di vario genere. Attraverso il cellulare si può controllare la sicurezza nello spazio fisico, il quartiere, il territorio che il minore esplora per la prima volta da solo. Dietro, invece, i bisogni dei figli sono altri: appartenenza, stima, solo per rimanere all’interno della Piramide di Maslow2, la sicurezza, invece, non sembra affatto una priorità per questa fascia di età anche se nella gerarchia dei bisogni viene prima della socialità e della conoscenza e valorizzazione di sé. In questa veste di bisogno di base è contemplata la stabilità dell’ambiente sociale che per dei minorenni significa tutta la comunità educante e non solo la famiglia.

In realtà avere per la prima volta un cellulare è una sorta di rito iniziatico che fa sentire parte di un gruppo come accaduto nelle generazioni precedenti: un passaggio graduale verso quel mondo adulto che, tuttavia, oggi passa da una forma di controllo a distanza. Uno strumento che segna un salto verso una fase di crescente autonomia è caratterizzato dal bisogno di sicurezza da parte dell’adulto mentre per il minore il bisogno è quasi opposto: appartenenza e graduale ingresso nel gruppo dei pari, non più solo quelli del muretto o della scuola calcio, ma un’infinita rete di contatti di cui ne conosceranno in presenza forse una minima percentuale. L’euforia della novità è dettata invece dalla possibilità di accedere ad un mondo virtuale e social che, nonostante filtri e divieti, sfugge al controllo dell’adulto ed è in teoria solo per adulti. L’adulto può controllare dove si trova il proprio figlio nella realtà dello spazio esterno, fa molta fatica a controllare cosa fa e soprattutto come sta nello spazio virtuale di cui ignora spesso rischi e pericoli che sono reali quanto quelli della “strada”. Dal cyberbullismo, all’isolamento fino alle challenges e ora più recentemente a chatbot dell’Intelligenza Artificiale, la strada è lunga e rientra in un concetto di sicurezza in cui “il nemico” non è visibile, identificabile e quindi fortemente pervasivo e difficile da individuare. La paura non è legata all’invasione di un territorio fisico, ma di un mondo emotivo di cui si conosce poco e che richiederebbe percorsi di educazione all’affettività da fare non solo con gli alunni, ma anche con i genitori. Uno degli aspetti più pericolosi di questo “perdersi” nel virtuale come in un bosco degno delle più tradizionali fiabe, pieno di lusinghe e insidie, sono proprio le forme di gratificazione emotiva, riconoscimento, socialità che i minori possono incontrare e che, in alcuni casi generano dipendenza, perché passano oltre l’esperienza del fallimento, della frustrazione in cui invece possono incappare nella realtà di una relazione vera. È una percezione di sicurezza che si sostituisce a quella affettivo-relazionale spesso assente o complessa nei contesti familiari, senza giudizio e che si adatta gradualmente ai bisogni dell’adolescente e li soddisfa sul piano linguistico come forma di ascolto vero, ma su una dimensione esclusivamente artificiale in cui non mancano anonimato, accessibilità e risposte immediate. Una percezione di sicurezza che in realtà ha dei rischi e verso la quale noi adulti non siamo preparati3.  

È più facile per l’adulto cercare un responsabile specifico e individualizzabile in uno spazio reale a cui si risponde con la paura, la chiusura e quindi con il controllo, è molto più difficile con una rete che metta in contatto e unisce, ma può chiudere al mondo esterno e nei casi peggiori fare precipitare in tunnel bui da cui non si torna indietro. 

Dalla percezione di insicurezza dello spazio fisico, la strada, il quartiere, fuori dai cancelli e dai confini dei luoghi di aggregazione all’assenza di confini e limiti del virtuale. Un brusco passaggio che non si può risolvere solo con un proibizionismo vuoto, per altro già esistente da anni nelle circolari ministeriali, come si sta affermando attualmente nella scuola in nome di un rigore che toglie, ma non educa. Anche perché i processi di digitalizzazione, di uso dei dispositivi elettronici sono ormai in atto e continueranno a proseguire fuori dalle aule scolastiche: è necessario, quindi, attivare urgentemente percorsi di cittadinanza digitale integrati con un’educazione alla relazione che sempre più a fatica trovano spazio nel complesso e iperburocratizzato sistema di istruzione.

D. Novara più volte parla di bisogno dei bambini e dei ragazzi di tornare “all’aria aperta”, soprattutto dopo la pandemia4, il loro bisogno di muoversi è ancora oggi molto forte tra divertimento e competizione e dalla pratica pedagogica dell’outdoor in poi la tendenza è proprio quella di restituire ai più piccoli e ai giovani il diritto a vivere la propria età a partire dal corpo e dal movimento.

Se quindi quel sine cura, mancanza di preoccupazione, ansia, è l’obiettivo da realizzare del diritto alla sicurezza, soprattutto in un contesto democratico, l’aspetto educativo rispetto alla distinzione di un pericolo reale rispetto ad uno percepito diventa una pratica di educazione alla cittadinanza e di apprendimento della relazione oggi indispensabili. In tal senso sembra l’esatto contrario dell’attuale connotazione del concetto di sicurezza che è una fucina di vecchie e nuove paure, almeno negli adulti.

Sentirsi sicuri nell’ottica educativa significa anche prevenire il rischio di trasformare la sensazione di insicurezza in una paura indotta verso ciò che non è uguale a noi, che rientra nel limes del nostro territorio e dall’essere semplicemente diverso diventa estraneo. Un passaggio questo non da poco da cui passa il sottile confine tra integrazione e tolleranza e che oggi è di estrema attualità. Da questo punto stretto passa anche l’equilibrio non facile tra bisogno di sicurezza e di appartenenza e riconoscimento dell’universalità dei diritti mantenendo il proprio legame con il territorio, le origini, l’identità.  Una comunità che include chi è diverso, non più estraneo, previene e non basa sulla paura le proprie regole di convivenza, delegando alle istituzioni la gestione della sicurezza in caso di reale pericolo, ma sempre in un contesto di rispetto dei diritti. È proprio il concetto di universalità che viene meno se passa invece la concezione, molto pericolosa a mio parere, di un diritto che coincide con l’appartenenza al territorio, alle origini e ad un’identità specifica. Da qui passa anche l’idea che se c’è una gerarchia in cui prima tocca a chi è autoctono, gli “altri” non solo non possano accedere a questi diritti, ma che se gli vengono riconosciuti sono un pericolo, tolgono a chi “è arrivato prima”.

Io vengo da… 

«Io penso che essere estranei può voler dire anche non provare nulla nei confronti della realtà che ci circonda. Essere stranieri è un fatto. Essere estranei è un sentimento, una scelta. E io, certe volte, non riesco a capire bene quanto questo mio sentirmi estranea sia una scelta mia, e quanto una scelta di chi mi chiama “quella del Nord” o “quella del Sud».
(Diamante, figlia di giostrai, da Io vengo da…)5.

Per i preadolescenti ancora in fase di costruzione di un’identità individuale, in bilico tra trasgressione, riconoscimento, identificazione nel gruppo, la diversità difficilmente si identifica con la percezione di una minaccia esterna da parte di etnie diverse. Tale percezione è più il frutto del contesto familiare o appresa dai social che di reali relazioni tra pari. È una faccenda che riguarda gli adulti e che viene recepita o meno nei contesti familiari di appartenenza e non vissuta in prima persona dal bambino come dall’adolescente.

In termini più semplici, tra i ragazzi e le ragazze le situazioni conflittuali difficilmente hanno uno sfondo razziale, ma più semplicemente relazionale e di appartenenza al gruppo. E allora come sviluppare con loro una concezione della sicurezza che sia democratica e cioè contenga la consapevolezza di avere diritti universali anche se siamo diversi e che lo straniero non è “essere estraneo”, una condizione “altra” da noi, ma anch’essa universale che ci può appartenere ogni volta che lasciamo il nostro Paese?

Nei tanti e interessanti percorsi interculturali che si fanno nelle scuole, a volte calibrando la necessità di un progetto in base al numero di alunni stranieri e puntando spesso solo sull’ alfabetizzazione, il binomio scuola di periferia/integrazione lascia sempre l’equivoco e la percezione che l’intercultura sia in fondo un’esigenza di realtà di confine, ai margini, in una dimensione emergenziale che inconsapevolmente associa la presenza dell’alunno straniero ad una possibile emarginazione spesso terreno fertile di dispersione scolastica e deviazione. L’intercultura invece è una dimensione non solo profondamente educativa, ma con una forte valenza preventiva soprattutto in contesti in cui la presenza di alunni stranieri è meno evidente e cioè ormai in una minoranza di Istituti scolatici. È un percorso che dà strumenti per comprendere non solo la realtà attuale, ma anche le epoche passate in cui il fenomeno migratorio o interetnico c’è sempre stato con luci e ombre. 

Nelle scuole di un passato non troppo lontano, la provenienza dell’alunno si riferiva alla professione paterna: “Che lavoro fa tuo padre?” retaggio di una scuola che classificava in base al censo e alla presenza o meno di un padre. Oggi la domanda più frequente è “Da dove vieni?”, domanda breve quanto complessa in un’epoca in cui l’appartenenza ad un territorio, l’identità locale, la tradizione, la patria sono concetti che dividono e che da una parte segnano un’appartenenza e dall’altra separano da chi è “fuori”, viene da lontano e non è solo straniero, una condizione comune a tutti, ma diventa estraneo e quindi potenzialmente “pericoloso” per la sicurezza. 

D. Aristarco, autore del testo Io vengo da… corale di voci straniere, con questa domanda rompe il ghiaccio di una classe in cui metà degli alunni sono stranieri arrivati da poco in Italia, con ancora, quindi, tutte le barriere interne ed esterne della situazione. È il caso di dire che almeno il riferimento ai “fatti” non è puramente casuale perché sono storie vere, mentre quello alle persone rimane quasi “casuale” perché si tratta di minori. Eppure di casuale c’è poco in queste storie verissime che non sempre raccontano un viaggio tragico per mare, a volte si tratta solo di un diritto a spostarsi dalla propria terra che facciamo fatica a riconoscere agli altri, come lo riconosciamo a noi stessi occidentali. Il libro inizia proprio col tema del viaggio e il lungo elenco delle sue motivazioni: perché sentiamo il bisogno di viaggiare? Lo riconosciamo a tutti questo bisogno senza incorrere in minacce di invasione e quindi alla sicurezza di chi “sta dentro” e viene da “fuori” extra appunto estraneo e non solo straniero? E stranieri non lo diventiamo tutti quando intraprendiamo un viaggio fuori dai confini nazionali?

Abbiamo proposto il testo in un percorso di lettura animata nelle classi seconde di una scuola secondaria di I grado di un Istituto di Roma: poco meno della metà degli alunni di origine straniera, ma nati in Italia. Ogni capitolo è una storia diversa di migrazione si passa dal viaggio sul barcone, al viaggio a seguito della famiglia per lavoro, fino al viaggio che non finisce mai di una famiglia di giostrai. Su tutte queste voci diverse, a parte le iniziali difficoltà linguistiche, le ansie, le paure di essere percepiti come “estranei” cioè come coloro che vengono da fuori e minacciano l’equilibrio di quello che è dentro prendendo quello che spetta prima a chi vive dentro e poi forse, se rimane qualcosa, a chi è fuori. Diritti di serie A e diritti di serie B. A scuola diventa tutto diverso perché questo “limes” salta e dentro ci sono tutti e allora si può cominciare a chiedere “Da dove vieni?” non in modo minaccioso per etichettare, ma al contrario per includere con interesse per la tua storia e per il tuo viaggio perché forse ascoltandoti trovo qualche punto in comune con la mia storia.

E se rivolgessimo a noi la stessa domanda? Le risposte che abbiamo avuto dagli alunni e dalle alunne aprono scenari inaspettati e molto interessanti: dallo stesso quartiere della scuola fino a un altro continente, scoprire le radici e la dimensione del viaggio ci rende tutti un po’ stranieri. “Pensavo di essere solo romano, ma mio nonno viene dall’Abruzzo”, “Sono nata a Dubai, ma da genitori italiani”. “Ho scoperto che mio nonno è nato in Africa, ma è italiano”. Forse una delle risposte più belle è stata: “Vengo da casa mia, ho già fatto tre traslochi in tre città diverse, ma c’è sempre stata la mia famiglia con me”. Le radici in un gruppo familiare più che in un luogo. 

«Eppure oggi molti dichiarano di voler difendere i confini, come se fossero le mura di casa propria. Questa immagine, oltre a generare una sensazione illusoria, potrebbe rivelarsi molto pericolosa. Se recingi un pezzo di terra e ti chiudi nel recinto, ne diventi il primo prigioniero. Da allora in poi il tuo unico scopo sarà custodirlo, senza poterne più allontanare (…). Resterai lì sul confine con lo sguardo portato all’orizzonte pronto a difendere il tuo pezzo di terra dagli “invasori”6». 

“Da dove vieni?” rimane quindi una domanda cruciale che se posta agli alunni e alle alunne, indipendentemente dalla loro etnia, provenienza, apre spazi inconsueti di narrazione di un vissuto in cui il concetto di “radici”, “patria”, assume connotazioni nuove. Dopo avere ascoltato il coro polifonico dei racconti del libro, ogni singolo alunno (più di un centinaio) ha riscoperto la dimensione del “viaggio”, dell’incrocio di territori e culture diverse, della difficoltà di riconoscersi con una sola identità e la scoperta di condividere con altri ragazzi e ragazze la dimensione di “straniero” perché figlio o nipote di emigranti, di coppie miste, di altre culture, di chi è nato all’estero ma era italiano. Questo “essere stranieri” senza essere estranei può forse modificare una percezione di sicurezza messa in discussione dai fenomeni migratori e ricollocarla nel contesto di un diritto che va riconosciuto a tutti e a cui ci si educa senza stereotipi e pregiudizi. 

Pensiamo a tutto noi

La società perfetta e senza pericoli di The Giver, non vede i colori, prevale il grigio e le sue tonalità, così tutti sembrano uguali, non ha ricordi quindi non ha memoria perché questi vengono affidati ad un’unica figura di Donatore che proprio per questo è una sorta di consulente per la Commissione. Non teme opposizioni né ha bisogno di minacce o di eliminare nemici pericolosi per il sistema perché non ce n’è più bisogno. Il senso comune, l’abitudine ed un lessico funzionale e privo di sfumature, soprattutto affettive, di orwelliana memoria, hanno fatto il resto. Non ci sono alternative, l’equilibrio funziona e questo basta. Il resto sta in un Altrove di cui si ignora la collocazione, che non è più una minaccia e per il quale non si prova neanche curiosità e desiderio. La cultura è un prontuario di buone maniere per assolvere al ruolo che la comunità ha assegnato. Non sanno da dove vengono perché è tutto dentro il proprio territorio, legittimo e omogeneo. 

L’orrore nascosto ha la veste educata ed efficiente, mansueta a tratti, di funzionari carnefici e vittime del sistema. 

L’inquietudine che ha lasciato ad alunni e alunne di una terza a un passo dall’adolescenza come dalla prima grande scelta sul loro futuro è anche la nostra di adulti: la sensazione che in nome di un concetto assoluto di sicurezza, separato da un contesto democratico di diritti, si possa rinunciare anche alla propria umanità e un giorno forse ci accorgeremo che sui nostri sguardi è calato un velo grigio omogeneo che ci “protegge” dall’infinita e variegata bellezza dei colori. 

NOTE

  1. L. Lowry, The Giver, 1993, Giunti
  2. A. Maslow, A theory of Human motivation, in “Psychological Rewiew”, 1943
  3. K. Zunica, Una chabot per amica, 12/02/2025, in www.erickson.it
  4. D. Novara, I bambini sono sempre gli ultimi. Come le istituzioni si stanno dimenticando del nostro futuro, 2020, BUR Rizzoli
  5. D. Aristarco, Io vengo da… corale di voci straniere, p.120, 2020, Einaudi Ragazzi
  6. D. Aristarco, op. cit., p.124


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