Jean Fallot, “Sfruttamento, inquinamento, guerra”

Autore

Alessandro Picone
nato ad Avellino 25 anni fa, ha conseguito la laurea magistrale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Torino discutendo una tesi in Filosofia della Storia su "Ivan Illich. Un pensatore ai limiti" con relatore Enrico Donaggio. In precedenza aveva conseguito la laurea triennale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Firenze con una tesi in Filosofia Teoretica su "L'insondabile profondità: la questione dell'identità personale tra Locke e Leibniz", relatrice Roberta Lanfredini.

QUESTO PEZZO È STATO SCRITTO A MARZO 2025

Ancora febbricitante dopo la settimana al convegno internazionale “Marx in the Anthropocene”, ho appena ricevuto la nuova edizione del testo di Jean Fallot, di cui ho curato l’introduzione con Giovanni Ormesi per Science for the People Italia. Un’introduzione scritta mesi fa, mentre le università di tutto il mondo erano attraversate dalle proteste in solidarietà con la Palestina e le richieste di boicottaggio accademico.

In quel contesto, la sola risposta istituzionale, oltre la repressione, è stata (e continua a essere) il ricorso compulsivo alla retorica della “autonomia della ricerca”e della “neutralità della scienza”. Un paradosso tossico che nasconde a malapena la sua funzione di paravento ideologico per legittimare precise scelte economiche e politiche – come le partnership con l’industria bellica e le multinazionali del fossile. Come scriveva Fallot in “Marx e la questione delle macchine” (anch’esso ripubblicato di recente da Orthotes nella collana Ecologia Politica, con un’introduzione di Gianmarco Gimmi Peterlongo): «Si parla di “scienza pura” per nascondere ciò a cui essa mira e di cui si preferisce non parlare troppo».

In “Sfruttamento, inquinamento, guerra”, Fallot smonta l’illusione di una scienza autonoma e neutrale, mostrando come essa sia profondamente plasmata dalle logiche del capitale, integrata in un processo di accumulazione che trasforma la natura in risorsa, la tecnica in forza di dominio, e il lavoro scientifico in ingranaggio dell’estrazione di valore. Analizzando il modo in cui le tecniche sono sussunte dal capitale, sostiene che, per superare la torsione alienante ed ecocida della produzione capitalistica, si debba strappare il lavoro scientifico dalla sua iscrizione nel movimento del capitale, che ne orienta le traiettorie attraverso finanziamenti selettivi finalizzati all’accumulo di plusvalore e alla riproduzione del sistema. La critica eco-marxista emerge qui – anche – come denuncia del connubio distruttivo tra scienza e complesso militare-industriale capitalista, e come appello a un movimento che reindirizzi radicalmente la scienza verso l’emancipazione collettiva, liberandola dalla logica dello sfruttamento.

Si capisce come, a cinquant’anni di distanza dalla sua prima edizione e in un momento storico cruciale, questo testo riemerga con una forza e un’urgenza che non hanno nulla della curiosità antiquaria. Mentre Gaza continua a bruciare sotto il fuoco del genocidio da parte dell’esercito israeliano appoggiato dall’Occidente, il “Doomsday Clock” del Bulletin of the Atomic Scientists segna un pericolo nucleare senza precedenti. Guerre per il controllo delle risorse minerarie infiammano l’Africa, come in Sudan o nella Repubblica Democratica del Congo, mentre l’Europa, archiviata la retorica “green”, imbocca la via del più grande riarmo del continente dalla Seconda guerra mondiale.

In questo scenario, le analisi di Fallot sull’intreccio organico tra apparato scientifico, militare e industriale e sul suo ruolo nell’alimentare le “tre teste del capitale” – appunto lo sfruttamento, l’inquinamento e la guerra – diventano mappa tattica per orientarsi in questa spirale di devastazione, in cui i saperi scientifici diventano nodi nevralgici di una rete che lega università, industria bellica e interessi capitalistici. Una geometria della complicità di cui la lotta palestinese è stata epicentro rivelatore, illuminando i fili che legano i droni israeliani ai nostri dipartimenti di ingegneria, i fondi fossili ai nostri brevetti, le ricerche storiografiche in armi ideologiche. Qualche tempo fa la Inter-University Coalition on Palestine scriveva che, se ogni bomba che cade su Gaza è una brutale lezione di economia politica, la liberazione palestinese è «la grammatica della nostra libertà collettiva». In questo senso, la Palestina non è analogia ma cartina di tornasole, specchio che rivela il legame tra colonialismo, sfruttamento e inquinamento come facce dello stesso sistema.

In queste trame della complicità, il definanziamento delle università non è taglio neutro o lineare, ma chirurgico: sottraendo risorse pubbliche apre un varco a fondi inquinati e sporchi di sangue, consegnandole a un ricatto che le trasforma in avamposti del capitale predatorio.
Gli eventi recenti della Columbia University e dell’EPA negli Stati Uniti sono lì a dimostrarlo: sotto la minaccia della revoca dei fondi federali, l’amministrazione della Columbia ha imposto restrizioni draconiane all’attivismo e aumentato il controllo politico sui dipartimenti dedicati agli studi palestinesi e mediorientali, mentre l’EPA ha smantellato il proprio Ufficio di Ricerca e Sviluppo, rimuovendo ogni ostacolo scientifico agli interessi consolidati del potere politico ed economico. La lezione è chiara: conformarsi o perdere finanziamenti. Ennesima dimostrazione di come la ricerca scientifica si dispieghi lungo traiettorie dettate dall’accumulazione capitalistica, di come il sistema di finanziamento selettivo orienti il progresso tecnico e scientifico, indirizzandolo verso ciò che è funzionale al capitale e silenziando il dissenso.

In Italia, la Riforma Bernini e il DDL Sicurezza consolidano questa tendenza: l’università pubblica, prosciugata di fondi, è lasciata in pasto agli interessi privati, ridotta a snodo operativo per contratti militari e sponsorizzazioni di colossi come Eni e Leonardo. I grant si fanno monete macchiate di sangue, i laboratori officine belliche, i dipartimenti terminali dell’intelligence. La precarietà, in questo assetto, non è solo condizione esistenziale ma dispositivo di governo, che trasforma la ricerca in mercenariato al servizio della devastazione. Il definanziamento non è austerity ma progetto politico, che opera attraverso tagli mirati per aprire spazi a fondi contaminati, trasformando a ogni precario e precaria in un potenziale ingranaggio della ricerca militarizzata.

La nuova edizione di questo testo assume un valore non solo teorico ma potentemente politico. Fallot ci ricorda che criticare un sapere che sa di polvere da sparo non vuol dire rimpiangere la polvere del mausoleo asettico della torre d’avorio, né inseguire qualche purezza accademica. Non si tratta di sottrarre il sapere al mondo, rifugiandosi in un idealismo disincarnato e riducendosi a scegliere tra il tanfo della guerra e il lezzo del disimpegno: si tratta piuttosto di scegliere tra due complicità radicalmente opposte e di reimmaginare un sapere che sappia sporcarsi le mani nelle lotte, liberandolo dalle incrostazioni tossiche del potere e sottraendolo al capitale per farne strumento di emancipazione. La scienza può diventare altro solo smarcandosi dall’asservimento agli interessi capitalistici, solo se inscritta in un progetto politico alternativo, alimentato dai bisogni e dalle lotte delle classi sfruttate. Non più strumento di sfruttamento, inquinamento e guerra, ma forza viva al servizio di una relazione non predatoria con la natura.

Prima ancora che nella validità teorica delle sue analisi, l’attualità di questo testo si misura nella sua capacità di trovare eco nelle parole d’ordine che attraversano le mobilitazioni per la Palestina, nelle proteste di chi continua a battersi per il boicottaggio, negli appelli degli “Scienziati contro il riarmo”, nelle mobilitazioni delle Assemblee Precarie contro “tagli, guerra e precarietà”. La sua attualità si fa corpo vivo nei tentativi di praticare diverse relazioni di conoscenza e lotta, come quello dell’esperienza del Collettivo di Fabbrica ex GKN che ha portato all’elaborazione del Piano degli Stati Generali della Giustizia Climatica e Globale, ad oggi l’unica proposta concreta e desiderabile per una transizione ecologica dal basso.
Un Piano che nasce dalla reciproca contaminazione tra saperi operai e saperi accademici, che, oltre a mostrare concretamente la possibilità di una transizione ecologica dal basso, palesa l’abisso che separa il sapere armato dal sapere incarnato. È questa la cifra della “scienza nuova” per come l’immaginava Fallot: una scienza che porti in sé le pratiche in cui si radica, insieme alle speranze, ai desideri e alla rabbia che le attraversano. Una scienza che si ponga, nelle parole di Fallot, «a livello degli interessi degli sfruttati, utile alla loro lotta e, in ultimo, sua espressione».
Perché la conoscenza o è resistenza o è complicità. E, come scriveva Paul Nizan: «Non rimane più alcuno spazio per l’imparzialità dei chierici. C’è solo più spazio per battaglie di partigiani […]. Più nessuno da ingannare. Più nessuno da sedurre. Soltanto colpi da ricevere e colpi da dare».

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