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Appunti sul destino del lavoro a partire dalla crisi COVID-19 (discussione con Rosario Iaccarino)

Autore

Fabio Sdogati
Fabio Sdogati è Professore di Economia Internazionale presso il Mip, la Business School del Politecnico di Milano. Ha conseguito la laurea in Scienze politiche (Roma 1974), il Master of Science (1983) e il Ph. D. (Economics, 1986) presso la University of Wisconsin-Madison. Ha insegnato negli Stati uniti, ed è stato Jean Monnet post-doctoral Fellow presso l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole. È rientrato in Italia nel 1990 come ricercatore presso il Politecnico di Milano; è stato quindi Professore Associato di Economia Monetaria e Creditizia presso l’Università di Parma, ed è tornato al Politecnico nel 1996. Tra i temi della sua ricerca vi sono le determinanti della competitività internazionale delle imprese, gli effetti della frammentazione internazionale dei processi produttivi, le determinanti del ruolo di valuta di riserva. Studia l’evolvere della stagnazione presente dal suo inizio, nell’estate 2007. Le sue attività di ricerca hanno ricevuto il supporto della Commissione europea, della Miles Foundation, dell’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, del Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica, del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Premessa

Quel che intendo per “destino del lavoro” è tutt’altro da ciò che l’espressione indica nelle discussioni correnti, le quali sono interamente centrate sul tema del rapporto tra lavoro umano e tecnologie, telelavoro e sistemi di controllo a distanza della produttività del lavoro impiegatizio, e recentemente anche sulla nuova configurazione delle città che il lavoro post-Covid-19 richiederebbe. Per me il “destino del lavoro” è da intendersi come il destino di chi lavora, cioè la posizione che a tendere chi lavora andrà ad occupare nel sistema di divisione sociale del lavoro: si potrebbe dire che sono interessato alla macroeconomia del lavoro, a quali grandi movimenti sociali sarà soggetta la configurazione delle società ad alto reddito pro capite.  

Il mio interesse principale è, quindi, la configurazione dell’occupazione e sui mutamenti prossimi generati dalla crisi pandemica. Che cosa sarebbe avvenuto nel caso non vi fosse stata pandemia non mi interessa: il mondo è come sarà, non come avrebbe potuto essere. A voler porre il problema in termini più quotidiani, potrei chiedere: oggi il tasso di disoccupazione in Italia è grossomodo del 10%: quanto sarà se e quando la crisi sanitaria sarà messa sotto controllo? Previsioni sull’occupazione, la sua consistenza e la sua composizione non esistono, e non solo da noi: troppo complessa la previsione, troppo politico l’argomento.  

Quel che segue è il primo tentativo di produrre ‘previsioni’ desunte da una elaborazione teorica piuttosto che dalla estrapolazione di dati tratti dal passato: sostengo infatti che, non essendoci continuità tra passato (pre Covid-19) e futuro (post Covid-19) l’estrapolazione basata, ad esempio, su modelli di regressione lineare, è totalmente fuori luogo. La “previsione” sarà dunque il frutto di un ragionamento, o modello teorico.  

  1. Il modello teorico di riferimento 

Il nostro modello interpretativo rimane quello che siamo venuti sviluppando fin da febbraio 2020. I suoi elementi costitutivi sono: 

1.1 Le fasi iniziali dell’epidemia hanno avuto un effetto marcato sulle imprese, mettendo in difficoltà i processi produttivi locali e globali. Abbiamo chiamato queste difficoltà “shock da offerta” e ne abbiamo colto la gravità. Tuttavia, abbiamo detto subito che lo shock che avrebbe caratterizzato il lungo periodo sarebbe stato però quello da domanda; 

1.2 Lo shock da offerta non sarebbe stato destinato a durare nella sua forma violenta delle prime settimane, abbiamo detto: le imprese, le infrastrutture pubbliche e private, i mezzi di comunicazione non avrebbero subito danni permanenti e costosi, così che rifiutammo l’assimilazione degli effetti del Covid-19 a quelli di una guerra; 

1.3 Insistemmo invece che la pandemia avrebbe indotto cadute di occupazione e di reddito gravissime, e che la domanda di merci e servizi sarebbe a sua volta caduta in maniera importante. Ma, soprattutto, abbiamo insistito in questi mesi sul fatto che il pericolo di infezione è un deterrente per i consumi, e che la priorità è quella sanitaria, non quella produttiva che non avvenga in sicurezza sanitaria; 

1.4 Questo è esattamente quanto è avvenuto e sta avvenendo. I governi di tutto il mondo ci hanno dato ragione nel momento e nella misura in cui hanno adottato misure eccezionali di supporto ai redditi delle famiglie, al contempo offrendo alle banche la garanzia pubblica per linee di credito estese alle imprese; 

1.5 Le posizioni, ignoranti e autolesioniste, che in Italia chiedono la fine della cassa integrazione e lo sblocco immediato dei licenziamenti sono in aperto contrasto con le misure adottate ad esempio dai governi francese e tedesco, coerenti con le raccomandazioni implicite presenti nella nostra analisi, e con quelle dell’Unione europea. 

  1. Il quadro mondiale della pandemia 

È necessario fare riferimento a questo tema perché permanenza, diffusione, localizzazione geografica avranno un ovvio impatto sulla crescita di ciascun paese a seconda della sua posizione nella catena della pandemia, ma anche sul valore dei flussi di scambio internazionale tra quei paesi. Ad esempio, la situazione brasiliana potrebbe preludere ad un aumento importante del prezzo della soia e del legname. 

Il quadro mondiale della pandemia presenta le seguenti caratteristiche: 

2.1 Il numero dei casi di infezione continua ad aumentare; 

2.2 Infettivologi ed epidemiologi ritengono che non sia da escludere una seconda ondata pandemica. Alcuni ritengono che in effetti tale seconda ondata sia già cominciata; altri prevedono un picco nel bimestre dicembre-gennaio; tutti sono allarmati dall’evoluzione dell’epidemia sia in paesi ad alto reddito pro-capite come Spagna, Francia e Regno Unito, che in paesi ad economia emergente o in via di sviluppo come Perù, India e Brasile; 

2.3 I punti di crisi sembrano in certi momenti essere in fase di ‘spostamento’ dai paesi a reddito pro capite alto a paesi a reddito pro capite medio-basso e basso, e i punti di crisi più pericolosi sembrano essere India e Brasile: seconda ondata arrivata e in espansione, spostamento della gravità relativa da paesi ad alto reddito pro capite a paesi a reddito pro capite basso e molto basso. Ma poi la crisi riemerge pesantemente in paesi ad alto reddito pro capite, e parlare di ‘spostamento dell’attenzione sembra un esercizio vacuo: la crisi sanitaria è pandemica ma seguire la dinamica della distribuzione geografica dei punti di crisi è importante perché le imprese subiranno impatti diversi a secondo delle catene globali di produzione a cui appartengono. 

  1. Il quadro italiano della dinamica del pil aggregato 

Previsioni circa l’andamento del prodotto interno lordo per il biennio 2020-2021 sono state prodotte e pubblicate dal Fondo Monetario Internazionale il 14 aprile e il 24 giugno 2020.  

Alla fine di settembre le previsioni convergono verso un tasso di crescita del pil italiano negativo nel 2020 e dell’ordine  del 10-14% rispetto al 2019, con una ripresa dell’ordine del 6% circa nel 2021: numeri brutti assai, i quali ci mettono in guardia da coloro che vanno cianciando di “ripresa”.  

Non deve sorprendere  che queste previsioni, orrende, siano in netto contrasto con le misure correnti del tasso di disoccupazione, il quale si muove in un intervallo ristretto tra il 9% e il 10%. Ciò è dovuto al fatto che i lavoratori dipendenti in Cassa Integrazione vengono considerati occupati (uno degli obiettivi dell’istituto della CIG, così come del Fondo Integrazione salari (FIS), è proprio mantenere in vita il rapporto tra dipendente e azienda anche quando l’attività produttiva è ferma). Se lo sblocco dei licenziamenti avverrà effettivamente dal 2021 e l’estensione per le domande CIG scadrà entro fino anno, allora si assisterà in tutta probabilità ad un forte aumento della disoccupazione a partire dall’inizio del 2021. Non è un caso che, come si diceva sopra, il governo tedesco sia orientato ad una conferma del regime speciale di sostegno alle famiglie e alle imprese per tutto il 2021 e, forse, per il 2022. 

  1. La reazione delle imprese 

Si prescinda per il momento dagli effetti che eventuali incentivi pubblici possano avere sulle scelte delle imprese per uscire dalla crisi. Ciò che si è detto sopra circa la persistenza della pandemia implica che la digitalizzazione dei processi produttivi e distributivi è una via obbligata per tutte le imprese. 

A questo proposito è utile porre il problema in questo modo: le imprese vorranno ‘trasformare’ le proprie attività produttive nel senso di aumentare la distanza tra i produttori e tra questi e clienti. Ciò che caratterizza il nostro modello è l’interazione tra shocks sanitario, economico da domanda ed economico da offerta. La natura dello shock sanitario è tale che le attività produttive di valore aggiunto che richiedono prossimità sono tra le più colpite. Ne consegue che l’occupazione di gruppi produttivi diversi è stata, e continua ad essere, colpita in modi diversi. Il grafico sottostante, relativo agli Stati uniti, mostra come intensità e tempi di rientro dallo shock sono direttamente proporzionali al salario degli occupati dipendenti. Si può dedurre da ciò che la ripresa dei consumi sarà più significativa e più rapida per le categorie merceologiche ‘preferite’ dai consumatori a reddito relativamente più alto (nella classe dei salariati). 

Ne deduciamo che i lavoratori più colpiti sono stati, sono e saranno quelli a salario più basso, probabilmente a rischio di entrare in quell’insieme che chiamiamo working poors, lavoratori con contratti a tempo determinato, sempre più spesso occupati in lavori multipli e saltuari, a basso valore aggiunto e conseguente bassa o bassissima remunerazione: il trionfo della gig economy, spesso strombazzata come economia della condivisione ma che non condivide proprio nulla. [Sarà bene sottolineare che no stiamo parlando di consegne di panini a domicilio o, come dicono quelli che sanno le lingue, di riders: stiamo parlando di quella parte di lavoratori già a tempo pieno, sindacalmente rappresentati, strutturalmente inseriti in attività produttive stabili e strutturate, ora espulsi dal processo produttivo e trasformati di necessità in lavoratori precari nel senso più duro che possiamo immaginare.]  

  1.  di conclusione 

Le prime e più importanti conclusioni che possiamo trarre da questa breve analisi introduttiva sono che: 

  1. la pandemia sta producendo, e continuerà a produrre a lungo, una trasformazione strutturale, definitiva, della composizione della classe dei lavoratori: caduta del numero di lavoratori a tempo pieno, socialmente protetti e sindacalmente rappresentati; 
  1.  i lavoratori espulsi dal processo produttivo lo saranno non perché le imprese vorranno, come han fatto negli ultimi trent’anni, “ridurre i costi”. Il criterio operativo sarà d’ora in avanti quello del distanziamento. L’occupazione verrà colpita maggiormente nei segmenti di processo produttivo, e nelle imprese, in cui il rispetto del distanziamento è difficile, e il progresso tecnico dovrà necessariamente sopperire al vecchio modo di lavorare. Un esempio? Robots che assumono alcune funzioni svolte dal personale di supporto nelle strutture sanitarie; 
  1. I lavoratori espulsi dal processo produttivo finiranno necessariamente ad alimentare quel segmento dell’offerta di lavoro che prelude all’ingresso nell’area della povertà. 

Serve, quindi, urgentemente, immaginare come affrontare questi scenari. 

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