La parola “precarietà” andrebbe iscritta nella lista delle “parole di plastica” (U. Porksen) o delle “parole-ameba” (I. Illich) quelle che nel linguaggio comune vedono appannarsi il loro significato denotativo per acquisire varie connotazioni. Nel lavoro, il termine “precarietà” ha coperto situazioni professionali diverse tra loro, oggettivando esperienze che, pur risentendo dei cambiamenti del lavoro ed esposte al rischio e allo sfruttamento, sono parzialmente omologabili in quanto percepite e vissute in maniera soggettiva. Chi non è stabile non sempre vive la nostalgia del lavoro subordinato di altre epoche ma come esplorazione verso l’approdo più aderente al proprio talento e senso del lavoro. Rappresentare la galassia dei lavori “atipici”, malgrado le loro criticità, come un tutto precario, genera anche trattamenti normativi “uguali tra disuguali”, che cristallizzano le disuguaglianze. L’aggettivo “precario” andrebbe rimosso dal nostro linguaggio, in quanto si avvera sempre più nell’immaginario collettivo, la sua etimologia: “ottenuto con preghiere, concesso per grazia”. Il lavoro, che è un dato originario che definisce l’esistenza del soggetto, si trasforma così da diritto in concessione.
Di precarietà si dovrebbe invece parlare in merito alla condizione umana oggi scossa dalla pandemia che ha prodotto angoscia, paura, dolore: un salto nell’ignoto che ha messo in crisi il sogno prometeico dell’uomo di conoscere e possedere il mondo grazie alle conquiste tecnologiche e scientifiche. Una tracotanza – la hybris, secondo gli antichi greci – pagata a caro prezzo per le conseguenze che ha sulla vivibilità del pianeta, che se hanno gettato l’umanità in uno stato d’angoscia, possono portarla alla consapevolezza che “l’esistente è fallito” (U. Morelli) e che “l’organismo che distrugge il proprio ambiente distrugge sé stesso” (G. Bateson). Non siamo immortali, ma se lo fossimo “avremmo ogni buona ragione per rimandare ogni nostro atto” (V. Frankl), anzi “proprio la presenza latente della morte fa le grandi esistenze (…) si può dire quindi che ciò che non muore non vive” (V. Jankélévitch), e che “il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio” (S. Freud), perciò “la vita è preziosa proprio perché precaria e per ben viverla è necessario prendersela in custodia, averne cura” (S. Natoli). Vivere è patire, ossia esplorare, fare esperienza, provare, è sentire con i sensi, con il corpo. Il movente è anti-logico, non cognitivo, ma emotivo-affettivo. L’ex-sistenza è infatti un divenire, un continuo invito a uscire da se stessi, segnato profondamente dalla differenza che irrompe, anche nella forma degli eventi inattesi, dall’intersoggettività che ci destabilizza, benchè ci costituisca e individui, dall’esperienza angosciante e “insensata” del vuoto: tutto rinvia alla precarietà come possibilità, al “nascere incessantemente” (J.L. Nancy), a una “antropologia patica”, come l’ha definita Aldo Masullo: “l’uomo dall’inizio in poi si presenta come insufficiente, incompiuto, bisognoso di completamento, drogato di cambiamento, indeterminato, difettoso o impotente, in ogni caso dunque non come essere, non eterno ma temporale; non come uno o qualcosa che ‘c’è’, ma come uno o qualcosa, che ‘diviene’, anzi vuole, ha facoltà, può, deve o è costretto a ‘divenire’.