Se il perdono non è nelle nostre corde dobbiamo sentirci cattivi esseri umani? Non è anche un sollievo, perdonare? Una nobile via d’uscita a un sentimento senza uscita? Chi scrive ammette di non aver mai compreso il significato profondo di questa parola. Pur non conoscendo l’arte del perdono non ho mai covato rancori abbrutenti e ossessivi perché consumavo immediatamente la mia rabbia emettendo una condanna. Non ho mai desiderato la morte dei miei (pochissimi) nemici perché per me erano già morti. Se a una persona sottraggo la mia stima non resta niente, se non l’errore di averla frequentata. Con il perdono invece non tornano i conti, e infatti spesso è il modo peggiore di risolvere i problemi. Lo vediamo nelle relazioni amorose di molte persone. “Solo un po’ di rancore li teneva insieme” cantava Francesco De Gregori. Il perdono è in realtà un conto sospeso, in fondo una sorta di vendetta. O se preferiamo una forma di ipocrisia. Soltanto gli Dei possono sostenere il peso del perdono. Detesto le persone dai facili rancori, quelli che vanno a litigare in tivù tre volte a settimana. Amici, non più amici; nemici, non più nemici. Così raccomandava il filosofo. Liberarsi dal peso del rancore è difficile. Sostituire l’odio con il disamore, la vendetta fisica con la disistima.Come è noto il nostro cervello è (quasi sempre) bravissimo a rimuovere le esperienze spiacevoli. Sappiamo ricordare, più o meno bene o più o meno consapevolmente, ma dobbiamo anche dimenticare, per forza. La mia strategia è simile a un processo, e in effetti si tratta davvero di un processo logico. Bisogna allestire il tribunale della (nostra) Ragione. Appellandoci al tribunale della Ragione compiamo un’azione di oggettivazione e non dobbiamo stupirci se scopriremo che noi non siamo giudici. Il nostro rancore (causato da offesa, tradimento, ingiustizie) è un testimone ma non può essere l’unica voce del processo. Siamo anche noi colpevoli, avendo comunque sbagliato a monte il nostro giudizio. Forse chi subisce un grave torto non è mai del tutto innocente. Quando da ragazzo subii il tradimento di una ragazza mi infuriai e dopo aver distrutto alcune suppellettili non troppo costose allestii uno dei miei primi tribunali. Insulti, schiaffi mentali, giorni di grande violenza in tribunale. Ma ogni tanto si sentiva una voce, come dal profondo dell’aula, e questa voce diceva soltanto: anche tu l’hai tradita. Questa misera voce impiegò giorni per essere recepita dal Giudice. Ma fu bellissimo perché raffreddò la questione, e la ragazza tornò meravigliosamente ad essere l’altro, l’estranea che era, la sconosciuta. Questa fu la sentenza, e non ci fu bisogno di appello. Il santo oblio era sceso con il suo manto incantato. Ma non aveva niente a che vedere con il perdono. Avevo scoperto l’arte del disamore.