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Vergogna

Autore

Emanuela Fellin e Ugo Morelli
Emanuela Fellin Emanuela Fellin, pedagogista clinica, svolge la sua attività professionale, di studio, ricerca e consulenza per lo sviluppo individuale, sia con l’infanzia e l’adolescenza, che con gli adulti. Si occupa di interventi con i gruppi e le organizzazioni per la formazione e lo sviluppo dell’apprendimento e della motivazione. L’impegno di studio e applicazione è rivolto agli interventi nei contesti critici dell’educazione contemporanea, sia istituzionali che scolastici. Le tematiche principali di interesse vertono sui concetti di vivibilità, ambiente, cura e apprendimento. I metodi utilizzati sono quelli propri della ricerca-intervento e della consulenza al ruolo per lo sviluppo individuale e il sostegno alle dinamiche dei gruppi e delle organizzazioni. Ugo Morelli Ugo Morelli, psicologo, studioso di scienze cognitive e scrittore, oggi insegna Scienze Cognitive applicate al paesaggio e alla vivibilità al DIARC, Dipartimento di Architettura dell’Università Federico II di Napoli; è Direttore Scientifico del Corso Executive di alta formazione, Modelli di Business per la Sostenibilità Ambientale, presso CUOA Business School, Altavilla Vicentina. Già professore presso le Università degli Studi di Venezia e di Bergamo, è autore di un ampio numero di pubblicazioni, tra le quali: Mente e Bellezza. Arte, creatività e innovazione, Allemandi & C, Torino 2010; Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Il conflitto generativo, Città Nuova, Roma 2013; Paesaggio lingua madre, Erickson, Trento 2014; Noi, infanti planetari, Meltemi, Milano 2017; Eppur si crea. Creatività, bellezza, vivibilità, Città Nuova, Roma 2018; Noi siamo un dialogo, Città Nuova Editrice, Roma 2020; I paesaggi della nostra vita, Silvana Editoriale, Milano 2020. Collabora stabilmente con Animazione Sociale, Persone & Conoscenza, Sviluppo & Organizzazione, doppiozero, i dorsi del Corriere della Sera del Trentino, dell’Alto Adige, del Veneto e di Bologna, e con Il Mattino di Napoli.

Nessuna mente individuale è in grado di far fronte da sola al peso della vergogna che la colpa di aver creato l’invivibilità ci suscita. 

Per non rimanerne schiacciati ci sarebbe bisogno di creare inediti depositari condivisi. 

È purtroppo proprio quel che ci manca e, soprattutto, che fatichiamo a immaginare e, quindi, a cercare di avviarne la creazione. 

Più che depositari simbolici condivisi, tendiamo a creare rifugi difensivi frammentati, o addirittura negazioni delle evidenze e della realtà. 

Ciò accade persino all’interno di una stessa istituzione e delle istituzioni, che non riescono più ad essere contenitori in grado di ospitare le differenze. 

Ci manca un cantore condiviso, coinvolti come siamo in situazioni nelle quali ognuno cerca di cantare un canto singolo o meglio un canto per se stesso.  

Anche di questo ci vergogniamo ed è un processo che sembra senza via d’uscita. Ci vergogniamo soprattutto di non avere un oggetto buono da salvare.  

In ogni circostanza vediamo fallire i tentativi di cambiamento e c’è molto spesso l’insistenza a voler tornare ai depositari di sempre. 

Che sono falliti. 

Le cose, infatti, sono profondamente cambiate e salvare un oggetto buono e condiviso vuol dire oggi tendere a salvare il legame sociale.  

Non possiamo rientrare soltanto in casa, intendendo per casa il luogo della consuetudine.  

Abbiamo bisogno di un uso diverso del nostro potere e delle nostre possibilità e in particolare della dipendenza come uso rinunciante del potere.  

Un uso del potere come rinuncia è la condizione per riconoscere che dipendiamo l’uno dall’altro.  

In una simile prospettiva la vergogna può diventare un’occasione di apprendimento, un’opportunità di emancipazione.  

Nelle istituzioni in particolare sembra indispensabile riconoscere la vergogna che deriva dall’ arroganza e dalle conseguenze delle pratiche distruttive che dall’ arroganza sono causate. 

Chi comanda è importante che riconosca la vergogna come valore per giungere a farsi comandare da colei o colui a cui sta rivolgendo il proprio comando, come condizione per tentare di comandare meglio. 

Il senso del possibile, infatti, è legato a nuove forme di esercizio del potere che solo una buona elaborazione della vergogna può garantire.  

Il Calderone di Gundestrup è un manufatto celtico datato tradizionalmente al III secolo a.C., nella tarda Età del ferro, anche se la recente datazione al radiocarbonio di residui di cera sul calderone e del metallo di cui è costituito ne sposterebbe in avanti l’origine fino al III secolo d.C.. Fu ritrovato il 28 maggio 1891 in una torbiera dell’Himmerland, nello Jutland, nel nord della Danimarca. È costituito da un insieme di 13 pannelli d’argento – di cui 5 rettangolari interni, 7 quadrati esterni (è andato perduto un ottavo pannello) e uno circolare che costituisce il fondo – di 42 cm di altezza, un diametro di 69 cm. e un peso di 9 chilogrammi. Conservato presso il Museo Nazionale Danese di Copenaghen, le raffigurazioni presenti nelle tredici placche lo rendono un importante e discusso oggetto protostorico

Quello che ci importa qui è evidenziarne la funzione simbolica come depositario comune.  

Periodicamente e per secoli, popoli provenienti da direzioni e località diverse, che si estendevano per tutta l’Europa e oltre, confluivano in un luogo designato a depositare un simbolo della propria realtà e cultura, come segno di condivisione e appartenenza a un comune destino. Le differenze di culture e valori, nonché di orientamenti simbolici, erano molto alte, ma l’attenzione era posta ai fattori accomunanti e, in ultima istanza, al fattore accomunante simbolizzato dal Calderone. 

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