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La ragione delle relazioni e la ragione calcolatrice

Autore

Andrea Donegà
Direttore delle sedi Enaip di Lecco, Monticello Brianza e Morbegno, impegnato nella formazione professionale con giovani e adulti. Un passato da educatore che ha preceduto 15 anni di impegno sindacale che lo hanno portato a ricoprire la carica di Segretario Generale della Fim Cisl Lombardia e di responsabile nazionale dei giovani metalmeccanici con i quali ha organizzato diversi campi di lavoro nei terreni e nei beni confiscati alla camorra nel casertano, approfondendo le conoscenze su economia civile e agricoltura sociale. Laureato in Sociologia in Bicocca, da sempre impegnato nel sociale, ha vissuto molte esperienze di volontariato negli orfanotrofi rumeni con l’associazione fondata da don Gino Rigoldi “Bambini in Romania” la prima delle quali, a 18 anni, fu decisiva per l’ingresso nel mondo degli adulti e la presa di consapevolezza del valore dell’impegno civico che, da allora, ha sempre coltivato. Oggi è componente del Direttivo dell’Associazione Amici Casa della Carità e attivista della Fondazione SON – Speranza Oltre Noi, realtà che lavora sul tema delle fragilità e del “dopo di noi”. Cofondatore di Passion&Linguaggi, collabora con il mensile Mosaico di Pace ed è autore del libro “Don Colmegna: al centro dei margini”. Nato a Como il 26/11/1981, convive con Francesca ed è papà di Carlotta, Tommaso e Samuele e genitore affidatario di Jason.

“I soldi fanno la felicità”. “Il denaro non rende felici ma aiuta”. Quante volte abbiamo sentito, o pronunciato, queste frasi? Sembrano diverse tra loro ma dicono sostanzialmente la stessa cosa: possiamo comprare tutto, dopo aver assegnato alla felicità il significato della soddisfazione di qualunque tipo di bisogno, inteso come consumo, e al denaro il mezzo per ottenerlo. È il portato culturale del capitalismo odierno, che poggia su una sorta di consumismo compulsivo capace di abbattere gli argini delle relazioni e di inondare la nostra vita quotidiana sempre più somigliante alla dinamica di uno scambio economico che surclassa quello gratuito, simbolico-relazionale, dove qualcuno vende, senza necessariamente produrre, e qualcun altro compra: il famoso do ut des, cioè: io do affinchè tu dia. Ogni cosa, in questo contesto, viene percepita unicamente in funzione dell’utilità per fini egoistici, autoreferenziali. È la reificazione, definizione coniata da György Lukàcs e ben spiegata anche da Alex Honneth, nel suo libro “Reificazione” , intendendola come «un tipo di comportamento umano che viola i nostri principi etici o morali in quanto tratta altri soggetti non in conformità alle loro caratteristiche umane, ma come oggetti privi di sensibilità e di vita, cioè come “cose” o come “merci”»¹.. Honneth prosegue specificando, quindi, che «la reificazione è un rapporto, una relazione tra persone che riceve il carattere di cosalit಻ ovvero «un processo cognitivo nel quale qualcosa che di per sé non possiede caratteristiche cosali (ad esempio qualcosa di umano) viene considerato come una cosa»³. Se tutto è merce, tutto può essere comprato. E in effetti, il denaro può comprare tutto finanche l’amore e la solidarietà, due tra le massime espressioni di relazione tra persone e comunità. Alla logica dello scambio economico abbiamo finito per affidare anche le relazioni, assegnando un valore anche a cose che un valore economico non hanno. Un concetto vivo anche nel pensiero di Karl Marx: «L’uomo ha cessato di essere schiavo dell’uomo ed è diventato schiavo della cosa; il capovolgimento dei rapporti umani è compiuto; la servitù del moderno mondo di trafficanti, la venalità giunta a perfezione e divenuta universale è più disumana e più comprensiva della servitù della gleba dell’era feudale; […] La dissoluzione dell’umanità in una massa di atomi isolati, che si respingono a vicenda, è già in sé  l’annientamento di tutti gli interessi corporativi, nazionali e particolari ed è l’ultimo stadio necessario verso la libera autounificazione dell’umanità»⁴. È la ragione economicistica e calcolatrice che prevale sulla ragione del benessere collettivo e della cura della comunità. È la deriva che ci ha insegnato, davanti a ogni scelta, a fare un rapido bilancio tra costi e ricavi e a scegliere sempre in funzione della nostra comodità e, possibilmente, di un facile e immediato tornaconto, non necessariamente economico ma comunque relativo agli interessi individuali. Un meccanismo calcolatore che spesso presiede alla nostra vita di tutti i giorni e che ha investito fortemente anche la politica che, invece, dovrebbe essere il presidio per eccellenza della cura del bene comune e pubblico. Spesso invece le scelte politiche sembrano avere a cuore utilitaristicamente solo il consenso elettorale, trascurando la mission sua propria che la vorrebbe impegnata a costruire orizzonti di opportunità, inclusione e benessere collettivo.

Se c’è un contesto dove la deriva della mercificazione appare oggi con straordinaria evidenza, è quello del lavoro, schiacciato, mortificato, nella logica contrattualistica della domanda e  dell’offerta; una dinamica perversa che quando coglie i lavoratori in condizioni di debolezza negoziale, vede crescere il cosiddetto “ricatto occupazionale” e la riduzione dei salari  e delle opportunità professionali, soprattutto per le donne e i giovani, da sempre i soggetti più fragili sul mercato del lavoro. Il lavoro è la possibilità per ognuno di sentirsi importante, realizzato, inserito nella comunità,  perché consente a tutti, in una dimensione collettiva, di dare il proprio contributo a un destino comune, e in quella individuale-relazionale di produrre qualcosa di ben fatto, come riconoscimento di sé, delle proprie abilità, creatività, espressività, nella relazione con l’altro. Diversamente il lavoro si riduce a un ingranaggio di un sistema meccanico: veloce, superficiale, mercificato, che lascia dietro quelli considerati meno attrezzati  nella logica del merito e della competizione e riduce le persone a essere valutate e accettate in funzione soltanto del loro “produttivismo”, utili, funzionali e adeguati a questo sistema. E il trend al quale assistiamo non promette in questo senso nulla di buono. Per capire quanto il concetto di lavoro sia cambiato basta citare esempi di alcune imprese leader nel settore del digitale: Facebook è la più grande azienda di media, ma non ha mai assunto un giornalista; Whatsapp primeggia nella comunicazione ma non ha mai acquisito un ponte radio; Uber ha sconvolto il mondo dei taxi senza acquistare un’auto né assumere un autista; AirB&B ha rivoluzionato il settore alberghiero e turistico senza mai comprare un letto. Queste aziende hanno utilizzato l’intelligenza distribuita tra gli utenti facendo a meno del capitale e del lavoro. Antonio Casilli, in “Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo”, spiega che “per prosperare e per innovare, le piattaforme hanno bisogno del lavoro di esseri umani che non vengono inquadrati come lavoratori, ma come utenti”⁵. E ancora. Richard Baldwin ci descrive un’ulteriore accelerazione che descrive nel suo libro Rivoluzione Globotica (Rivoluzione Globotica. Globalizzazione, Robotica e futuro del lavoro. Richard Baldwinn, Il Mulino), dove per globotica si intende il mix tra una nuova forma di globalizzazione e nuova forma di robotica fondata su Intelligenza Artificiale e Intelligenza Remota. Ci descrive una nuova tipologia di lavoratori, i telemigranti, ovvero lavoratori che risiedono nel proprio paese e vengono impiegati, senza spostarsi, in attività di aziende di altri paesi. I vantaggi e le conseguenza, dipende dai punti di vista, sono molteplici: l’impresa risparmia, anzi si assicura competenze a minori costi, e il lavoratore, pur guadagnando meno rispetto a un “indigeno”, riceve un salario superiore a quello dei propri connazionali. Partirà una nuova ondata di competizione salariale che avrà gli stessi effetti di quella dovuta alle migrazioni di massa, ma questa volta su mansioni più elevate, aprendo le porte a una concorrenza al ribasso sui costi. Per partecipare è sufficiente avere un computer, una connessione internet e le competenze necessarie. Per le imprese è dunque molto facile gestire il rapporto di lavoro, controllarlo (la piattaforma, infatti, in modo casuale e segreto, effettua fotografie alla schermata per verificare e dimostrare che il professionista stia lavorando), pagarlo e, soprattutto, chiuderlo: basta infatti premere il pulsante “fine contratto”. Un concetto di lavoro incompatibile con la dignità della persona e che ha perso completamente la propria dimensione collettiva, quel suo valore fondante di accesso e ingresso nella società come parte fondamentale di un tutto, come esercizio di partecipazione alla vita della propria comunità. In un contesto diventato così veloce e cinico, nel quale il capitalismo odierno, quello cosiddetto “delle piattaforme” genera una costante divisione e frammentazione tra chi lavora, per la solidarietà e la rappresentanza collettiva non c’è più posto soprattutto se si riduce la torta da spartirsi. Tra i pochi effetti che possiamo, a fatica, definire positivi lasciatici dal Covid, forse sta nascendo una  riconsiderazione di alcuni valori che sembravano persi. Il numero di dimissioni dal lavoro registrate tra aprile e giugno di quest’anno in Italia, pari a circa 500.000 in netto aumento rispetto al 2020 e destinate ad aumentare, sono un indicatore del cattivo stato in cui versa il lavoro nel nostro Paese. È il fenomeno che riguarda soprattutto i Paesi ad alto reddito pro capite, ribattezzato Great Resignation, un tema di dimensione globale ben descritto dall’economista Fabio Sdogati che recentemente scriveva: «Generazione dopo generazione la tendenza generale dell’offerta di lavoro è di rivalutare sistematicamente i benefici relativi del lavoro e del tempo libero. In questa fase, l’aneddotica e una certa quantità di evidenza empirica sembrano indicare che  si vada verso una rivalutazione del tempo libero a parità di condizioni di lavoro». Si tratta di un evento inatteso, che non appare ancora chiaro in tutti i suoi aspetti, ma che lascia tuttavia intendere che siamo di fronte a un grande ripensamento, che sembra poter ridare il giusto posto ai valori che fondano il nostro stare insieme nella società e nelle comunità. È da qui, dalla maturazione di una consapevolezza dal basso che bisogna ripartire per riaffermare il primato della ragione relazionale, dello scambio simbolico, sulla razionalità calcolante, strumentale, economicista, che riduce tutto a cosa e a merce, per ri-piantare nel contesto contemporaneo gli antichi semi della dignità della persona e della giustizia sociale, scegliendo come bussola il bene vicendevole, bilanciando i diritti con le obbligazioni sociali e la libertà individuale con la convivialità. 

¹ Reificazione. Sulla teoria del riconoscimento. Axel Honneth, Meltemi Linee

² Reificazione. Sulla teoria del riconoscimento. Axel Honneth, Meltemi Linee

³ Reificazione. Sulla teoria del riconoscimento. Axel Honneth, Meltemi Linee

⁴ K. Marx, Manoscritti economico filosofici del ’44

⁵ Schiavi del clic: Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo? Antonio A. Casilli, Feltrinelli Editore

⁶ Fabio Sdogati, cfr www.scenarieconomici.com del 8/11/2021 Inflazione permanente in arrivo? Davvero? Dovremmo chiederci anche che cosa stia succedendo all’offerta di lavoro?

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