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Le seconde possibilità che riaprono le esistenze

Autore

Generoso Picone
Generoso Picone, Giornalista, Scrittore, autore di pubblicazioni storiche e di analisi sociale, studioso della letteratura italiana contemporanea.

“Senza desiderio non siamo più vivi, non siamo più niente”. André Aciman spiega così il senso che ha voluto consegnare al suo ultimo romanzo, Idillio sulla High Line” (Guanda, traduzione di Valeria Bastia). Racconta la storia d’amore tra Paul e Catherine, un uomo e una donna entrambi sessantenni che s’incontrano in una New York splendente di un luglio caldo, quasi uscita da un fotogramma di Woody Allen, e in un locale sull’Hudson fanno risuonare l’interrogativo che scuote le loro vite già orientate, strutturate, definite, entrambi sposati con figli e pure nipoti, carriere soddisfacenti alle spalle: perché no? Perché non inseguire l’ossessione che prendeva Elio e Oliver in “Chiamami col tuo nome”, il titolo di Aciman del 2007 da cui Luca Guadagnino ha tratto l’omonimo film? Il fuoco, perché “fuoco fu la prima parola, e anche la più facile, che mi venne in mente” dice il ragazzo figlio del professor Perlman osservando il corpo del giovane studente americano ospite della casa di famiglia nella provincia italiana del Nord, “un’apparizione di lucciole in un campo d’estate”.

 Aciman in “Idillio sulla High Line” narra le seconde possibilità che riaprono l’esistenza. Paul e Catherine si trovano di fronte a una sliding door e l’attraversano con una foga temperata dalla maturità serena. Tra lunghe e infinite passeggiate, caffè presi al bar del napoletano Pirro – c’è sempre un omaggio all’Italia nelle pagine di Aciman, un punto fisso nella sua geografia emotiva -, pranzi e conversazioni, una ritualità presto celebrata quotidianamente, l’innamoramento che si delinea, il futuro che si intravede insieme. 

   L’insorgere del desiderio, insomma. Il momento che diventa rivelatore di un’altra verità, il punto in cui tra le crepe dell’ordinario spunta una diversa opzione. Quando si comprende che “è ora di smetterla di impersonare altri, è ora di Diventare Me Stesso. O almeno di cominciare a impersonare il me stesso che ritengo di dover essere”, come si ripete David Kepesh, assieme a Nathan Zuckerman uno degli alter ego letterari di Philip Roth, il protagonista de “Il professore di desiderio”, il romanzo del 1977 (Einaudi, traduzione di Norman Gobetti) che con “Il seno” del 1972 e “L’animale morente” del 2001 compone la trilogia della vita erotica e sentimentale del “libertino tra gli eruditi, erudito tra i libertini” tra New York e Londra. Qui, una sera è in compagnia di Elizabeth, una ragazza svedese con cui ha intrapreso una paradossale e indefinita partita a carte, preludio chissà di che cosa, e la donna lo interroga spazientita: “Allora amico, lo sai sì?, a che gioco stiamo giocando?”. A che gioco sta giocando il professore di desiderio? E’ consapevole di trovarsi nel pieno del dilemma del piacere, all’incrocio del dedalo dei quesiti: dove lo si cerca, perché lo si sfugge, con quanta tensione si raggiunge una tregua tra le forze opposte della dignità e – appunto – del desiderio?

  Occorre voltare lo sguardo verso la letteratura, alle sue espressioni più alte e intense per azzardare qualche plausibile risposta alle questioni di fondo di un tempo sbandato. Per provare a fare i conti con la dinamica del desiderio, o almeno con ciò che oggi chiamiamo desiderio, in un’epoca in cui i bisogni esistenziali hanno sovrastato quelli umani, adoperando l’impianto marxiano che Agnes Heller utilizzava agli inizi degli anni ’70, che erano poi quelli dell’inizio del viaggio di Kepesh-Roth, per articolare la sua teoria che conduceva a considerare il bisogno nella prassi di “desiderio cosciente, aspirazione, intenzione diretta verso un certo oggetto e motivante l’azione come tale”. 

  Aveva ragione a sostenere che il bisogno è un prodotto sociale nella misura in cui l’oggetto del bisogno viene delimitato dall’oggettivazione. Se oggi il soddisfacimento del bisogno pare essere abbordabile, impresa semplice e possibile da parte delle macchine desideranti profetizzate da Gilles Deleuze e Felix Guattari, è perché il capitalismo deve aver raggiunto la fase estrema della sua linea schizofrenica. Il desiderio, così, non appare nella portata energica della forza – del fuoco – che cambiando la vita le assegna un significato. Questo capita – quando capita – nei romanzi. Ma intanto, altrove la sua banalizzazione a la carte, lo spreco e la designazione riduttiva della sua portata ai livelli del capriccio e della voglia, tutto ciò ha finito per derubricare il desiderio alla motivazione che spinge a cogliere una merce in vendita al banchetto della società che consuma se stessa.

  A che gioco stiamo giocando, allora? Per acquietare l’ansia di Elizabeth al tavolo con Kepesh è opportuno ricorrere alle parole di Jacques Lacan. Nel capitolo conclusivo del suo Seminario VII, svolto tra il 1959 e il 1960, Lacan si occupa dell’etica della psicanalisi e chiede: “Avete agito conformemente al desiderio che vi abita?”. Riporta, cioè, la ricerca del desiderio nell’ambito del soggetto, intendendo quella forza sconosciuta al pensiero conscio che comunque orienta dal profondo la vita del singolo. Per lui, il desiderio è il desiderio dell’inconscio e tentare di raggiungerlo costituisce un compito che dura una vita intera. Quando il soggetto vi riesce, egli è diventato padrone del proprio destino. Ma per poter compiere l’impresa deve ricordare che il termine latino de-siderio significa letteralmente “mancanza di stelle”, avvertire la loro lontananza e quindi aspirare a colmarla. 

  E’ l’itinerario per raggiungere le stelle. Dove il soddisfacimento appare più nel percorso che nell’approdo. Nelle passeggiate di Paul e Catherine lungo le sponde dell’Hudson, nel progetto di un nuovo approdo, nei cerimoniali di una coppia che si forma e dal naufragio inconsapevole delle rispettive rotte immagina l’estrema possibilità per abitare quella condizione di appagamento che hanno quasi timore a chiamare felicità.

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