La simbologia come strumento privilegiato del potere

Autore

Lavinia Mainardi
Laureata in filosofia con una tesi in estetica nell'anno 1994 presso l'Università degli studi di Bologna, Lavinia è una curiosa, ambientalista, studiosa di estetica e di filosofia del paesaggio, semiotica, iconologia, iconografia e visual studies

Dalle intermittenze mestiche al recupero organico al lacerto intenzionale, i rapporti fra potere e memoria continuano a fare della simbologia in tutte le sue declinazioni il loro strumento privilegiato

“Sto postulando l’esistenza nell’immaginazione di modelli di potere che precedono le idee e che si rivelano nelle idee. Questi modelli sono gli arcai, il termine che i greci usavano per i principi (…) le metafore basilari su cui tutte le cose poggiano e che danno in modo costante forme tipiche e stili di espressione al nostro modo di pensare, di sentire e di parlare. Le figure del mito ricalcano particolarmente bene questi modelli. Queste griglie somigliano piuttosto a mappe, a curve di livello del territorio dell’immaginazione che consentono alla mente di leggersi in modo immaginativo”. Così scrive in “Kinds of Power” James Hillman, condensando in poche righe le potenzialità immaginative della mente umana che mentre crea archetipi, simboli, metafore, di essi si nutre. “Hillman (…) colui che ha spinto oltre estremi confini il pensiero analitico di Jung  -sottolinea Bruno Roberti a margine della pubblicazione di L’ultima immagine, ideale dialogo postumo fra il grande psicanalista e la bizantinista Silvia Ronchey-  verso un territorio immaginale costellato di archetipi e che ha restituito una radicale interpretazione del sintomo psichico e del suo manifestarsi come eziologia del malessere: la malattia è un Dio che vuole parlarci e a lei non sappiamo più prestare ascolto nel suo mitologema, nella prerogativa della sua storia mitica. Se Hillman parte dall’affermazione junghiana che gli dei antichi sono diventati malattie una volta spinti nell’ombra del rimosso dalla cristallizzazione della luce trascendente introdotta con i monoteismi, allora è da questa patologizzazione del Dio che bisogna partire”.

Sottraendoci per un istante dalle suggestioni di un approccio dalle finalità eminentemente curative e quindi individualmente a-storiche, vorrei tentare di addentrarmi in un itinerario per contro diacronico, ergo storico, concentrandomi paradigmaticamente sulla transizione figurativa, quindi appartenente al dominio delle immagini e alle sue leggi, avvenuta fra Rinascimento e Barocco in rapporto alla simbologia dell’esotico e al suo progressivo addomesticamento, fino alla normalizzazione dell’alterità operata, prima con finalità colonialiste poi globalizzanti, ma sempre con intento di prevaricazione. In particolare, incentrando la breve investigazione sulla dialettica fra sopravvivenza vs. memoria culturale a dettare l’antitesi di due modi di rapportarsi alle riemergenze di τόποι e temi nella storia dell’arte.

Tale contrapposizione, spesso forzata dalle nostre stratificazioni ermeneutiche e mai scevra dall’orizzonte in cui si situa la riattivazione e la fruibilità di un passato mai completamente tale, ma infarcito di implicazioni rileggibili e proiettabili in un contesto definito dall’attualità, non può prescindere da un dato di fatto: nella storia dell’arte esiste una frattura imprescindibile ovvero la progressività in chiave di climax ascendente operata da Giorgio Vasari nelle sue “Vite”, che segnano un momento discriminate da cui nessuna critica ha poi saputo del tutto prescindere o sottrarsi, ponendo un acme, un prototipo di perfezione formale, inserito in un contesto storico-politico di cui egli stesso è parte integrante e di cui anzi diviene consapevole portavoce. Scrive Enrico Mattioda, attento esegeta del corpus letterario vasariano: “il richiamo alla qualità dei tempi, uno dei concetti chiave della storiografia fiorentina nata dalle guerre d’Italia, mostra quale fosse il retroterra culturale che le raccolte  biografiche potevano ereditare per trasformare la biografia in storia (…), il concetto dinamico di modelli di perfezione in campi artistici diversi portava a stabilire perfezioni e modelli diversi i nuovi generi che avrebbero impedito la decadenza”. D’ora in poi la critica d’arte seguirà a lungo un criterio temporale spesso verticistico, connesso alla temperie storica in cui si colloca la biografia del suo autore.

Tornando alla questione su cui stiamo imperniando queste riflessioni, come dopo questa sorta di imprinting poteva un discorso critico impostare il rapporto fra immaginazione, simbolo e memoria? Proviamo a concentrarci su una polarità storiografica e a rapportarla in un ardito salto temporale a due visioni che per così dire aprono la cosiddetta modernità.

Georges Didi-Hubermann nel profilo intellettuale di Aby Warburg tracciato in “L’immagine insepolta”, fa spesso riferimento al concetto di Nachleben, ovvero di sopravvivenza, ponendo un’analogia fra potenze dell’immagine psichiche e plastiche che lavorerebbero sullo stesso materiale sedimentato impuro e movimentato della memoria inconscia. Gli imparentamenti con il modello freudiano del sintomo e con il principio darwiniano dell’impronta sono plurimi in un fil rouge che srotolandosi dal pensiero di Burckardt e Nietzsche giungerà attraverso la mediazione proprio di Warburg al magistero di Fritz Saxl, Erwin Panofsky, Edgar Wind, Ernst Gombrich problematizzando sempre più il rapporto con l’antico.

“Studiare l’arte del Quattrocento fiorentino nella prospettiva del Rinascimento – sottolinea Didi-Hubermann- ha sempre significato capire quest’arte come una collezione di ricordi dell’antichità. Ma studiarla nella prospettiva delle sopravvivenze, consiste per Warburg nello scrivere un’altra dimensione(…) quella degli apres-coups della primitività”.

Ad una mnemotecnica dinamica, policronica, inquieta in cui “il tempo non si limita a scorrere, lavora a costruire, cede, scivola cade e rinasce, si seppellisce e risorge, si decompone e si ricompone” è lecito opporre un diverso rapporto con il passato.

 In “La memoria culturale” Jan Assmann, connettendo ricordo identità e perpetuazione culturale (ovvero tradizione), sviluppa un concetto di cultura come struttura connettiva che istituisce collegamenti e vincoli tra “dimensione sociale” e “ tempo reale”, creando un universo simbolico, ovvero uno “spazio comune di esperienze di attese e di azioni”, in grado di “legare lo ieri all’oggi modellando e mantenendo attuali le esperienze e i ricordi fondanti e includendo le immagini e le storie di un altro tempo entro l’orizzonte sempre avanzante del presente (…) in una struttura connettiva di un sapere di un’immagine”.  Anche in questo caso il principio base di ogni struttura connettiva è la ripetizione Wiederholung. Assmann individua nel concetto di canone il principio intensificatore di questa struttura connettiva, canone definito come mémoire volontarie di una società. “Il mito- ribadisce Assmann- è una storia fondante raccontata per chiarire il presente alla luce delle origini. Il ricordo inerisce qualcosa di sacrale spesso ha il carattere della festa, un carattere extraquotidiano” I riti e i miti circoscrivono il senso della realtà. Nella contrapposizione di ascendenza levistraussiana fra società fredde e calde, le seconde appaiono “caratterizzate da un avido bisogno di trasformazione, avendo interiorizzato la loro storia per farne il motore della loro evoluzione”. Jan Assmann ci ricorda poi che “un forte incentivo del ricordo è il potere”  e che “ il passato consolidato e interiorizzato come storia fondante è mito”.

L’apparente dicotomia che abbiamo ravvisato nel rapporto fra memoria e immagine si scioglie dunque nel momento in cui troviamo il denominatore comune di queste due Weltanschauungen, rintracciabile nell’impossibilità di disconnettere il simbolo da una struttura di potere con cui improntare il recupero mnestico: potere del rimosso, potere mitopoietico dalla valenza sacrale ed infine potere sociale-politico con scopi aggreganti. Il climax ascendente, griglia su cui abbiamo edificato tutta la nostra ricerca, ha compiuto il suo iter.

Vorrei contestualizzare meglio questo concetto rapportandolo al τόπος dell’esotico da cui l’investigazione ha avuto inizio. Edward W. Said nel suo saggio “L’orientalismo” pubblicato nel 1978, offre una panoramica delle modalità di visione -quindi di appropriazione- attraverso cui l’Occidente ha guardato alle geografie e culture altre, nel tentativo di appropriarsene prima di tutto annientandone la diversità, un addomesticamento culminato nelle politiche coloniali ma anche nella musealizzazione, in certi approcci antropologici come nei riduzionismi dei programmi universitari. Il processo è lungo mai indolore e avanza per gradi: “ Ciò che era estraneo e lontano diviene a poco a poco stranamente familiare; si tende a non giudicare piú alcunché completamente estraneo o completamente abituale, mentre emerge una terza possibilità, quella cioè di vedere le cose nuove, cose viste per la prima volta, come versioni di qualcosa precedentemente conosciuto (…) non è tanto un mezzo per imparare, quanto un metodo per tenere sotto controllo ciò che appare come una minaccia  alla nostra consueta visione del mondo”.

Ecco che l’addomesticamento dell’esotico il τόπος iconologico dell’altro, ha esaurito la sua carica eversiva appiattendosi sulla vulgata di un’omologazione che segna un’insanabile frattura ermeneutica, ad esempio, dallo stupore delle cronache di viaggio medievali, dai resoconti dei pellegrinaggi o dall’ammirazione per gli obelischi dei “Mirabilia urbis Romae”. 

Proprio il tema dell’Antico Egitto può ancora una volta riassumere ed esemplificare la differenza fra una memoria rapsodica frammentata e nutrita di sopravvivenze ed una pienamente consapevole propagandisticamente finalizzata.

Se confrontiamo il recupero dei testi ermetici operato dall’Accademia di Careggi nella Firenze medicea all’interno di una cultura neoplatonica, analizzata fra gli altri da André Chastel in Marsilio Ficino e le Arti, osserviamo come la struttura di potere della corte medicea sia influenzata dalle istanze filosofiche e dal pluralismo sincretico di influenze indirizzate in primis dalla riscoperta di testi antichi con finalità anche esoteriche teurgiche e magiche. Un gusto archeologico si accompagna a tale temperie nell’arte figurativa sulle cui ascendenze hanno lavorato iconologi quali Maurizio Calvesi. Fra le valenze simboliche sottesa è la ricerca di una conferma ai poteri costituiti senza che tale finalità abbia tuttavia il sopravvento o si strutturi in maniera organicamente e consapevolmente orientata.

L’arte imparerà soltanto nella Roma papale a farsi portatrice di messaggi ben più istituzionalizzati in programmi iconografici dottamente precisi.

Soltanto nel Seicento, tuttavia, si assisterà ad una consapevolezza nell’utilizzo delle immagini, in cui i simboli, nel frattempo fattosi emblemi, insegne, procedimenti retorici, assurgono al ruolo di strumenti di propaganda controriformistica. Scrive Eugenio Lo Sardo in Le macchine cortigiane “ il ruolo primario delle immagini (…) apriva un vasto campo di azione intensamente sfruttato in età barocca. Ma era tutto il mondo cattolico a trovarsi in una posizione di indubbio vantaggio su altre civiltà e religioni. Per un paradosso della storia il monopolio dell’immagine, a partire dal quindicesimo secolo, si era concentrato in pochi Stati d’Europa (…) Nel Seicento questo processo aveva raggiunto il suo culmine (…) i missionari sfruttarono a fondo le opportunità da questo primato…con le immagini si superavano le barriere linguistiche, si attraeva la curiosità delle genti, si mostravano i frutti di un’arte giunta ad altissimi livelli, suscitando il rispetto per il messaggero di quella cultura e di quella fede. Le immagini aiutavano i missionari a ricordare e a argomentare”.

Jorge Baltrušaitis in La ricerca di Iside condensa in un coltissimo excursus la duplice valenza che in epoca barocca assume la simbologia egizia, da un lato ancora ammantata di un’aura misterica, fascino esercitato attraverso gli scarti della memoria, dall’altro la valenza persuasiva che assumerà attraverso la propaganda missionaria: «le prospettive depravate procedono per aberrazioni da cui nascono leggende delle forme e anamorfosi collegate ad apocrifi ottici. Lo stesso meccanismo visionario delle deviazioni e degli sdoppiamenti produce inoltre favole fantastiche sulle favole originarie (…) affiora una vena profonda di arcaismi esotici. Nell’evoluzione di queste immagini nel corso del Seicento ebbe un’importanza decisiva l’azione dei gesuiti che ne fecero uno strumento pedagogico e didattico”.

In Esotismo in Roma barocca – studi sul padre Kircher, Valerio Rivosecchi opera una ricognizione ancor più approfondita del rapporto instaurato nel Seicento fra istituzioni di potere immagini e simboli: “ L’assenza di un primario interesse economico e commerciale e nel contempo la necessità di una conoscenza sempre più ampia delle culture orientali indotta dalle necessità dello sviluppo missionario e dalla centralità universale della Chiesa di Roma, sono – sottolinea Rivosecchi – le coordinate fondamentali della posizione assunta dalla cultura italiana nei confronti dell’Oriente” (…) “In quasi tutte le testimonianze di un interesse per le culture orientali- aggiunge- la curiosità e il conformismo si rivelano spesso come aspetti complementari, come termini di una dialettica culturale in cui convivono eurocentrismo e cosmopolitismo, erudizione ed esperienza. La acquisizione di nuovi dati si presenta come una convalida di categorie culturali già acquisite, difesa della coscienza europea e delle sue fonti storiche (…) L’ipotesi egiziana anche se destinata al fallimento a causa della superficialità e dell’arbitrarietà dei suoi metodi ebbe all’interno della cultura barocca una grande importanza perché, nel momento in cui la Chiesa avvertiva al massimo grado la necessità di una comunicazione universale, tentò di ricostruire attraverso un confronto estesissimo dei sistemi simbolici e delle iconografie, una sorta di lingua originaria dell’umanità, un codice universale di archetipi al quale poter ricondurre tutte le metafore successive” (e qui credo l’ermeneuta più compiuto di tale slancio utopistico e del suo orizzonte di situazione sia stato l’Umberto Eco della “Ricerca della lingua perfetta”). “Con Pignoria e soprattutto con Kircher- continua Rivosecchi- le ricerche sul codice simbolico delle arti orientali si inseriscono in un filone di ricerche sulle antichità dell’Egitto (…) che aveva già una sua storia negli studi umanistici e rinascimentali: è da questi studi che Kircher trae l’intento di ricostruire attraverso un’analisi del simbolismo antico un linguaggio nuovo e universalmente valido” (…) È facile immaginare -chiosa infine Rivosecchi- che la ricostruzione di una lingua sacra delle immagini, archetipa, universale e per ciò stesso immediata non dovette passare inosservata agli artisti del tempo, infatti è possibile ritrovare i segni di questo tributo alle “sterminate antichità” dell’Oriente in molte opere chiave dell’architettura barocca, dalle rielevazioni sistine degli obelischi, alle fontane, agli apparati effimeri… (come non pensare all’erudita ricostruzione delle scenografie delle feste barocche operata da Marcello Fagiolo dell’Arco?) .

Simbolo e potere ormai collimano in un’estenuante ricerca di universalità in grado di appiattire attraverso categorie estetiche ogni alterità nel segno di un ecumenismo divoratore.

Nel tentativo di attualizzare anche solo fugacemente questo itinerario vorrei riprendere un recente intervento pubblicato sul Foreign Policy poi tradotto e recentemente apparso sul supplemento Scenari del quotidiano Domani a cura di Dario Fabbri in cui due ricercatrici, Judy McGlynn e Fiona Greenland, hanno analizzato le recenti campagne di Siria e l’operazione speciale in Ucraina da un’ottica culturale finalizzata alla propaganda russa in un parallelo fra le città di Palmira e Kharchiv. La distruzione operata dallo stato islamico in ottica iconoclasta, amplificata poi dai devastanti bombardamenti siriani e russi, ha totalmente privato dell’organicità artistica il sito archeologico della città siriana, finalizzando la fisica damnatio marmoriae ad un moderno spolium indirizzato al riutilizzo di materiali architettonici e decorativi per nuove strutture dalle valenze propagandistiche spesso con modalità ostensive di recupero del passato e di conservazione della sua memoria (il parallelo tra questa retorica nelle intenzioni se non nel modus operandi e il linguaggio adoperato in passato da certi musei occidentali non è trascurabile): “si possono trarre- scrivono le due studiose- lezioni importanti sull’abilità del governo russo nel dichiararsi salvatore delle stesse culture che ha distrutto (…) in modo tale da aumentare la propria grandezza e sminuire o addirittura nascondere la cultura originaria”. 

Dalle intermittenze mnestiche al recupero organico al lacerto intenzionale, i rapporti fra potere e memoria continuano a fare della simbologia in tutte le sue declinazioni il loro strumento privilegiato.

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