Le armi della critica e la critica delle armi

Autore

Alessandro Picone
nato ad Avellino 25 anni fa, ha conseguito la laurea magistrale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Torino discutendo una tesi in Filosofia della Storia su "Ivan Illich. Un pensatore ai limiti" con relatore Enrico Donaggio. In precedenza aveva conseguito la laurea triennale in Filosofia presso l'Università degli Studi di Firenze con una tesi in Filosofia Teoretica su "L'insondabile profondità: la questione dell'identità personale tra Locke e Leibniz", relatrice Roberta Lanfredini.

«In casa nostra, in questo immenso caseggiato di periferia, un vero falansterio commisto a indistruttibili rovine medioevali, è stato diffuso, stamane, nella gelida nebbia della mattina d’inverno, il seguente comunicato: “A tutti i miei coinquilini. Possiedo cinque fucili-giocattolo. Sono appesi nel mio armadio, uno per ogni gancio. Il primo appartiene a me, per gli altri può presentarsi chiunque. Se si presentano più di quattro persone, coloro che sono in soprannumero dovranno portare i loro fucili personali e depositarli nel mio armadio. È infatti necessaria l’unità d’azione, senza di che non si va avanti. Del resto, i miei fucili sono del tutto inservibili per ogni altro uso, il meccanismo è guasto, il tappo si è staccato, soltanto i cani scattano ancora. Perciò non sarà eventualmente difficile procurarsi altri fucili come i miei. Ma in fondo, per i primi tempi vanno bene anche persone prive di fucile. Noi, che siamo armati, al momento decisivo faremo barriera intorno agli inermi. Un metodo di combattimento che ha fatto buona prova nelle lotte dei primi coloni americani contro i pellirosse, perché non dovrebbe funzionare anche qui, dove la situazione è analoga? Perciò alla lunga si potrebbe persino rinunciare ai fucili e persino i cinque di mia proprietà non sono assolutamente indispensabili, e verranno usati solo perché ormai ci sono. Se voi, però, non volete armarvi degli altri quattro, lasciate pure stare. Vuol dire che ne porterò uno soltanto io, in qualità di capo. Ma noi non dobbiamo avere un capo, e perciò anch’io spezzerò o metterò da parte il mio fucile”. Questo è stato il primo comunicato. Ma nella nostra casa nessuno ha voglia di leggere o, meno che mai, di meditare comunicati. Ben presto quei foglietti nuotavano nel torrente di sporcizia che, scorrendo giù dalla soffitta, alimentato da tutti i corridoi, fluisce giù per le scale, dove lotta con la corrente contraria, che sgorga su dal basso. Ma dopo una settimana uscì un secondo proclama: “Coinquilini! Finora non si è presentato nessuno. In tutte le ore in cui non sono costretto a lavorare per vivere non mi sono mai mosso di casa e durante la mia assenza, in cui lasciavo sempre aperto l’uscio della mia stanza, sul mio tavolo c’era un foglio di carta, dove ciascuno che lo volesse poteva iscrivere il proprio nome. Nessuno l’ha fatto».

            A differenza dell’anonimo proclama del racconto di Franz Kafka (contenuto nei “Quaderni in ottavo”, composti tra il 1917 e il 1919), il “Manifesto” apparso di recente su Krisis Journal, (“Critical Naturalism. A Manifesto”), scritto da Federica Gregoratto, Heikki Ikäheimo, Emmanuel Renault, Italo Testa e Arvi Särkelä, ha subito ricevuto un ampio riscontro nella comunità internazionale. Si tratta di un importante intervento filosofico, accompagnato da una grande performance artistica (“Critical Naturalism” contiene opere di Mara Kirchberg, Onerva Luoma, Marta Pohlmann-Kryszkiewicz e Marina Ruffin), che affronta diversi fenomeni relativi al presente estremo («spillover della natura, spillover delle popolazioni, spillover degli ospedali, spillover dell’ansia climatica»), rimandando esplicitamente alla storia della Teoria Critica della Scuola di Francoforte.

         In un momento in cui l’urgenza della crisi climatica, nel suo legame con lo sviluppo capitalistico delle forze produttive, si fa sempre più pressante, e il disarmo della critica sembra aver ridotto i margini di pensabilità del presente in una prospettiva critica che tenga aperta la possibilità dell’emancipazione, gli autori e le autrici s’impegnano a riscoprire e implementare le potenzialità contenute dalla tradizione da cui ereditano, e che potrebbero consentire di raccogliere la sfida della crisi socio-ecologica come forma ormai dominante della crisi del capitalismo. Opponendosi all’idea – molto diffusa, in particolare all’interno dell’eco-marxismo nordamericano – che la Teoria Critica non sia debitamente attrezzata per fronteggiare la sfida della crisi climatica ed ecologica, che la sua storia e il patrimonio che essa porta con sé la renderebbero mal equipaggiata per analizzare le forme mutevoli e sempre più pericolose di interazione tra società e natura, il Manifesto sostanzia un appello a (e un tentativo di) rivitalizzare quel complesso “spazio d’esperienza” critico per riaprire l’“orizzonte d’aspettativa”, squarciando la cappa d’impotenza radicale che pesa sulla critica sociale per esaminare così le prospettive del proprio avvenire.

           «I naturalisti critici concordano sul fatto che abbiamo bisogno di un inizio radicalmente nuovo. Tuttavia, un inizio radicalmente nuovo non significa sopprimere il passato», recita uno dei “frammenti” che compongono il Manifesto. Questo gesto di rielaborazione creativa di una tradizione critica incarna un modello di creatività distante dalla fede demiurgica della creatio ex nihilo di una forma inedita da imporre unilateralmente alla materia del mondo: un modello di creatività che si configura, piuttosto, come rilievo di contraddizioni, come presa di coscienza di possibilità non ancora attuate, come tentativo di appropriarsi di eredità positive presenti nella storia, come volontà di liberazione di forze che operano nel processo della storia e che in esso tentano di emergere. In altri termini, la produzione del nuovo non è intesa come una scoperta improvvisa o come una creazione dal nulla, ma come una riappropriazione e riattivazione situata di una molteplicità di processi di diversa origine e collocazione, in grado di dar vita alla novità nella ripetizione, alla differenza nella ricombinazione.

            È un salutare – e quantomai urgente – sforzo di rielaborazione delle armi della critica, del loro calibro e della loro portata, che punta, da una parte, a recuperare strumenti che sembravano dati per morti – armi di vecchia fattura, arrugginite quanto si vuole, inoffensive, forse, per un certo tipo di obiettivi, eppure fondamentali per alimentare e perpetuare le esercitazioni di una volta: l’inclemenza dei tempi non le ha ancora ridotte a cimeli da esporre in un museo – e, dall’altra, a rinnovare l’armamentario concettuale, dotando la Teoria Critica di una nuova idea di “natura” e di “naturalismo” che possano funzionare come strumenti concettuali euristici, emancipatori e trasformativi, al fine di articolare un nuovo vocabolario espressivo per l’analisi della crisi multifattoriale che le nostre forme di vita oggi si trovano ad affrontare.

            La tesi che apre il Manifesto imposta subito il campo della discussione, individuando la posta in gioco e i termini: nella misura in cui il concetto di “natura” svolge un ruolo decisivo nelle crisi e nelle catastrofi proprie del nostro tempo, la Teoria Critica, per poter contribuire alla pratica immaginativa, critica e trasformativa, non può cedere alla tentazione diffusa di celebrare la “morte della natura”. Al contrario, risulta sempre più evidente come la natura, quel “fondale statico” delle nostre imprese, sia entrata in scena nel modo più eclatante e dinamico possibile, «in virtù della sua stessa repressione quale cifra della nostra attuale situazione storica». Con questa scelta di campo, il Naturalismo Critico prende le distanze tanto dalla “ontologia del fondale” (quello schema pratico-cognitivo che considera l’umano come unico attore culturale sullo sfondo di una natura concepita come radicale alterità pre-data e in sé sussistente, come deposito infinitamente attingibile e sfruttabile senza riguardi) quanto dall’indifferenzialismo ontologico (la messa in discussione dell’idea di una natura sostanziale che finisce, però, col negare ogni alterità alla natura e, abbandonando ogni riferimento a una natura distinta dal sociale, dissolve il concetto stesso di società).

            Non è un mero gioco di idee ad alta quota, ma un’operazione critica necessaria a ricostruire un’adeguata eziologia delle attuali crisi socio-ecologiche, e dunque a riconoscere ed approntare strumenti all’altezza del problema. Se le relazioni di potere si incarnano in specifici discorsi sulla natura, e viceversa («I concetti e le teorie della natura non sono innocenti. Partecipano alla nascita dei disastri e contribuiscono a perpetuarli»), e i concetti, i discorsi e le teorie della natura possono operare, quando interiorizzati in pratiche e azioni, come “forze materiali” che modellano la storia, le battaglie sui concetti di “natura” e “ambiente” sono più di una mera questione di semantica: sono un’avanguardia del conflitto politico.

            Entro l’ontologia del fondale, la natura assurgeva a sfondo nel quale l’essere umano viveva e recitava il dramma della propria esistenza, nonché a risorsa infinitamente attingibile, discarica infinitamente disponibile, elemento inerme sottomesso al fare umano. Quest’immagine onto-epistemologica di una natura a completa disposizione della conoscenza e dell’azione umana, come oggetto separato e contrapposto, ha giocato un ruolo fondamentale nell’affermarsi del modo di produzione capitalistico. Il capitalismo, infatti, si fonda su tale violenta astrazione e può affermarsi soltanto a partire da una pratica di costruzione del rapporto al mondo mediante la determinazione di una “natura” come oggetto esterno e come elemento speculare di una “società” che si rappresenta il soggetto che se ne appropria in quanto “eccezione ontologica”. Oggi il mondo non sembra più essere a nostra disposizione, sia nel senso di un “oggetto” da manipolare e di cui servirsi, sia come lo sfondo della nostra avventura esistenziale e, insieme all’ontologia del fondale, cade anche l’idea che tutto ciò che è sia in funzione dell’umano, della sua gestione, della sua creazione: la visione del mondo come di un oggetto correlato a un soggetto “legislatore della natura”.

            Eppure, se da una parte la scissione soggetto-umanità versus oggetto-natura va decostruita, per mostrare come l’isolamento della componente “umanità” si rivela un’impossibilità ontologica, dall’altra è altrettanto necessario smontare quella che Fréderic Neyrat chiama “la demenza dell’interconnessione generalizzata” o delle “fusioni mostruose”: una rinuncia assoluta a ogni riferimento a una natura distinta che dissolve il concetto di natura in quello di società, privando così l’analisi critica di ogni mezzo concettuale per localizzare una forma di responsabilità sociale alle crisi ecologiche e, pertanto, le forme sociali che sarebbe possibile trasformare. Piuttosto che un rifiuto dell’idea di natura, è un diverso approccio alla natura che andrebbe perseguito: né pura, selvaggia o vergine, né frutto della speculazione intellettuale e dunque nulla in sé, perciò rifacibile in funzione del pensiero stesso, né soggetto assoluto né oggetto limitato.

            Il Manifesto articola una riflessione sulla fabbrica umana della natura e sulla fabbrica naturale delle società, su una società strutturata dalla natura e una natura strutturata dal sociale. Una proposta di pensare le nature attraversate dal sociale, ossia da una moltitudine di interventi socio-tecnologici storicamente situati, e le società attraversate dalla natura. Lungi dall’essere un mero sfondo, l’ambiente attraversa il sociale e la storia delle società, delle culture e delle strutture socio-politiche non può ignorare i flussi di materia, energia e informazione che le percorrono come la trama di un tessuto. È impossibile non considerare che le relazioni “sociali” sono gremite di processi biofisici e che i vari flussi di materia ed energia che attraversano il sistema Terra a diversi livelli sono polarizzati da attività umane socialmente strutturate, per cui le concezioni socio-centriche di autonomia, azione, libertà e riflessività che avrebbero sorretto la modernità dal XIX secolo ad oggi chiedono di essere ripensate radicalmente. Non si può più prescindere dall’analisi delle basi naturali dei nostri concetti di libertà e di emancipazione: la Teoria Critica richiama una nuova nozione di libertà e di un nuovo ideale di emancipazione. Se la libertà è stata a lungo definita, con orgoglio, come la capacità dell’umano di resistere e opporsi alle forze e al fatalismo della natura, occorrerebbe ridefinirla come una forma di responsabilità planetaria collettiva, una eco-giustizia multispecie che contempli maggiore cautela, previdenza e responsabilità in chiave e sincronica e diacronica. Piuttosto che perseguire una concezione della libertà come libertà dalla natura, affrancamento, sradicamento, liberazione dai vincoli naturali – un paradigma che indirizza l’emancipazione umana contro la natura –, sarebbe opportuno esplorare ciò che vi può essere di infinitamente arricchente ed emancipante in quei legami che uniscono agli altri esseri su una Terra finita.

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