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Cecità

Autore

Lavinia Mainardi
Laureata in filosofia con una tesi in estetica nell'anno 1994 presso l'Università degli studi di Bologna, Lavinia è una curiosa, ambientalista, studiosa di estetica e di filosofia del paesaggio, semiotica, iconologia, iconografia e visual studies

Affrontare l’argomento cecità attraverso una ricognizione sullo statuto delle immagini, sembra quasi paradossale, quanto meno un ossimoro. Eppure è nella dialettica dello sguardo che, osservando il mondo,  vede o non-vede, che si può comprendere la reale valenza euristica insita nella visione e quindi la portata anche metaforica o meglio esistenziale della sua privazione. Nel quadro La parabola dei ciechi, conservato nella Collezione Farnese del Museo di Capodimonte, dipinto da Bruegel nel 1568, l’iconografia neotestamentaria  («Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti due cadranno in un fosso» Mt 15,14 ) pone realisticamente in evidenza – attraverso la raffigurazione di una corporeità menomata, appesantita, non integrata in un paesaggio che diviene estraneo e quasi ostile –  la connessione fra cecità fisica e cecità etica, quasi che la privazione riguardi un vedere piú profondo in una punizione per un’indifferenza spirituale che tuttavia non può prescindere dalla concretezza della privazione di connessione fra soggetto, i sei ciechi, e la realtà che li circonda di cui non hanno una cartografia mentale e quindi un orientamento morale. Ma non possiamo parlare di cecità prescindendo dallo statuto delle immagini. Ci rapportiamo all’esistente intorno a noi attraverso la sensorialità con più gradi di consapevolezza: quanto ciò sia connaturato oppure sia il risultato di una costruzione culturale è difficile da accertare. Indubbiamente esiste un fil-rouge che collega le teorie gnoseologiche di matrice sensista, nate come reazione ai grandi sistemi metafisici, alle dottrine associazioniste ed empiriste che, attraverso la temperie materialista presente nel tardo Settecento in certe frange della cultura italiana e francese, conducono al positivismo e quindi alle concezioni epistemologiche di cui è nutrito l’attuale antropocentrismo. L’oggettività dimostrativa sottoponibile a continua verifica che caratterizza il paradigma scientifico associa fisiologia e neuro cognitivismo per spiegare i processi attraverso cui trasformiamo il percepito in contenuto. Antonio Damasio in Sentire e conoscere descrive con magistrale sintesi quello che ci accade nel meccanismo della visione. Scrive «Di certo abbiamo una mente popolata di rappresentazioni sensoriali, configurazioni denominate immagini» e aggiunge «gli schemi di attività neurale corrispondenti all’ambiente esterno sono costituiti dagli organi di senso […] (che) collaborano con il sistema nervoso centrale […] le cortecce cerebrali ricevono e organizzano i segnali percettivi […] il risultato di questo arrangiamento è la costruzione di mappe degli oggetti e dei loro territori […] le mappe sono la base delle immagini che esperiamo nella mente». 

Tale approccio neurofisiologico sta – nel recente dibattito –  influenzando molte altre discipline anche apparentemente distanti. Basti pensare allo statuto dell’estetica che da storia dell’arte,  anche in relazione al crescente sviluppo tecnologico e alla sua socializzazione massmediologica, sta vivendo quello che W.J.T. Mitchell chiama Pictorial turn vale a dire la sua trasformazione in Visual studies. Scrive Michele Cometa           «Il Pictorial turn nell’ottica di Mitchell non è solamente un fenomeno scientifico, una nuova prospettiva accademica su vecchie questioni, ma un fatto ineludibile della contemporaneità che ci impone lo sviluppo consapevole di una nuova visual literacy. Oggi assistiamo a un pictorial turn non nei discorsi accademici, ma nella consapevolezza diffusa delle immagini nelle società in cui viviamo […] un momento di addensamento culturale e sociale che scaturisce da un nuovo rapporto tra l’uomo e l’immagine […] per Mitchell profondamente condizionato (e trasformato) dalle nuove tecnologie dell’immagine». 

La preminenza del senso della vista quindi nel presente occidentale è tale che –  se dobbiamo pensarci privi di tale facoltà –  possiamo farlo solo attraverso una narrazione distopica. In Cecitá che Josė Saramago ha  pubblicato nel 1995 si narra di come, in un anonimo tempo non troppo distante vissuto da anonimi personaggi, una pandemia di cecità, un improvviso e contagiosissimo biancore che si sostituisce alla visione, possa far emergere il lato più atrocemente crudele della convivenza, in dinamiche che – in un climax inarrestabile –  portano l’unica non contagiata –  la moglie dell’oculista attorno al cui studio si addensa il primo nucleo di malati poi internati in un ex manicomio – di provare ancora empatia per la sorte di persone sempre più disumanizzate, a dire «non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che pur vedendo non vedono». In un suo intervento Saramago spiega «ho tentato di entrare all’interno della statua e di vedere la pietra, quella pietra che sa di essere tale ma non dì essere statua. In Cecità l’allegoria prende nuova vita: l’incapacità di vedere significa che la vera immagine dell’ inferno è proprio il mondo in cui viviamo. Oggi – continua lo scrittore portoghese – la vera funzione del romanzo non è più solo quella descrittiva, quanto soprattutto quella riflessiva: a poco a poco il romanzo dovrà aprirsi alla filosofia e alla scienza», legittimando con questa dichiarazione di poetica l’impasse verbale a favore di una comprensione altra «l’elemento narrato non si identifica più in ciò che è ma in ciò che significa. L’allegoria ha potuto sostituire – conclude  Saramago – un modo di comunicare liso e privo di mordente […] qui l’allegoria è duplice, perché si fonda sull’uso che della caverna ha fatto Platone».

Eccoci tornati alle origini a quella grecità da cui la nostra civiltà non può prescindere e l’entrata del  mito della caverna, dell’indifferenza della πόλις malata, legata alla cecità, non può affrancarsi dall’Edipo sofocleo. Nell’Edipo re si palesa infatti tutto il paradosso di una società che punendo l’atto di hybris con l’autoaccecamento (Edipo) riveste la cecità come in una sorta di compensazione di uno statuto profetico (Tiresia).

James Hillman nel suo Edipo rivisitato legge il mito di Edipo in chiave psicanalitica. «La cecità è il prerequisito del metodo edipico nella psicologia del profondo, giacché è con essa che si inaugura l’esplorazione di sé. Noi cominciamo nel buio, incapaci di vedere cosa fare – scrive – che strada prendere, come a un crocevia. Andiamo in cerca di una luce che illumini i problemi, di una visione che ci faccia entrare nelle nostre nature. Vogliamo vedere chiaramente cosa ci sia di sbagliato e liberare i nostri stati d’anima dalla sterilità e dall’inaridimento e così scoprire cosa veramente siamo. Ci volgiamo ai sogni come a guide gnomiche e ricomponiamo il puzzle pezzo dopo pezzo. Sì, per essere in analisi dobbiamo essere ciechi. E questa cecità è ciò che oggi chiamiamo l’inconscio […] Il linguaggio di luce, visione e occhi pervade tutta la tragedia […] Edipo alla fine è cieco materialmente perché è cieco psichicamente all’inizio. L’accecamento di Edipo alla fine è tuttavia l’esito del suo modo di procedere -seguire le tracce, interrogare, cercare la verità su se stessi, discopriemnto di sé. Il “Conosci te stesso” equivale qui alla cecità: quando, seguendo il metodo edipico, finalmente vengo a sapere chi sono, il risultato è l’accecamento, la cecità».

Dobbiamo imparare quindi  ad essere ciechi dunque per raggiungere una piena visione per ricondurre alle immagini il loro statuto euristico e salvifico. 

E se dal mito, collettivo condiviso metastorico, Hillman ci ha condotti all’analisi, così privata intima ed individuale, il sociologo Zygmunt Bauman, in una riflessione erratica in forma di dialogo con il filosofo lituano Leonidas Donskis, connotata dall’eclettismo metodologico, dalle plurime influenze – fra le più importanti Gramsci, Simmel, Arendt e Lévinas – e dalla consapevolezza di un presente profondamente modificato dal dominio globalizzante della tecnologia, ci riporta alla dimensione politica della visione.          In Cecità morale. La perdita della sensibilità nella modernità liquida leggiamo: «[…] crediamo che il male sia sempre da qualche altra parte. Anziché essere dentro di noi, siamo convinti che se ne stia nascosto altrove […]». Nel definire le nuove forme di ottundimento sensoriale e quindi etico «ecco una lista dei nostri nuovi blocchi mentali […] L’oblio intenzionale verso l’Altro, il deliberato rifiuto di vedere e riconoscere un essere umano diverso da noi, l’emarginazione di una persona viva, reale […] per fabbricarci un amico Facebook lontano, magari addirittura in un’altra realtà semiotica». Continuano i due autori: «La cecità morale – scelta autoimposta o fatalisticamente accettata – di un’epoca che ha soprattutto bisogno di prontezza e lucidità di comprensione e sentimenti. Per riconquistare la nostra sensibilità in questi tempi oscuri occorre riscoprire la dignità, e la sostanziale inconoscibilità dell’essere umano […] Privare gli uomini del loro volto operare quindi un atto-accemento per indifferenza e della loro individualità è una forma di male». Privarci della nostra capacità di distinguere attraverso la corporeità dei sensi negare le immagini è quindi un atto di tracotanza da punire per esperire – nell’assenza – la reale portata del nostro sguardo.

In questo labirintico percorso abbiamo incontrato dunque varie e diverse forme di cecità: l’incapacità fisiologica o psichica di connettersi ad una realtà dominata dall’immagine, anche nella sua implementazione tecnologica, il suo statuto mitico punitivo prima nei confronti di un eccesso conoscitivo trasfigurato poi quando la hybris sia ritenuta involontaria in capacità di leggere le trame segrete dell’esistente  attraverso un dono profetico o poetico, la cecità come disconnessione dalla dimensione collettiva sociale e quindi etica della realtà e la cecità privata di chi inizia a scendere in profondità dentro di sé privo di riferimenti, la cecità subita e quella autoinflitta.A compimento di queste esperienze apparentemente tanto lontane vorrei ricordare l’autobiografia  raccontata in un piccolo quanto denso racconto di uno dei piú eccentrici e importanti scrittori del  Novecento capace di assurgere la sua malattia e la seguente riabilitazione in metafora di un accrescimento della coscienza e dell’immaginazione: Aldous Huxley. Attraverso il metodo Bates, ci racconta in L’arte di vedere, metodo in realtà privo di fondamento scientifico già in quegli anni controverso e discusso, Huxley riuscì a guarire da una quasi totale perdita di vista che lo colpì in gioventù. Scrive: «Dacché l‘oftalmologia è diventata una scienza, i suoi specialisti si sono esclusivamente preoccupati di un solo aspetto del complesso processo visivo: l’aspettò fisiologico. Hanno concentrato la loro attenzione esclusivamente sugli occhi e null’affatto sulla mente che si serve degli occhi per vedere». Solo la consapevolezza di un’armonia con ciò che percepiamo e l’uso consapevole di tutte le nostre potenzialità potranno quindi  restituirci la visione di quel “mondo immenso”, per dirla con Ed Yong, che ci circonda.

1 commento

  1. Piacevolissimo articolo intriso di agganci collegamenti, ramificazioni dialettiche che interessano le nostre menti ad aprirsi verso varie interpretazioni per una visione non solo oculare

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