Saper dire «no». Don Milani, la legalità e la virtù della disobbedienza civile.

Autore

Rosario Iaccarino
Rosario Iaccarino, nato a Napoli nel 1960, dal 1982 al 1987 ha lavorato come operaio presso la SIRAM, assumendo l’incarico di delegato sindacale della Fim Cisl; nel 1987 è entrato a far parte dello staff della Fim Cisl nazionale, prima come Responsabile dell’Ufficio Stampa e dal 2003 come Responsabile della Formazione sindacale. Cura i rapporti con le Università e con l’Associazionismo culturale e sociale con i quali la Fim Cisl è partner nei diversi progetti. Giornalista pubblicista dal 1990. È direttore responsabile della rivista Appunti di cultura e politica. E’ componente del Comitato Direttivo e del Comitato Scientifico dell’Associazione NExT (Nuova Economia per Tutti).

Forse oggi l’obiettivo principale 

non è di scoprire che cosa siamo, 

ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. 

Dobbiamo immaginare e costruire 

ciò che potremmo diventare

Michel Foucault

Stiamo entrando in società di controllo 

che non funzionano 

più sul principio dell’internamento, 

bensì su quello del controllo continuo 

e della comunicazione istantanea

Gilles Deleuze

Se voi avete il diritto di dividere 

il mondo in italiani e stranieri, 

allora io dirò che, nel vostro senso, 

io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere 

il mondo in diseredati e oppressi da un lato, 

privilegiati e oppressori dall’altro. 

Gli uni son la mia Patria, 

gli altri i miei stranieri

Lorenzo Milani

Quando si parla di legalità, spesso non si sa a cosa si faccia riferimento, soprattutto quando si riduce il concetto a mero rispetto delle leggi definite dal parlamento e delle regole scritte dalle istituzioni. Quella dell’applicazione delle norme è certamente una funzione civile e politica essenziale ma se, da un lato, consente di sanzionare, giustamente, quei comportamenti fuori dalle regole condivise, dall’altro, impoverisce radicalmente uno dei cardini politici e civici della cittadinanza attiva e della convivenza civile. 

La legalità come traduzione giuridica della giustizia

Il giurista Alfredo Carlo Moro scrive in merito che la legalità è connaturale alla stessa costituzione sociale, in quanto evoca «un diritto che non sia puro fatto – e cioè ossequio formale ad una norma imposta da chi ha potere – ma [che] sia traduzione giuridica dell’idea di giustizia (jus quia justum) e cioè capacità di dare a ciascuno quanto gli spetta perché possa svilupparsi» [A. C. Moro, Legalità, in Dizionario delle idee politiche, Editrice Ave, 1993]. 

Il nostro paese è ben lontano dalla piena affermazione di tale diritto e da una concezione della legalità come l’ha intesa la nostra Costituzione; anzi si trova a fare i conti con una cultura diffusa che infrange i principi basilari di convivenza civile presidiati dalle norme, allo scopo per qualcuno di ottenere un vantaggio personale o di gruppo. Oltre ai fenomeni «macro» di lesione della legalità, quali sono le organizzazioni mafiose e le associazioni criminali in generale, oppure l’evasione fiscale, enorme e cronico problema politico italiano, si può osservare, nel «micro», l’esistenza di una cinica cesura tra la diffusa retorica sul rispetto delle leggi e i comportamenti individuali, familiari e di gruppo, che – questione spesso sottovalutata – violando la legalità inficiano anche l’uguaglianza sostanziale dei cittadini di fronte alla legge e ai percorsi di accesso alla cittadinanza. 

Di «routinizzazione dell’illegalità» parlava alcuni anni orsono una interessante ricerca dell’Università della Calabria, un fenomeno che finisce per deresponsabilizzare le persone e, paradossalmente, delegittimare i comportamenti rispettosi della legalità. La politica –  senza voler minimizzare la responsabilità individuale – ha giocato un potente ruolo in questa deriva, se, come afferma la ricerca, si parte dal presupposto che «i processi di privatizzazione del potere, di economizzazione della politica, di aziendalizzazione della pubblica amministrazione negli ultimi anni abbiano amplificato le spinte alla ricerca di protezioni di ogni natura, ai confini della legalità ed anche oltre, in un quadro di riduzione delle risorse materiali e simboliche della politica, di crisi fiscale dello Stato, di rilegittimazione delle disuguaglianze» [A. Costabile, P. Fantozzi (a cura di), Legalità in crisi. Il rispetto delle regole in politica e in economia, Carocci, 2012]. 

Contro l’abuso del potere politico e la violenza dello Stato

Insieme alla condizione decisiva per il vivere civile e per la coesione sociale che deriva dall’osservanza delle leggi da parte dei cittadini, la legalità è fondata anche sul pilastro, altrettanto determinante per la qualità della vita democratica di un paese, della disobbedienza civile e dell’opposizione alle leggi ingiuste, che chiamano in causa l’etica e la coscienza individuale. Parliamo di quella capacità/prerogativa dei cittadini di «dire no» di fronte all’abuso del potere politico e alla violenza dello Stato. Tale principio era già stato affermato, nel 1793, dalla Costituzione giacobina francese che all’art.35 recita: «Quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri». Un principio particolarmente sensibile nel caso delle dittature. Pensiamo ai docenti universitari che si rifiutarono di giurare devozione al regime fascista e che pagarono quella scelta con la perdita della cattedra e con azioni ostili nei loro confronti. Ma anche, al rovescio, alla scarsa opposizione che ricevettero in Italia le leggi razziali antisemite varate nel 1938 dal regime nazi-fascista di Benito Mussolini. In queste situazioni, ricorda Alfredo Carlo Moro, si impone attraverso il terrore «un’adesione totale della coscienza del suddito alla legge e cioè in sostanza l’alienazione della coscienza individuale di fronte alla legge»; quindi – conclude Moro –  siamo di fronte  «non al massimo della legalità ma alla scomparsa totale dell’autentica legalità» [A.C.Moro, Legalità, op.cit.]. 

Tantissime sono le testimonianze di disobbedienza civile nei confronti di leggi ingiuste e di regimi totalitari, con tutte le conseguenze del caso. Da Antigone a Ghandi, a Martin Luther King, a Nelson Mandela, alle Suffragette a Rosa Parks, a don Lorenzo Milani a Jan Palach, ai giovani di Tienanmen, e a tante altre e altri, la lista è lunga, e non riguarda solo fatti avvenuti sotto i regimi dittatoriali, ma anche in alcune democrazie. Anzi, nei regimi democratici, di fronte al costituirsi di maggioranze parlamentari consistenti, anche trasversali, magari con connotazioni ideologiche o confessionali, soprattutto sui temi detti «eticamente sensibili», il rischio che vengano promulgare leggi autoritarie, sicuritarie, è molto alto. 

Ma non tutto ciò che prescrive la legge coincide con le concezioni morali e i principi individuali, e ciò può dar luogo a scelte di disobbedienza civile, la quale, come afferma il filosofo John Rawls, deve tuttavia avere determinate caratteristiche e forme, e cioè diventare «un atto pubblico, non violento, coscienzioso e comunque politico che viola la legge e di solito mira a ottenere un cambiamento nella legge o nella politica del governo». 

L’obbedienza non è più una virtù: il processo a don Lorenzo Milani

Un caso esemplare del rapporto conflittuale tra coscienza e obbedienza, tra legge e disobbedienza civile, fu la presa di posizione di don Lorenzo Milani a difesa dell’obiezione di coscienza al servizio militare. Don Milani, nel 1965, scrisse una Lettera ai Cappellani militari in risposta a un Ordine del giorno della loro sezione toscana nel quale la decisione di alcuni giovani di fare obiezione di coscienza al servizio militare – e costretti per questo in carcere – veniva bollata come «espressione di viltà». Un gruppo di ex combattenti denunciò don Milani alla Procura della Repubblica di Firenze, anch’essi, sulla scia del testo dei Cappellani militari, considerando l’obiezione di coscienza un insulto ai Caduti in guerra e alla Patria. A loro avviso le tesi del Priore di Barbiana «esprimono nel loro complesso una radicale condanna di un secolo di storia italiana […] La malafede dell’estensore, il preciso obiettivo di gettare fango su quella che è stata la passione, la volontà, il sacrificio di un popolo che voleva da schiavo risorgere ad unità, e di ingiuriare l’Esercito Italiano, che di tale storia è stato il meraviglioso protagonista, balzano più che evidenti da tutto il suo scritto, e la sua interpretazione degli eventi storici appare completamente falsa». 

Nel volume «L’obbedienza non più una virtù» [Documenti del Processo di don Milani, LEF, 1978], sono state raccolte le lettere di don Lorenzo ai Cappellani militari e ai Giudici, oltre agli Atti del processo che lo vide assolto in primo grado nel 1966 e condannato in Appello, nel 1968, un anno dopo la sua morte. 

Malato grave da alcuni anni, il Priore di Barbiana non riuscì ad essere presente fisicamente nell’aula giudiziaria al processo che lo vedeva come imputato, e per questa ragione scrisse la sua autodifesa nella «Lettera ai Giudici». Don Lorenzo intese loro spiegare soprattutto che non sarebbe stato possibile, in coerenza con il percorso educativo che portava avanti con i suoi ragazzi, non reagire a quell’ingiustizia, sia come un atto che ha valore in sè, su un tema assai scottante e sensibile al dettato costituzionale, ma soprattutto come espressione di una matura coscienza politica che impone al cittadino di «sentirsi responsabile di tutto». Questa peraltro è anche la ragione  – ricorda don Milani ai Giudici – per cui a Barbiana viene adottato il motto «I care» – mi interessa, mi sta a cuore – in opposizione a quello fascista e qualunquista che recita «me ne frego». 

La scuola come anticorpo al conformismo

La scuola non è un’aula di tribunale, si legge nel testo di autodifesa scritto da don Milani; perciò se da un lato essa concorre con i giudici, che sono i custodi della legge, a educare alla legalità, dall’altro deve occuparsi anche di costruire una cultura e una coscienza politica, affinchè i ragazzi si impegnino a migliorare le leggi ingiuste e quindi la vita democratica del paese. La scuola fa bene il suo mestiere – in quest’ottica pedagogica – se è capace di combattere il conformismo, ossia esercitando «il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dice». In qualità di maestro che fa crescere i giovani con un pensiero critico e come «sovrani» sulla loro vita, don Milani suggerisce ai suoi ragazzi – e ne dà conto nella Lettera ai Giudici – di considerare giuste quelle leggi che danno forza al debole e ingiuste quelle che sostengono il sopruso del più forte, nel qual caso, egli afferma, «essi dovranno battersi perché siano cambiate». 

E insieme al voto e allo sciopero, alla parola e all’esempio, la condizione del cambiamento è quella di «pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede […] Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri». Con un linguaggio radicalmente laico, don Lorenzo Milani propone di applicare una tecnica di amore costruttivo non per scardinare l’ordinamento legislativo vigente ma per migliorarlo. La legalità, per il Priore di Barbiana, deve fare rima con giustizia e responsabilità, affinché si realizzi quell’uguaglianza degli individui davanti alla legge prescritta dall’art.3 della nostra Costituzione – che tanto gli stava a cuore – e che afferma: «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», e che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Ernesto Balducci, anch’egli due anni prima di don Milani processato per aver difeso il primo obiettore di coscienza cattolico, Giuseppe Gozzini, sottolinea in un suo scritto che tali prese di posizioni coraggiose potevano maturare solo all’interno di un processo educativo capace di liberare i ragazzi da ogni sudditanza ideologica e religiosa e di generare fiducia nella potenza creativa della coscienza [Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani, M. Gennari (a cura di), Editori Laterza, Economica, 2002]. In questo senso, «la difesa clamorosa che la scuola di Barbiana fece della obiezione di coscienza non partiva dall’ottica, non di rado individualistica, degli obiettori, ma dalla riverenza per gli imperativi morali che sono pregni di un futuro diverso, sono il luogo sorgivo del cambiamento della storia» [Idem, pag.70].

La zona grigia e la fabbrica dell’obbedienza viatico alla società disciplinare 

Se fosse ancora tra noi, don Lorenzo Milani farebbe sentire certamente ancora più forte la sua voce di fronte al fallimento dello Stato e della politica italiana, soprattutto quella di sinistra, nell’avere totalmente disatteso l’art. 3 della Costituzione, vista l’impennata che fa registrare oggi la disuguaglianza sociale nel nostro paese. Per non dire – ma le cose vanno di pari passo – dell’eclissi sul piano fiscale del principio costituzionale della progressività, oggi attaccato esplicitamente dal governo Meloni con la scelta di adottare la cosiddetta flat tax, la tassa piatta.Quando è una servitù, l’obbedienza non è più una virtù, affermava don Lorenzo Milani. L’obbedienza, una virtù forse non lo è mai stata, e non potrebbe esserlo, a maggior ragione, oggi, in un contesto condizionato fortemente dal paternalismo della politica e di buona parte dei mass-media, nelle cui fila oggi allignano coloro che don Milani avrebbe chiamato, anche in questo tempo, in maniera sprezzante, «i teorici dell’obbedienza». Come avevano lucidamente previsto intellettuali come Michel Foucault e Gilles Deleuze, il piano inclinato del conformismo, alimentato dal capitalismo oggi detto della sorveglianza, avrebbe favorito in maniera silente ma inesorabile l’approdo alla società disciplinare e del controllo, nella quale siamo dentro ormai fino al collo. E ciò grazie anche al terreno fertile che rappresenta quella «zona grigia dai confini mal definiti», denunciata a suo tempo da Primo Levi, che «insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi». Ovvero da quella «fabbrica dell’obbedienza», come l’ha chiamata lo scrittore napoletano Ermanno Rea, che nel nostro paese – ahinoi – ha una radice culturale profonda e perciò una produttività elevatissima.

2 Commenti

  1. Bellissimo articolo che ha suscitato in me questa domanda:
    Come rilanciare e rincarnare oggi l’impegno alla responsabilità che intrinsecamente richiede sacrificio in prima persona e contemporaneamente soddisfare il desiderio di felicità e leggerezza che non mette il “noi” al primo posto? È un’impresa ardua in un mondo dove il malessere individuale spinge ad un ritorno sul sė, alla riflessione per costruire oasi di serenità compatibili con l’esistente

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