Se l’uomo vuole continuare a vivere, deve smettere di pensare. Spunti chestertoniani per una riflessione sulla follia dell’io postmoderno

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

Pur ammiccando idealmente alle compassate conclusioni del Discorso sulla causalità psichica di
Jacques Lacan (opera in cui la follia è presentata come una scelta etica dell’individuo caratterizzata dal rifiuto del limite e dalla sua rinuncia a stipulare con l’alterità qualsivoglia patto simbolico¹), le righe di quest’articolo non ambiscono ad offrire una teoria compiuta della psicosi e a trattare di forclusioni o deliri, né a descrivere l’ordine degli equilibri che legano l’Io, l’Es e il Super-Io; segnalandosi per una cadenza smaccatamente provocatoria, esse mirano piuttosto ad accostare le prime pagine del capolavoro di Gilbert K. Chesterton Ortodossia (1908) per delineare la fisionomia di quella particolare tipologia di follia che colpisce l’uomo contemporaneo e che – manifestandosi più come una forma di alienazione esistenziale che psicologica – gli impedisce tanto di stupirsi delle cose quanto di abitare il reale in maniera serena².
Composto per replicare ai pungenti attacchi ricevuti con la pubblicazione del suo Eretici (1905), Ortodossia rappresenta l’esercizio stilistico e contenutistico più luminoso dell’arguto polemista inglese e, insieme, il suo saggio più importante³. Nonostante sia stato steso più di cento anni fa, il libro è assai attuale: pur presentandosi come una sorta di autobiografia filosofica e culturale, tale scritto ci offre un vivido spaccato del mondo in cui viviamo. Un mondo in cui, per l’individuo disorientato e privo di obiettivi – figlio di un pensiero in fuga tra sentieri interrotti, senza valori universali ai quali ispirarsi – quanto esiste rappresenta una minaccia più che un’opportunità; un mondo, ancora, nel quale l’umanità sembra costretta a ricorrere a continui cambi d’identità che le permettano di mostrarsi sulla scena dell’immagine in modo via via diverso e commercialmente attraente; un mondo, di nuovo, in cui le sole prospettive ermeneutiche plausibili paiono essere quelle del relativismo (che proclama “A ciascuno la sua verità”) e dello storicismo (il quale afferma “La verità muta col tempo”). Sirene capziose, osserva Fabrice Hadjadj, che, pretendendo di far spazio alla varietà della terra, di fatto la dissolvono in tanti frammenti intercambiabili: mentre infatti il relativismo, con il pretesto della massima tolleranza, conduce alla manipolazione e quindi alla disperazione (se tutto s’equivale, logicamente niente vale, giacché il valore presuppone una gerarchia), lo storicismo, sotto la bandiera di un’acuta difesa del tempo, sfocia nella perdita della storia e della memoria⁴.

Ebbene, non potendo qui affrontare Ortodossia in tutto il suo sviluppo, vogliamo dar seguito a
quanto ci siamo proposti in apertura, prendendo brevemente in esame il secondo e terzo capitolo dell’opera intitolati rispettivamente Il pazzo e Il suicidio del pensiero. Essi trattano del tema oggetto del nostro interesse: ci insegnano, nella fattispecie, come l’uomo contemporaneo possa dirsi folle fondamentalmente a causa della sua rinuncia a riflettere rettamente e ci rivelano come la ragione della crisi che lo attanaglia sia strutturalmente correlata alla crisi della sua ragione.

Ora, se dovessimo chiarire in che senso oggi la ragione si possa dire in crisi e fosse necessario
descrivere per sommi capi la fenomenologia della disfunzione intellettuale di cui tanti nostri
contemporanei soffrono, su cosa dovremmo concentrarci? Sulla scorta di Chesterton, risponderei a
quest’interrogativo soffermandomi su tre punti. Pare che la follia dell’uomo postmoderno a cui ci stiamo riferendo si leghi, anzitutto – più che ad un ricorso spregiudicato all’immaginazione – ad un utilizzo improprio della ragione stessa.

«Se diamo un’occhiata alla filosofia della sanità mentale – nota lo scrittore britannico – la prima cosa da fare riguardo a questo tema è sgomberare il campo da un grande, comune errore. Esiste una tesi condivisa secondo la quale l’immaginazione, e in particolar modo l’immaginazione mistica, sia pericolosa per l’equilibrio mentale dell’uomo. Generalmente si parla dei poeti come di persone psicologicamente inaffidabili; e in genere c’è una vaga associazione di idee tra l’avere una corona di alloro sui capelli e l’infilarcisi delle pagliuzze. I fatti e la storia confutano fermamente questo modo di vedere le cose. La maggior parte dei veri grandi poeti non solo era sana di mente, ma era anche estremamente pragmatica; e se Shakespeare possedeva davvero dei cavalli era perché si trattava dell’uomo più affidabile per custodirli. L’immaginazione non genera pazzia. Ciò che genera la pazzia è proprio la ragione. I poeti non diventano dei pazzi, ma i giocatori di scacchi sì. I matematici diventano dei pazzi, e i cassieri lo stesso, ma gli artisti creativi assai raramente. Non sto in nessun modo attaccando la logica: dico solo che questo pericolo è insito nella logica, non nell’immaginazione»⁵.

Tale improprio utilizzo della ragione sembra fondamentalmente congiunto ad un errato approccio al reale e alla sua vera conoscenza, la quale non viene concepita dal pazzo come l’adeguazione
dell’intelletto e delle cose
ma come uno stoccaggio coatto di ciò che esiste nella sua testa. I partigiani di tale folle prospettiva sono coloro che, considerandosi dei risvegliati rispetto al supposto sonno dogmatico dei realisti, ritengono di dover mettere tra parentesi il mondo dell’essere per rinchiudersi nell’angusto bozzolo della soggettività – trascendentale o singolare che sia – inquadrando la verità come una proprietà dell’Erkennen, cioè del conoscere, più che come una prerogativa del Denken, ossia del pensare. Il fatto che gli oggetti della conoscenza siano ciò che sono in seguito alla plasmazione operata dagli a priori dell’io fa sì che per tale tipologia di folli la verità venga costituendosi come il frutto interiore dell’attività soggettiva⁶: peccato che, tentando di spingere i cieli dentro la propria testa, costoro finiscano per spaccarsela⁷.


Seguendo Chesterton, pare che – in seconda battuta – l’uomo contemporaneo precipiti nella follia
quando consideri la sua ragione in modo riduzionistico ovvero come incapace di cogliere le radici
razionali del reale e di ragionare procedendo da esse.

«Potremmo dire – leggiamo in Ortodossia – che pazzia sia una ragione usata senza radici, un ragionare a vuoto. L’uomo che inizia a pensare senza i giusti principi fondamentali diventa matto; comincia a pensare dal verso sbagliato»⁸.

Questo non significa naturalmente che il folle non abbia una sua logica: ne ha una tutta sua, e molto stringente, che tuttavia lo porta a ritenere reali cose che son solo apparenti:

«Se esistono azioni umane di cui si possa dire che sono senza causa, queste sono le azioni di poco conto compiute dall’uomo sano di mente; fischiettare camminando, dare colpi all’erba con un bastone, battere il piede o sfregarsi le mani. È l’uomo felice a fare le cose inutili; l’uomo malato non è abbastanza forte per essere inattivo. Sono precisamente queste azioni incuranti e senza causa che il pazzo non potrebbe mai comprendere; perché il pazzo (come il determinista) generalmente vede troppe ragioni dietro ogni cosa. Il pazzo coglierebbe, in quelle attività vuote, un significato cospiratorio. Penserebbe che il tagliare l’erba sia un attacco alla proprietà privata. Penserebbe che battere il piede sia un segnale a un complice. Se il pazzo dovesse per un istante diventare indifferente, diventerebbe sano di mente. Chiunque abbia avuto la sfortuna di parlare con persone nel pieno o sull’orlo di un disordine mentale sa che la loro caratteristica più sinistra è la terribile chiarezza con cui riconoscono i dettagli, il modo in cui riescono collegare una cosa con un’altra in una mappa più elaborata di un labirinto. Se vi mettete a discutere con un pazzo, è estremamente probabile che avrete la peggio, perché la sua mente si muove più velocemente, in quanto non è rallentata dalle cose che fanno da contorno all’assennatezza. Non è ostacolato dal senso dell’umorismo né dalla carità, o dalle mute certezze dell’esperienza. Egli è tanto più logico in quanto ha perso certi sani riguardi. In effetti, la frase con cui si indica comunemente la pazzia è, in questo caso, fuorviante. Il pazzo non è l’uomo che ha perso la ragione. Il pazzo è l’uomo che [in un certo qual modo] ha perso tutto tranne la ragione»⁹.

Da ultimo, sembra plausibile dire che l’uomo contemporaneo precipiti inevitabilmente nella follia
qualora soffra di un’umiltà che Chesterton definisce fuori posto e che lo porta a considerare il suo intelletto incapax veri: in preda a questo stato di cose, il soggetto ritiene che tutto possa essere passibile di dubbio, fuorché – naturalmente – il corpus delle sue opinioni.

«La modestia negli ultimi tempi ha abbandonato l’organo dell’ambizione e si è insediata nell’organo della convinzione; là dove non ci si aspettava che sarebbe finita. Ci si aspettava che l’uomo nutrisse dei dubbi su se stesso, non che dubitasse della verità, ma la cosa è stata completamente capovolta. Oggigiorno la parte di sé che un uomo fa valere è esattamente la parte che non dovrebbe far valere. (…) Il nuovo scettico è talmente umile che dubita perfino di poter imparare. Perciò ci sbaglieremmo se dicessimo frettolosamente che non esiste un’umiltà tipica della nostra epoca. La verità è che esiste una vera umiltà tipica della nostra epoca, ma in pratica è un’umiltà più dannosa delle più estreme prostrazioni ascetiche. L’umiltà di una volta era uno sperone che impediva all’uomo di fermarsi, non un chiodo nello stivale che gli impedisce di andare avanti. (…) Stiamo procedendo nella direzione che porterà a creare una razza di persone troppo modesta intellettualmente per credere nella tavola pitagorica. Stiamo correndo il pericolo di vedere filosofi che mettono in dubbio la legge della gravità, come se fosse solo una loro fantasia. (…) Il fatto è – conclude Chesterton, in una constatazione non più faceta ma tragica – che l’intelletto umano è libero di distruggere se stesso. Proprio come una generazione potrebbe impedire l’esistenza stessa della generazione successiva, se tutti entrassero in monastero o si buttassero in mare, così un gruppo di pensatori può impedire, fino a un certo punto, che il pensiero progredisca insegnando alla generazione successiva che il pensiero umano non ha valore. È vano allora parlare sempre dell’alternativa tra ragione e fede. La ragione in se stessa è una questione di fede»¹⁰.

Basta riflettere un poco sulla portata di quest’affermazione per capire come, per Chesterton, la scaturigine della follia di cui abbiamo sin qui trattato si radichi forse proprio in questo: in un mancato atto di fede nei confronti della ragione umana e delle sue potenzialità nell’accostare l’infinito universo dell’esistente. Un universo che ci chiede di essere colto per quello che è – come un convergere organico e sinfonico versus Uni – e che, con il suo darsi, mette continuamente in guardia l’uomo post-moderno dal pericolo di scambiarlo con un immenso, caotico manicomio.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

¹ Cfr. J. LACAN, Discorso sulla causalità psichica, in IDEM, Scritti, Einaudi, Torino 2002, vol. 1, p. 171.

² Cfr. G. K. CHESTERTON, Ortodossia, Lindau, Torino 2010, p. 10.

³ Cfr. M. SALVIOLI, Teologia fondamentale e immaginazione. Riflessioni a partire da Ortodossia di G: K: Chesterton, in Divus Thomas, 1, (2014), p. 182.

⁴ Cfr. F. HADJADJ, La terra strada del cielo. Manuale dell’avventuriero dell’esistenza, Lindau, Torino 2010, pp. 25-26.

⁵ G. K. CHESTERTON, Ortodossia, p. 21.

⁶ Cfr. P. FEDRIGOTTI, La nottola e il sole, Armando, Roma 2019, p. 64.

⁷ Cfr. G. K. CHESTERTON, Ortodossia, p. 22.

⁸ Cfr. Ibi, p. 36.

⁹ Cfr. Ibi, pp. 24-25

¹⁰ Ibi, pp. 43-45.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Ultimi articoli

Antonino Pennisi, L’ottava solitudine. Il cervello e il lato oscuro del linguaggio, Il Mulino, Bologna 2024

Ugo Morelli: Se c’è un’esperienza che ognuno pensa di poter definire abbastanza facilmente, quella è la solitudine. Ma è poi così vero...

Il blocco dello scrittore, ma non solo…

Ore 5.00 la sveglia suona come tutte le mattine dal lunedì al venerdì, non sbaglia un colpo, finché non glielo permetto io.

Ridotti al silenzio dalle nostre chiacchiere?

«La parola è un sintomo di affetto E il silenzio un altro» Emily Dickinson, Silenzi,UEF, 1990

Scrivere: rivoluzionario più che disubbidiente

La sala è la stessa e il protagonista è il medesimo che, nel frattempo, non ha perso né fama, né carisma. Eppure,...

Risposta alla domanda: “Quale il senso di parlare a questa umanità distratta, disgregata ed in crisi che non perde occasione di manifestarsi tale ogni...

Al di là di ogni pubblica confessione, che pure qui può leggersi in controluce, lo scrivere oggi non è più possibile. La...