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Il diritto alla sconfitta

Autore

Gianpaolo Carbonetto
Gianpaolo Carbonetto è giornalista e responsabile di programmi culturali e di formazione, studioso dei fenomeni più rilevanti della cultura e della democrazia.

L’unica cosa imprescindibile per poter giocare sono le regole. Poi ci si può aggiungere un tavoliere, fisso o mobile, per riprodurre, almeno vagamente, l’ambiente nel quale ci si muove, e si possono usare anche dadi, o carte da gioco, al fine di introdurre quel fattore di casualità che nella vita è sempre presente e anche nel gioco serve a dare quel tanto di imprevedibilità che ci accompagna quotidianamente nelle nostre giornate con una percentuale di influenza che va dal nulla, come negli Scacchi, nel Go, nella Dama, al tutto, come avviene nel Gioco dell’oca, o nel Serpenti e scale.

Bisogna precisare in partenza, però, che questo discorso esclude i giochi al computer perché in quel caso è il concetto di regole a essere diverso. Nel gioco di ambiente, o da tavolo, le regole sono paragonabili alle leggi stabilite dall’uomo che si devono imparare a rispettare; in quello con il computer, invece, ci sono leggi simili a quelle di natura, come la forza di gravità, che non puoi non rispettare, ma che devi esclusivamente tentare di sfruttare al meglio.

Ma torniamo al fatto che nei giochi che ci interessano dal punto di vista sociale ed educativo l’unico elemento necessario è costituito da regole che spesso sono anche molto complicate. I giochi di simulazione, per esempio, sono utilizzati nelle università di vari Paesi e anche nelle scuole militari. Un esempio ci è offerto dal New York Young UN – L’ambasciatore del futuro” che si tiene ogni anno per nove giorni ed è la più grande simulazione diplomatica del modello ONU, con la partecipazione di cinquemila studenti delle scuole superiori provenienti da oltre cento Paesi di tutti i continenti. È un gioco di simulazione per ragazzi che seguono regole tanto complicate che gli adulti, che ci “giocano” da anni, ancora non le hanno capite bene e, nel tentativo di imbrogliare, si mettono nelle condizioni di far perdere comunque tutti; compresi loro stessi.

Se, dunque, è vero che i ragazzi riescono, meglio degli adulti, teoricamente più smaliziati, a elaborare comportamenti competitivi, ma nel contempo rispettosi delle regole, non sarà che questo succede perché l’abitudine dei ragazzi al gioco e, quindi, al rispetto delle regole, è molto più recente di quella di coloro che hanno fatto l’ingresso nel mondo serioso della diplomazia ormai da molti anni? E, allargando il campo ai comportamenti etici in generale, non viene forse il dubbio che la diffusissima carenza di rispetto delle regole nella vita pubblica e privata del nostro Paese, abbia qualche addentellato con il fatto che ognuno di noi si è sentito dire ossessivamente: «Non giocare, studia», anche se, quasi per tutti il risultato scolastico si identifica non nel grado di apprendimento e di rielaborazione, ma nel voto per raggiungere il quale quasi nessuno rifiuterebbe di utilizzare suggerimenti e copiature, se fosse convinto di farla franca?

Publio Ovidio Nasone nell’“Ars amatoria” scrive: «Nudaque per ludus pectora nostra patent» (Nel gioco l’animo nostro nudo si rivela). E quel “ludus” può aiutarci a capire meglio come il concetto di gioco abbia assunto importanza diversa nelle varie civiltà perché, come sempre, a capire meglio quello di cui stiamo parlando, può aiutarci l’etimologia delle parole.

Cicerone usava due termini per indicare l’attività ludica: «ad ludum et iocum», con “ludus inteso come gioco d’azione, ma anche come apprendimento scolastico e “iocus” visto soprattutto come motto di spirito; ed è importante annotare che il maestro di scuola era chiamato “magister ludi”. Poi il significato dei due termini ha finito per avvicinarsi, tanto che il primo è quasi sparito nelle lingue romanze, dove è rimasto soltanto in termini un po’ colti, come “ludico”, o “ludoteca”, o in derivati più lontani come “illudere” e “deludere”, che hanno il valore negativo del prendersi gioco di una persona. E, assumendo una negatività totale, sopravvive anche in “ludibrio” inteso come scherno.

Nelle lingue neolatine, insomma, sopravvive quasi soltanto “iocus”: “gioco in italiano, “juego in spagnolo, “jeu in francese, “joc in romeno e così via, con i possibili derivati. Echi di “iocus si trovano in altre lingue europee, come nell’inglese “to joke”, scherzare, o in “Jocker”, la matta del gioco con le carte, ma al di fuori del mondo postlatino ci sono termini ben diversi per indicare l’attività ludica: nel greco “paízo (gioco) deriva da “paìs (bambino, ragazzo), mentre in inglese “to play”, in origine voleva dire muoversi velocemente e in tedesco “spielen” significava girare intorno: per entrambi, insomma, verbi di movimento. Ed è importante sottolineare che sia “to play”, sia “spielen”, uniti a dei sostantivi, vogliono dire giocare, gareggiare, suonare, proiettare. Insomma fare, o, ancor meglio, creare. Per il significato di recitare, le coincidenze con giocare vanno poi anche oltre l’inglese e il tedesco allargandosi al francese (“jouer”), al russo (“igrat”), all’ungherese (“játszik”).

Nell’ambiente mediterraneo, insomma, il concetto di giocare sembra dover essere limitato al mondo dei più giovani, mentre il quello anglosassone, e nordico, in genere è più attinente al concetto di creare che presuppone una prosecuzione dell’attività ludica, intesa in senso lato, anche nell’età adulta.

Lo storico e linguista olandese Johan Huizinga nel 1938 ha pubblicato il libro “Homo ludens” in cui, in antitesi con il concetto di “homo faber”, sosteneva come il gioco fosse il fondamento della cultura e dell’organizzazione sociale, tanto da proporre una diversa interpretazione della storia della cultura in quanto «la civiltà umana si sviluppa e sorge nel gioco, come gioco». E questo concetto è da lui tanto approfondito da affermare che tutte le attività considerate antitetiche al gioco, e dunque annoverabili in una teorica sfera della serietà, quali la guerra, l’arte, la religione e le scienze, sono nate e si sono sviluppate come esperienze ludiche, in quanto queste ultime hanno natura pre-sociale, cioè nascono e sono vissute prima ancora della loro costruzione e della comprensione della realtà. Per questo il gioco sarebbe un importante strumento di produzione dell’immaginario collettivo.

L’antropologo britannico Gregory Bateson ha fatto un ulteriore passo in avanti sottolineando che il “play”, quando è organizzato, regolato e gli viene assegnata una conseguenza in caso di vittoria, o di sconfitta, diventa “game”. E questo è un altro passaggio di grande importanza e delicatezza per lo sviluppo della società perché con la nascita del “game”, se assimilato come concetto nella fase dell’apprendimento ludico, nasce anche il diritto alla sconfitta che è una delle chiavi di volta che reggono l’intero edificio della società: se, infatti, la sconfitta non viene drammatizzata in ogni piccolo particolare del gioco della vita, se viene considerata come un evento prima o dopo inevitabile, comunque mai definitivo e sempre precedente a una rivincita, diventa naturale “mettersi in gioco”, senza ritrosie e timori. Se si è perso, domani si potrà vincere, senza sentirsi umiliati e senza umiliare. E diventa più seria anche la politica che, invece, proprio per la drammatizzazione della sconfitta e la vanagloria della vittoria temporanea, finisce per estremizzarsi andando sempre più verso una semplificazione maggioritaria che è la presupponente e stupida negazione della complessità di ogni tipo di società moderna.

Il mettersi in gioco con gli altri, infatti, fa capire che è naturale che ci siano punti di vista diversi e siano possibili soluzioni inedite. Ma anche che il comune rispetto delle regole unito alla ricerca di nuove vie d’uscita fa capire che l’incontro con l’altro non deve necessariamente diventare uno scontro, ma, anzi, uno strumento attraverso il quale i partecipanti sviluppano sensibilità e competenze etiche, come il rispetto delle regole e degli altri giocatori, ma anche relazionali, come la socializzazione e il lavoro di squadra, e, ancora, cognitive, come la creatività, la logica e il ragionamento.

E la scarsa competenza iniziale del neofita che conosce soltanto le regole tende a sparire abbastanza velocemente perché le regole sono le stesse per tutti, e la differenza di esperienza può essere almeno idealmente mitigata dalla ricerca di soluzioni nuove. Insomma, giocare non significa soltanto divertirsi, ma, anzi, è la base della difficile arte della crescita, dell’apprendere l’ingresso nel mondo, la scoperta del proprio io, dell’ambiente, del fare ipotesi non solo ideali, ma da sperimentare continuamente. 

Spesso dividiamo la vita in “cose serie” e “cose piacevoli”, ma in realtà il bambino, quando gioca, non si diverte affatto se pensiamo al divertimento come a uno sterile passatempo. È vero il contrario: il gioco, il mettersi in gioco, è riempire il tempo di serietà, è dare senso alle cose, scoprire, accettare le cadute e gli imprevisti. È considerare i giochi come giochi di tutti, le regole come regole di tutti; è considerare l’io e gli altri come comunità di gioco; è passare dall’io al noi. 

Se un adulto riesce a mantenere questo spirito anche una volta finita la giovinezza, vuol dire che sa giocare e giocarsi, che è ancora capace di mettersi in gioco e di scoprire qualcosa di nuovo perché ha capito che non è soltanto vero che il gioco è vita, ma soprattutto che è la vita a essere gioco.

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