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La Domenica e il Natale. Il sogno e il tragico della festa nel teatro di Eduardo De Filippo

Autore

Rosario Iaccarino
Rosario Iaccarino, nato a Napoli nel 1960, dal 1982 al 1987 ha lavorato come operaio presso la SIRAM, assumendo l’incarico di delegato sindacale della Fim Cisl; nel 1987 è entrato a far parte dello staff della Fim Cisl nazionale, prima come Responsabile dell’Ufficio Stampa e dal 2003 come Responsabile della Formazione sindacale. Cura i rapporti con le Università e con l’Associazionismo culturale e sociale con i quali la Fim Cisl è partner nei diversi progetti. Giornalista pubblicista dal 1990. È direttore responsabile della rivista Appunti di cultura e politica. E’ componente del Comitato Direttivo e del Comitato Scientifico dell’Associazione NExT (Nuova Economia per Tutti).

Il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, 

toglie la paura del diverso, dell’altro, 

dell’ignoto, della vita, della morte
Leo De Berardinis

Il teatro è la parabola del mondo
Giorgio Strehler

«Zì Nicola dice che parlare è inutile. Che siccome l’umanità è sorda, lui può essere muto. Allora, non volendo esprimere i suoi pensieri con la parola […] sfoga i sentimenti dell’animo suo con le granate, le botte e le girandole. Perciò a Napoli lo chiamano Sparavierze. Perché i suoi spari non sono spari, sono versi…».  

Nell’estrema, ironica e amara, strategia comunicativa del personaggio de Le voci di dentro [E. De Filippo, Cantata dei giorni dispari, Vol. I, Einaudi, 1950], costretto a usare i fuochi d’artificio per segnalare la sua presenza nel mondo, si addensa quello sguardo critico sullo stato di salute dell’umanità che attraversa  tutta la produzione drammaturgica di Eduardo De Filippo. 

La festa come teatro della crisi

Il fallimento delle relazioni tra gli uomini è una tragedia sotto gli occhi di tutti, amplificata da quell’impianto culturale piccolo borghese, perbenista, ipocrita, sul quale poggia la vita di molti individui e di tante famiglie, che genera sostanze tossiche nella vita comune. Nell’esaminare l’abisso profondo della miseria umana, e senza poter conoscere (ma forse li immaginava) gli esiti perversi di una tecnologia della comunicazione che premiando il virtuale separa e individualizza le persone, così come divide il significato dai sentimenti, Eduardo indica una traiettoria, come se avvertisse il pericolo (fondato) che il narcisismo e l’egoismo sociale potessero solo crescere. Che la pusillanimità e la scarsa genuinità nei rapporti umani avrebbero reso ancora più ingiusto questo mondo. Che senza legami, illusoriamente, ci si possa sentire liberi e indipendenti. Ingredienti avariati ma resistenti di una realtà umana popolata di maschere, che se nell’andirivieni frenetico feriale si sfiorano e si ignorano, quando non si usano, a un certo punto, nel ritrovarsi faccia a faccia, deflagrano in una comunicazione insostenibile che implode in silenzi tombali o esplode in liti distruttive. 

Paradossalmente ma non troppo, il giorno della festa, quello che impone pause rituali alla convulsa meccanica quotidiana, quello che evoca(va) il principio della comunità di destino e della solidarietà tra gli uomini, si propone come il teatro della crisi: l’occasione della resa dei conti, la fine momentanea della finzione, e solo raramente, l’opportunità di un chiarimento, di un ripristino del dialogo, di un superamento in avanti del conflitto intersoggettivo, di una trasformazione radicale delle relazioni.

La Domenica e il Natale nella drammaturgia di Eduardo De Filippo assurgono laicamente a fattore critico della cultura borghese e di un’esistenza ridotta a meccanica ripetitiva di gesti e riti, assumendo un forte peso specifico nel richiamare, da un lato, che l’incontro con l’altro, con la differenza soggettiva, non è una passeggiata di salute, ma passa sempre per un’esperienza conflittuale; e dall’altro, che lo scambio simbolico ha bisogno di essere maneggiato con cura, di essere educato, perché si fonda sul riconoscimento dell’altro, che è il desiderio dell’altro, come avrebbe detto Jacques Lacan. 

La critica eduardiana si estende anche al senso stesso che è andato assumendo la festa nel tempo, che, fatta di liturgie (laiche e religiose) senz’anima e di simboli ridotti a simulacri, scandisce solennemente il tempo dell’ipocrisia e della retorica piuttosto che conservarsi come critica della ferialità, custode del simbolico per eccellenza, luogo di convivialità e di riserva di significati capaci di nutrire e rigenerare le relazioni nella quotidianità del lavoro, della famiglia, dell’amicizia.

Le domeniche sono pericolose

La Domenica è la protagonista in casa Priore nella commedia Sabato, domenica e lunedì, un testo scritto da De Filippo nel 1959 [E. De Filippo, Cantata dei giorni dispari, Vol. III, Edizioni Einaudi, 1961].

La giornata festiva nell’impianto drammaturgico fa da sovrastruttura a una lunga relazione matrimoniale ormai consumata e alla quotidianità infelice di una famiglia allargata che perde coesione con  le sue microconflittualità e le alleanze strumentali trasversali, e l’emergenza delle differenze generazionali. La festa, in casa Priore, è tenuta in piedi da un rito, quello del pranzo domenicale e dal ragù, simbolo del convivio festivo napoletano. E sarà proprio il momento in cui donna Rosa Priore, moglie di Peppino, servirà il suo ragù ai convitati, il detonatore dell’ira dell’uomo, dopo anni di silenzi, di non detti, di indifferenza, di piccole scaramucce: un muro invisibile che lo separa dalla moglie e che continua a crescere senza soluzione di continuità. Donna Rosa – regina del ragù – ha impiegato come nella tradizione l’intero sabato per preparare il pranzo del giorno dopo, al quale oltre alla sua famiglia sono invitati anche i vicini di casa. Cresce l’attesa mentre si consumano le operazioni di rito, e quando donna Rosa Priore serve il ragù in tavola parte la standing ovation dei commensali: attenzioni e complimenti  si sprecano da parte di tutti, tranne che dal marito Peppino, che, colmo di un risentimento accumulato nel tempo, aggravato dal sospetto (infondato) del tradimento della moglie con il signor Iannello, vicino di casa e ospite con sua moglie del pranzo domenicale, coglie l’occasione per vuotare il sacco, assurgendo alla parte di vittima, di uomo trascurato da una moglie che non lo considera e che non gli parla più da tempo. 

 «C’è un’anticipazione dell’avvento del divorzio anche in Italia» – racconterà lo stesso Eduardo in un’intervista, affermando che in Sabato, domenica e lunedì  «c’è un apparente fusione di finti rapporti cordiali in una famiglia in cui convivono i rappresentanti di tre generazioni: nonni, figli, nipoti, ma dietro la facciata bonaria si avverte un ammonimento a tutti i coniugi che non vanno d’accordo: spiegatevi, chiaritevi i vostri dubbi, i vostri tormenti. E alla fine della commedia non c’è chi non comprenda che soltanto l’amore può tenere insieme due esseri; non certo il matrimonio, e nemmeno i figli». [S. Lori, Intervista con il grande autore-attore napoletano, “Roma”, 7 maggio 1969; in F. Di Franco, Il teatro di Eduardo, Editori Laterza, 1975]. 

Il lieto fine della commedia, con la riappacificazione tra marito e moglie, e con le scuse di don Peppino a Luigi Iannello per aver sospettato una tresca con la signora Rosa, non incede tuttavia al buonismo. In primo luogo perché nell’ottica dell’autore non ci potrebbe essere alcun lunedì nuovo senza quella domenica tragica, conflittuale, chiarificatrice, che rimette in gioco le parti capaci di accogliere le ragioni dell’altro/a. Come sottolinea la didascalia dell’Opera, Rosa e Peppino «si guardano lungamente negli occhi e scoprono per la prima volta la vera natura dell’amore che li ha tenuti legati per tanti anni. Hanno insomma finalmente capito il motivo per cui due persone che vivono insieme si tormentano in un’ansia fatta di bene, di male, di dubbi, e perfino di disistima e rancori reciproci» [E. De Filippo, Cantata dei giorni dispari, Vol. III, Einaudi, 1961].

In secondo luogo perché viene messo in discussione anche il modo di concepire e vivere la festa, che illumina un’esistenza povera di simboli, orfana di riflessività,  avara di discontinuità, che ci rende degli automi depressi. L’utilità vince sull’inatteso, sull’otium, sul tempo liberato, vuol dirci Eduardo, che al riguardo con le parole del signor Iannello chiosa: «per noialtri che viviamo una vita intensa di lavoro, di ansie… voi preso dagli affari del negozio, io alle prese con le pratiche di ufficio… per gente della nostra categoria, voglio dire le domeniche sono pericolose […] E già perché non siamo abituati a stare senza fare niente. Il fatto di ieri, per esempio, non si sarebbe verificato in un giorno qualunque della settimana. […] Le cose spiacevoli accadono di domenica». [E. De Filippo, Cantata, op. cit.].

In casa Cupiello. Il Natale tra sogno, illusione e realtà

Di tutt’altro segno è la conclusione di Natale in casa Cupiello [E. De Filippo, Cantata dei giorni pari, Einaudi, 1959], che nella morte del protagonista, arrivata nel giorno della festa a causa proprio delle tensioni famigliari, lascia intendere che la vera tragedia umana sta nell’impossibilità di comporre visioni diverse della vita, e nell’incapacità di vestire i panni dell’altro, e di accoglierlo così come è, con pregi e difetti. 

Natale in casa Cupiello è la rappresentazione plastica dell’ambiguità umana, che ospita insieme sogno e illusione, immaginazione e realtà, innocenza e cinismo, in una dialettica alla fine distruttiva delle relazioni.

La storia è nota. Luca Cupiello, uomo di mezza età, senza arte né parte, fervido custode della tradizione napoletana, si dedica come ogni anno alla costruzione del presepe, dimenticando (consapevolmente?) ciò che attorno a sé si agita: una famiglia alle prese con gravissimi problemi quotidiani, materiali e immateriali. Concetta, sua moglie, che del marito non ha più stima, è stanca e preoccupata di come sbarcare il lunario; Nennillo, il figlio maschio è disoccupato e poco interessato ai destini familiari, ambendo a fare la bella vita;  Ninuccia, la figlia femmina, sposata con Nicolino, commerciante ricco e di alto rango, è in piena crisi matrimoniale e desiderosa di cambiare vita e di fuggire con l’amante Vittorio; infine, il pedante zio Pasqualino che dai Cupiello ha preso una camera in affitto, che non si trasferisce altrove malgrado sia vittima dei piccoli furti che subisce da parte del nipote Nennillo. 

La famiglia Cupiello (e ciò che ruota attorno) – come nel caso de Le voci di dentro – mostra uno spaccato ordinario di incomunicabilità che Eduardo porta all’ennesima potenza, anche in chiave grottesca e ironica, come metafora del mondo e delle relazioni.

Nel mezzo dei preparativi del Natale, dove spicca l’alacre attività di Luca nel completamento del presepe (il suo bene rifugio), Ninuccia comunica alla madre di voler lasciare il marito Nicolino, per il quale ha pronta una lettera di addio, e di volersi costruire un’altra vita con Vittorio Elia. Concetta con immensa fatica, e perciò colpita anche da un malore, riesce a convincere Ninuccia a ritornare sulla sua decisione; intanto però la lettera inavvertitamente, nel frastuono generale, finisce nelle mani di Nicolino recapitata a lui proprio da Luca Cupiello, ignaro della questione (come di tutte le questioni importanti della sua famiglia). Paradossalmente l’uomo buono, colui che sogna un’umanità migliore, che cerca di incollare i cocci dei rapporti famigliari allo stesso modo di come con cura salda sul presepe i pastori –  Maria, Giuseppe, Gesù e l’asinello, Gaspare, Melchiorre e Baldassare – diventa l’artefice involontario degli odi e degli scontri famigliari, di cui peraltro, in quel suo ultimo Natale, ne farà paradossalmente le spese. La pavidità spesso è più dannosa di altri atteggiamenti.

L’impegno di Luca Cupiello nel ricucire i rapporti famigliari è encomiabile, generoso, fino alla morte, ma col volontarismo, il buonismo e la persuasione si fa poca strada. La festa, avvolta nell’involucro borghese, con il suo linguaggio retorico, ridondante, astratto, non guarisce le ferite feriali, anzi finisce per  aggravarle.

Il linguaggio paternalistico e la crisi dell’autorità

Le due parole attorno alle quali ruota Natale in casa Cupiello rappresentano la chiave di interpretazione dell’intero testo di Eduardo: “ci riuniamo”. Ma Luca Cupiello, malgrado i suoi sforzi, non riuscirà mai a pronunciarle correttamente, simbolo di un ostacolo insormontabile dentro il linguaggio corrotto delle relazioni tra gli uomini ed evocazione di un’unità famigliare, come quella di tutto il genere umano,  irraggiungibile, chimerica, a condizioni date e non rimosse.

Eduardo, da par suo,  sottolinea questo momento drammaturgico saliente della commedia  – tragico e comico insieme – mettendo in scena un dialogo paradossale tra Luca Cupiello e Vittorio Elia, amante clandestino della figlia, proprio sull’unità della sua famiglia, che tuttavia rileva goffamente la sua inattendibilità: 

“..a Natale non deve mancare nessuno…..

Ogni anno noi ci…

(vorrebbe dire “ci riuniamo” ma non ci riesce)

…rinu…rinu…Ci rinuriano…[…] 

Ma quando è Natale, io, mia figlia, 

il marito…insomma

(E’ di nuovo alla prese con la difficoltà 

di pronunciare: “Ci riuniamo”) 

Noi ci… ci rinu… Ci rinuniamo… 

Ci riomeriamo

(Si ferma, si distoglie da Vittorio 

ripetendosi mentalmente 

e muovendo appena le labbra la difficile parola. 

Infine crede di poterla pronunciare. 

Si gira di nuovo e sorridente ripete) 

Ci…rinuneiamo (Niente. Non ci riesce. 

Si gratta la testa, ride per nascondere il suo imbarazzo. 

Tenta ancora) …Ci rinuniniamo….Ci…

(Rinunciandoci con un respirone) 

Vengono e mangiamo insieme!!! 

La difficoltà di Luca nel farsi intendere e di ricevere riconoscimento dalla sua famiglia mostra la crisi di un’autorità paterna centrata sul predicozzo e sulla rampogna. Un vuoto di credibilità che Luca Cupiello tende a riempire paternalisticamente con il linguaggio della tradizione, con la retorica del Natale che illustra l’armonia della sacra famiglia simboleggiata dal presepe, alla quale tuttavia nessuno in casa Cupiello, preso dalla dura e incombente realtà, e da un latente cinismo, è disposto a dare credito. 

“Con la stessa innocenza del poverello di Assisi […] – commenterà il suo testo Eduardo De Filippo – Luca Cupiello compie il rito religioso. Intorno a lui, però non si leva, alto commosso, un coro di fraticelli ammirati…Intorno a Luca si va creando un’atmosfera indifferente e gelida, man mano che le montagne di cartapesta si popolano di capanne e di “casarelle”, e diventa addirittura ostile quando, a opera compiuta, egli chiede timidamente alla famiglia un po’ di adesione” [E. De Filippo, ‘O Canisto, Ed. Teatro San Ferdinando, Napoli, 1970, in D. Di Franco, Il teatro di Eduardo, Editori Laterza, 1975]

Solo in extremis, in punto di morte il figlio di Luca, Nennillo, che aveva sempre osteggiato il padre e il suo presepe, rispondendo costantemente “No” con disprezzo e indifferenza alla domanda «Te piace ‘o presebbio?», ora, al culmine della tragedia natalizia che vede il padre moribondo, in una sorta di passaggio di consegna, gli concede il riconoscimento del suo punto di vista, ossia che una prospettiva diversa del mondo, che non sia la propria, può esistere. Ma, la sottolineatura puntuale e significativa che attraversa la commedia, evidenziando un altro tema caro a Eduardo, anticipatore di un’amara verità dei giorni nostri, ossia la comunicazione problematica tra le generazioni, indica che non potrà essere il linguaggio enfatico della tradizione, o una supposta superiorità culturale e morale degli adulti, a poter veicolare l’inedito e a cambiare il mondo. Scrive in proposito Anna Barsotti nella sua critica a Natale in casa Cupiello, che “L’ostinazione del protagonista a non varcare la soglia che lo separa dal mondo degli altri si può interpretare, in una prospettiva sociologica o antropologica, come attaccamento a una concezione paternalistica e patriarcale per cui la mitica unità famigliare dev’essere assicurata dal predominio dell’anziano” [A. Barsotti, Introduzione a Eduardo, Editori Laterza, 1992].

La domenica, il presepe e l’immaginario collettivo

Il rapporto con la festa nella drammaturgia di Eduardo De Filippo spesso viene associato alla tragedia degli affetti e dei rapporti famigliari, che precipitano proprio quando dovrebbero rinsaldarsi. Ma ciò evidenzia quanto deleterio sia per gli uomini l’aver separato il sogno dalla realtà e il mondo interno dalle connessioni con quello esterno. Per cui ogni evento è vissuto individualmente, senza la ricerca di un senso e di significati condivisi, della quale la festa è stata invece sempre portatrice e che oggi, senza una rigenerazione di simboli e significati, mostra tutta la sua impotenza. 

Nella didascalia finale di Natale in casa Cupiello Eduardo mentre ribadisce l’importanza del sogno mette in guardia proprio dalla sterilità del sognatore solitario. 

“Luca ottenuto il sospirato “Sì” 

disperde lo sguardo lontano, 

come per inseguire una visione incantevole: 

un Presepe grande come il mondo, 

sul quale scorge 

il brulichio festoso di uomini veri, 

ma piccoli piccoli, 

che si dànno un da fare incredibile 

per giungere in fretta alla capanna, 

dove un vero asinello e una vera mucca, 

piccoli anch’essi come gli uomini, 

stanno riscaldando coi loro fiati 

un Gesù Bambino grande grande, 

che palpita e piange, come piangerebbe 

un qualunque neonato piccolo piccolo. 

Perduto dietro quella visione, 

annuncia il prodigio a se stesso.

Luca:  “Che bel Presepe! Quanto è bello!

Qualche anno fa, il maestro Roberto De Simone, rilasciando una bella intervista a Marco Belpoliti sul presepe parlava della crisi religiosa di una cultura e del relativo impoverimento dell’immaginario collettivo: «i singoli personaggi – spiegava De Simone raccontando la tradizione del presepe popolare napoletano  – venivano collocati in posizioni precise ed esprimevano un codice culturale rispetto alla sfera onirica, ai miti, alle leggende, sui quali per duemila anni si era sedimentato il tessuto religioso popolare». 

E alla domanda di Belpoliti: «Le persone non sognano più? I sogni oggi non sono riferiti a quell’universo simbolico?», la risposta di De Simone fu: «La gente sogna quello che vede in televisione. Questo è l’unico immaginario che resta. Quello del presepio era un immaginario funzionale alla collettività. Oggi c’è l’immaginario del consumo, dei personaggi che cambiano di giorno in giorno, come per gli oggetti. Tutto è transitorio, cambia. Si sogna da soli» [M. Belpoliti, Intervista con Roberto De Simone/La morte del presepe, «Doppiozero», 25 Dicembre 2017, https://www.doppiozero.com/la-morte-del-presepe].

3 Commenti

  1. Che dire una riflessione ricca di indizi sul vivere, sul come convivere, una intuizione poetica di quello che il teatro vuol spiegare della vita tutti i risvolti negativi e positivi che solo un grande artista e uomo come Eduardo ha saputo rappresentare e come tu Rosario hai tradotto in parole che incoraggiano a continuare a vivere. Grazie amico mio.

  2. Ottimo commento e condivisibili riflessioni su alcuni dei capolavori di Eduardo. Nel leggere l’articolo è stato come rivedere contemporaneamente alcune scene di questi magistrali lavori teatrali. Addirittura mi è venuto in mente la prima volta che ho visto Natale in casa Cupielo, avevo circa 10 anni; da allora ripeto il rito ogni anno. Eduardo ha anticipato, attraverso il teatro, il tempo subito dopo il suo, ma anche quello nostro attuale. Come risollevare questa umanità?

  3. Un articolo che è riuscito a farmi tornare alla mente tanti piccoli episodi vissuti o sentiti nei racconti di familiari e di amici. Una chiave di lettura per capire il passato, il presente, … il futuro che dovremmo costruire.

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