Straordinario, riposo, ben fatto. Il senso della festa

Autore

Carlo Pacher
Carlo Pacher, classe 1995, lavora per la formazione e lo sviluppo delle persone in La Sportiva. Ha conseguito una doppia laurea in Scienze Filosofiche presso gli atenei di Padova e Jena, in Germania, con una tesi dal titolo: "Intersoggettivà, costruzione, limite. Intorno alla riflessione hegeliana sul linguaggio", tema a cui ha lavorato sotto la guida dei Professori Luca Illetterati e Klaus Vieweg. Precedentemente aveva affrontato il tema della conoscenza di sé in Platone per l'elaborato di tesi triennale con il Professor Carlo Scilironi. Nell'estate 2021 ha preso parte al corso executive "Strategie e nuovi modelli di sviluppo sostenibile" presso CUOA Business School. Attivo in più realtà di volontariato sociale a livello locale, musicista per passione.

«Dicono che c’è un tempo per seminare
E uno più lungo per aspettare.
Io dico che c’era un tempo sognato
Che bisognava sognare»

I. Fossati, C’è tempo, 2003

Una delle peculiarità della festa è il suo carattere straordinario di fronte all’ordinarietà del quotidiano. La festa differenzia e si differenzia dai giorni normali, li definisce tali alternandoli alla sua presenza nello scorrere del tempo. “Non è sempre domenica” diciamo infatti. Noi esseri umani, che abbiamo costitutivamente bisogno di costruire significati per ciascuno dei mondi che viviamo, nei riguardi del tempo abbiamo dato massima espressione di noi stessi, assegnandogli nella storia i numerosissimi significati che gli appartengono: c’è un tempo per lavorare e uno per riposare; un tempo per raccogliere e uno per seminare; c’è un tempo per vedere le cose e uno per finalizzarle. Ci sono le stagioni della vita. «C’è un tempo per ogni cosa», sta scritto nella Bibbia (Qo 3,1-11).

Proprio la Bibbia può aiutarci, nei riguardi della festa, a chiarirci uno dei significati più radicali che l’uomo occidentale ha legato nella sua storia a questo tempo particolare. Occorre guardare a quei testi con la consapevolezza che tornare a quell’orizzonte antropologico significa per noi ricordarci di noi stessi, conoscerci un po’ meglio, tornare alla precedenza che ci definisce e che, in modo più o meno manifesto, agisce ineluttabilmente da riferimento per la nostra cultura.

Il luogo della nostra riflessione è il libro dell’Esodo: dopo aver condotto il popolo ebraico fuori dall’Egitto, Dio detta a Mosè le tavole della legge, ovvero le parole (nel testo ebraico non si fa riferimento a “comandamenti”) pronunciate dalla divinità perché l’uomo possa impostare una vita piena. Tra queste, una è interamente dedicata alla festa e vale la pena riportala integralmente: «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro» (Es 20, 8-11).

Prima di passare ad un commento, è necessario inquadrare tre direttrici lungo le quali si impernia il passo, al fine di comprendere il testo e con esso l’insito significato della festa. Anzitutto va ricordato che in ebraico shabbat significa letteralmente “riposo”; con questo termine si possono rileggere le poche righe soprariportate trovandone già una traduzione più vicina al senso per i nostri orecchi. È quello del sabato, in secondo luogo, un riposo direttamente collegato all’azione del santificare e altrettanto direttamente rimandato alla storia della creazione, alla quale occorre di necessità tornare per comprendere finalmente il significato biblico della festa. Ciò che ha consentito di fare a Dio il settimo giorno è stato cessare ogni suo lavoro, contemplare il suo intero operato – ovvero considerare la creazione tutta nel suo complesso –, accorgersi e dire che ciò che aveva di giorno in giorno creato non era “soltanto” «cosa buona», ma «molto buona» (Gen 1,31). Perciò il Signore ha bene-detto il giorno di riposo ed è questo il significato del sacro legato al sabato, ovvero l’esperienza di riconoscere il buono e il ben fatto che solo deriva dal distaccamento dall’operare che il riposo consente. Per questo il giorno di festa deve differenziarsi dal giorno ordinario, dev’essere un giorno di riposo e dev’essere santificato nel senso che deve consentire di guardare alla propria esistenza e riconoscervi in essa il bello e il ben fatto rispetto all’essere individuale e collettivo dell’uomo.

La festa è quindi nell’antropologia occidentale il momento positivo in cui l’uomo riscopre, ricorda e celebra il suo bisogno di riconoscimento del proprio ben fatto. Il momento in cui si sospende l’ordinario, si scende dalla ruota che gira e ci si riposa per poterla apprezzare. È il momento felice (felix, ovvero «che porta frutto») in cui viene sottolineato il buono e il bello presente, in cui ci si riconosce come costruttori di senso tramite la propria storia individuale.

Riscopriamo questo nostro significato della festa dopo aver superato il Natale e il fine anno. Queste – che sono “le” feste – sono riuscite ad agire nella nostra esistenza almeno in parte in sintonia con il senso che abbiamo testé approfondito? Sono state un riposo, ci hanno permesso di riconoscerci la parte migliore di noi a noi stessi, di riconoscere il ben fatto?

Guardando a questa nostra contemporaneità – che è lo scopo sempre vivo di Passion&Linguaggi – non possiamo che constatare come abbiamo svuotato di significato la festa, che ormai non porta nemmeno lo stendardo della sua essenza. Osserviamo prima di tutto la distorsione: se il punto dal quale siamo partiti – la festa come momento straordinario di fronte all’ordinario – è valido, ci accorgiamo che il momento felix del riconoscimento del bello e del ben fatto dentro le nostre vite è un’eccezione – che, forse anche perché promessa come sempre disponibile, stenta tuttavia ad avverarsi. Un’eccezione a sua volta confermata dalla frustrazione generata in noi dall’aleatorietà circa la durata della festa, dalle modalità di celebrazione sempre uguale a se stessa (“Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi!”), dal senso di vuoto che lascia dietro sé una volta terminata. E forse ancor più dall’ordinarietà, dalla patina di normalità che assume, svuotata di senso; quella che il 24 dicembre ci fa dire che “anche quest’anno è arrivato il Natale” e il 25 alle sei del pomeriggio ci fa esclamare con stanchezza che “s’è fatto Natale anche per quest’anno”.

Se non riconosciamo il senso della festa e la riduciamo ad amarcord con l’insegna al neon della tradizione, che cosa resta del bello che la festa vuole riportarci? Che cosa sopravvive al rito acritico e inconsapevole del consumismo, ai pranzi, alle cene, ai regali fatti per forza volentieri? Qual è l’entità dell’autorete che ci stiamo facendo nel non celebrare la festa per il significato che noi stessi esseri umani siamo stati in grado di riconoscerle ed assegnarle, al punto da conferire a queste giornate la dignità speciale che…avevano?

E poi: riconosciamo ancora il valore del ben fatto al punto da porlo a fondamenta del nostro agire e facendo dipendere da questo parametro almeno parte della nostra realizzazione, della nostra felicità individuale? Nell’era delle deteriori liberalizzazione e relativizzazione del tutto, non corriamo forse il rischio di disconoscere a noi stessi le basi sulle quali imperniamo il nostro senso, di scavarci le fondamenta sotto i piedi fino a crollare nell’indistinguibilità dei significati ai quali aggrapparci almeno parzialmente, grazie ai quali riconoscerci il positivo e misurarci con il negativo, intersoggettivamente e intimamente? Su quali criteri stiamo misurando le nostre esistenze, per che cosa ci stiamo giocando? La distruzione novecentesca di tutte le oggettività che hanno composto la nostra storia non si è configurata come risposta valida, almeno e soprattutto nei termini di foriera di un senso e un’alternativa oggettivamente valida nella quale trovarci creatori di senso della nostra vita.

Attendiamo allora l’alba di nuovi significati e riscoperte che la festa torni a riempire di senso antropologico, appellandoci alla creatività umana come capacità di scomporre e ricomporre in modi almeno in parte originali l’esistente, facendo virtù del possibile e del disponibile per dischiudere un orizzonte che, festosamente, sia di nuovo capace di realizzarci.

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