Quello che fai è ingannarmi.
Per questo da te mi tengo lontano. Sto cercando da tempo… ma non ci sono mai riuscito, non ne sono stato capace, non dico a trovare la risposta, ma neppure una via possibile di avvicinamento alla comprensione. So di turbare chi dovesse leggere quello che scrivo, e io stesso lo faccio con fatica e certamente in modo confuso. Che mi prenda uno stato di sottile non so cosa e di voglia di non essere raggiunto da nessuno o da nessun segno quando tu, festa, arrivi, quello è un fatto indiscutibile.
Sarà la tua origine sacra, e sacro da sempre mi riporta al sacrificio. La vita in una certa misura già lo è e introdurne altri proprio non è il caso.
Lucrezio da par suo ti aveva già smascherata, ma gli umani non hanno mai smesso di aumentare il numero di riti che ti riservano, fino a fare di te la dea oggi più celebrata. Il grande poeta e scienziato latino, inquieto com’era e come non si può non essere, aveva, infatti, scritto:
“Si allestiscono banchetti con raffinate tovaglie, cibi, giochi,
coppe sempre piene, profumi, corone, ghirlande.
Invano. Dalla fonte stessa del piacere nasce un’oscura amarezza
che proprio lì, in mezzo ai fiori, prende gli amanti alla gola.”
[De rerum natura, Libro IV, 1131-1134]
Ecco, mi prendi alla gola.
Erano i giorni che precedevano la Pasqua, coincidevano, in quell’anno, la più antica che celebra la liberazione dalla schiavitù, e quella successiva che inneggia alla seconda nascita, alla possibilità di risorgere. Sia la liberazione da ogni vincolo alla libertà, che la ricerca di una seconda vita dopo quella di cui non ho meriti né demeriti, mi hanno sempre coinvolto, più di quanto riesca a dire.
Giungevano, da non so dove, dei cantori, di casa in casa, nelle campagne.
Avevano un violino, un violoncello, e le voci.
Vestivano abiti lisi, di colori stinti, i volti diafani e smunti dalla fame. Li vedevo trasparenti.
Fu la voce, quando iniziarono a cantare, a dilaniarmi. Quella voce, per me, veniva non dai loro corpi, ma da un altrove che, dovunque fosse, era comunque un luogo inquietante e ignoto.
Una nenia stiracchiata, con voci e musica di un’amarezza struggente, dove la disarmonia del sentire stona con la pretesa armonia della festa.
Dietro la finestra della camera che dava sul cortile, laddove avevo provato a rifugiarmi, il languore che graffiava dentro arrivava lo stesso e mi schiacciava verso il fondo di me, nonostante le dita nelle orecchie per non sentire. Non so come né quando, ma le lacrime che iniziarono a solcarmi il viso, erano più calde della mia pelle gelata dalla paura.
Ecco, festa: non sono mai venuto via da quella finestra che non è riuscita a proteggermi da te.
E oggi ti ritrovo dove non mi aspettavo di incontrarti, non dove vorresti che fossi per celebrarti.
La guerra è il tuo luogo privilegiato.
Una guerra dei consumi. E una guerra di morte. Due aspetti che sono uno solo. Per consumare come consumiamo, infatti, sono necessarie due condizioni essenziali, tra le altre: distruggere il pianeta e mangiarselo. Distruggerlo fino alla follia esasperante dell’estrazione di risorse in esaurimento; mangiarsi il pianeta, che è la casa, fino all’obesità psichica e fisica, guardati da coloro che muoiono di fame e che se provano a darsi una voce sono annientati con la tua rituale complicità. Annientati da te, festa, dal piacere della guerra che domina i giorni attuali delle nostre vite, e dalla festa dei consumi di ciarpame di massa da parte degli aspiranti al banchetto delle vanità, e di beni di lusso da parte dei benestanti.
Non intendo risparmiarmi di dirti che, in fondo, più subdolo di tutto è, però, il tuo impegno nel favorire la rimozione e l’oblio. È lì che realizzi il tuo inganno supremo. Grazie a te le persone non pensano e a te si consegnano, confondendo il regalo con il dono e la preziosità di un gesto con la sua vuota ritualizzazione. Fino al punto di perdere il senso di donare sé stessi, così smarrendo, quindi, il senso della vita.
Né mi consola l’evidenza che esasperando la tua funzione e la tua insinuante presenza tu, festa, abbia corrotto e resa insignificante te stessa, trascinandoti nel baratro del tuo collasso una delle esperienze più belle della nostra umana presenza.