asd

Ridotti al silenzio dalle nostre chiacchiere?

Autore

Giuliano Castigliego
Laureato in medicina, specialista in psichiatria e psicoterapia, svolge attività di psichiatra e psicoterapeuta a indirizzo analitico nel proprio studio a Coira, Svizzera. È membro dell’Accademia psicoanalitica della Svizzera italiana e della Società Balint Svizzera. È formatore, supervisore e conduttore di gruppi Balint. Co-fondatore dell’associazione uma.na.mente http://www.umanamenteonline.it Cura il blog Incontri di confine https://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com su Nòva Il Sole 24 ore. Membro del comitato scientifico della Fondazione per la sostenibilità digitale, cura su Techeconomy il blog Sulla via psicologica della sostenibilità digitale https://www.techeconomy2030.it/sulla-via-psicologica-della-sostenibilita-digitale/

«La parola è un sintomo di affetto
E il silenzio un altro»

Emily Dickinson, Silenzi,
UEF, 1990

I versi di Emily Dickinson esprimono con poetica immediatezza come le parole e il silenzio si trovino in una reciproca relazione. 

Ma è lecito domandarsi quale sia e come si sia evoluta nel tempo fino a portarci a una attualità che sembra esaurire le nostre energie, oltre che nel lavoro, in una sorta di perenne binge watching, erodendo così anche la capacità di parlare e scrivere a una cerchia più ampia della nostra bolla.

Paradossalmente, sembra che con la scomparsa di quell’ascolto del silenzio di cui parla Borgna (Borgna, 2024), si stia esaurendo anche la nostra capacità di ricavarci spazi di pensiero e di scrittura. 

È facile a questo punto prendersela con il chiacchiericcio indistinto, inconcludente se non astioso dei social media che ci impedirebbero di ascoltare, parlare, leggere e financo di scrivere qualcosa meritevole di essere letta. Tuttavia se è vero, come scrive Freud nel suo Il poeta e la fantasia (Freud, 2012) che l’atto creativo del gioco e dell’arte, così come il piacere del fantasticare, derivano tutti dalla frustrazione e che «ogni singola fantasia è la realizzazione di un desiderio, una correzione della realtà insoddisfacente», non si può negare che i social siano (anche) il luogo pubblico in cui ciascuno/a può appagare i propri desideri insoddisfatti, esporre e coltivare i propri castelli in aria, esprimere i propri sogni ad occhi aperti. Tutte/i possiamo infatti diventare oggi scrittori di post, creatori di immagini in cui mettere in mostra le nostre più riposte fantasie che, secondo l’assunto freudiano, dovrebbero essere la realizzazione dei nostri desideri. 

Il problema è piuttosto comprendere quanta capacità di fantasticare vi sia davvero nei nostri post e nelle nostre immagini e quanto invece in essi/esse sia illusione, riproduzione di modelli dati, sempre uguali a sé stessi, che vengono reiterati senza alcuna consapevolezza della coazione a ripetere che vi è insita. Il pericolo, già divenuto realtà, nei social media è dunque che producano l’opposto della capacità di fantasticare, non permettano né l’erudizione della citazione né la grazia della variazione, ma favoriscano piuttosto la copia, in una ripetizione dell’uguale che riguarda tanto l’oggetto che il soggetto. La desolata e desolante constatazione è che post e immagini siano sempre gli stessi, dunque a piacere sostituibili, come sempre identici e altrettanto rimpiazzabili sono le/i loro artefici. 

Si crea dunque il paradosso per cui, anche e a maggior ragione sui social, sui quali riteniamo di poter trasformare a piacere la nostra immagine, ognuno/a vuole essere diverso/a dagli altri ma «questo voler-essere-diverso non fa altro che prolungare l’Uguale»,  come sottolinea Byung-Chul Han (Han, 2017), secondo il quale l’autenticità sarebbe una réclame del neoliberismo tale per cui «essere autentici significa essere liberi da modelli di espressione e di comportamento precostituiti e stabiliti dall’esterno. Da qui viene l’obbligo di somigliare solo a sé stessi, e di definirsi solo attraverso sé stessi, di essere anzi gli autori e gli artefici di sé stessi», fino a divenire la performance di sé stessi, offrendosi come merce. La pressione dell’autenticità ha paradossalmente prodotto dunque un’ulteriore proliferazione dell’Uguale, la cui violenza, sempre secondo Byung-Chul Han sarebbe invisibile – o meglio solo a lui visibile. Byung-Chul Han accusa inoltre il digitale di promuovere «una comunicazione espansionistica, spersonalizzata, priva di un interlocutore personale, priva di voce e sguardo […] la comunicazione digitale mi mette in rete, ma nello stesso tempo mi isola. Essa annulla certo la distanza, ma l’assenza di distanza non genera alcuna vicinanza reale».

Certo, la sensazione di trovarsi in un mondo in cui trionfa l’Uguale, scritto e letto da altrettanti uguali, in un’atmosfera spersonalizzata, non favorisce né la motivazione dello scrivere né l’originalità della scrittura. Ma questo è in definitiva il conflitto da cui originano la scrittura e l’arte: superare l’Uguale, in termini sia di forma che di contenuto, per dire qualcosa di nuovo o quanto meno reputato tale. 

Lo psicoanalista tedesco Werner Balzer (Balzer, 2020) si spinge ancora più avanti nella sua critica al digitale, applicandovi la metafora di Bion del beta-schermo. Il beta-schermo, sostiene Bion (Bion, Wilfred R., 2013), si forma quando c’è una carenza di funzione alfa, della capacità cioè della madre (caregiver) di aiutare il baby a trasformare gli avvenimenti cui va incontro e le sensazioni fisiche che percepisce (elementi beta) in emozioni e pensieri, dando così avvio allo sviluppo psichico. Se dunque tale capacità trasformativa viene meno, non c’è più comunicazione tra il conscio e l’inconscio e si costituisce una barriera impenetrabile a qualsiasi esperienza emotiva significativa, il beta-schermo appunto. Balzer ritiene che il sovraccarico di stimoli provenienti dal digitale rappresenti un tale beta-schermo in quanto è costituito soprattutto da immagini che sono per noi, nei tempi accelerati del digitale, sensazioni indigerite ed indigeribili.

Siamo dunque vittime della tecnologia cattiva che impedisce la comunicazione tra l’inconscio e il conscio e dunque mina le basi stesse della nostra fantasia così come della nostra capacità di scrivere?

Si potrebbe ugualmente sostenere, come ho fatto (Castigliego, 2024), che con il digitale si è costituito in noi un inconscio digitale, inteso come l’insieme di affetti, pensieri, desideri che noi inconsciamente proiettiamo su Internet e sui social media così come degli stimoli inconsci che dal digitale vengono suscitati in noi, influenzando il nostro quotidiano. Tale inconscio digitale può costituire anzi nuova fonte di ispirazione per la fantasia e la scrittura. 

Mi sembra valga la pena allora di fare uno sforzo per superare il facile determinismo tecnologico secondo il quale la tecnologia ha un impatto unidirezionale per lo più negativo sull’uomo e sulla società fino al punto da attribuirvi anche il blocco dell’atto scrittorio. È piuttosto sul rapporto, o meglio sul venir meno del rapporto tra chi riflette/scrive e chi legge, che mi sembra vada volto lo sguardo. Anche il dialogo tra l’intellettuale e il potenziale lettore, la collettività, si è profondamente trasformato nel nostro tempo digitale, segnato più dalle connessioni che dalle relazioni. Mentre la comunità sembra trasformarsi sempre più in community, l’intellettuale sembra assumere i contorni di un influencer, i luoghi dell’incontro divenire sempre più astratti e i confronti sempre più rarefatti. Come recuperare una nuova relazione che dia senso allo scrivere? È esperienza comune che lo scambio di informazioni, qualunque ne sia il Medium, diviene relazione solo se accompagnato da un flusso di emozioni che fa incontrare, magari dopo un primo scontro, due persone o un’intera comunità. Se il rischio del nostro tempo più che la tecnologia è il narcisismo e il ritiro che lo contraddistingue per evitare ogni ferita, credo che la motivazione alla scrittura passi per una ritrovata relazione, peraltro sempre conflittuale tra chi racconta e chi ascolta. Forse ha ancora qualcosa da dirci la novella di Čechov, Malinconia (Čehov & Malcovati, 2010), che descrive il dolore di un povero cocchiere, a cui è da poco morto il figlio, di non poter raccontare ad alcun essere umano la propria pena. Tutti hanno troppa fretta e, presi dalle loro vicende personali, non stanno ad ascoltarlo. Alla fine non gli rimane che raccontare il proprio dolore alla sua cavalla. Noi abbiamo ChatGPT. 

BIBLIOGRAFIA

Balzer W. (2020), Das Sensorische und die Gewalt: zum Seelenleben im digitalen Zeitalter (Originalausgabe), Psychosozial-Verlag.

Bion Wilfred R. (2013), Apprendere dall’esperienza, Armando Editore.

Borgna E. (2024), In ascolto del silenzio, Giulio Einaudi.

Čehov A. P., Malcovati F. (2010), Racconti (13. ed), Garzanti.

Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente (2024), s.n.

Castigliego G. (2024), Le illusioni die social media, Mimesis.

Han B.-C. (2017), L’espulsione dell’Altro: società, percezione e comunicazione oggi, trad. V. Tamaro, Nottetempo.

Sigmund Freud (2012), Psicoanalisi dell’arte e della letteratura, Newton Compton Editori

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Ultimi articoli

Semplice: sono schiavi

Se guardi meglio non fai fatica ad accorgertene. Si tratta di nuove forme di schiavitù. È solo la nostra incapacità di vedere,...

Vedere con semplicità

Apparentemente semplice, la struttura fisiologica dell’occhio umano comporta un livello di complessità straordinario nella modalità di passaggio dal mondo esterno alla percezione...

Sulla difficoltà di essere semplici

DODICI VIRTÙ PER DIVENIRE UN PO’ PIÙ UMANI Sembra paradossale, ma essere uomini semplici non è facile. Per convincersene...

Semplicità della legge: un sogno illuministico?

Che cosa significa, per un giurista, semplicità? Siamo eredi della crociata condotta dall’illuminismo giuridico contro...

Semplicità

«Falla semplice». Me lo sono sentito dire molti anni fa da miei compagni di escursioni dolomitiche, quando ero studente universitario e volevo...