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Scrivere: rivoluzionario più che disubbidiente

Autore

Gianpaolo Carbonetto
Gianpaolo Carbonetto è giornalista e responsabile di programmi culturali e di formazione, studioso dei fenomeni più rilevanti della cultura e della democrazia.

La sala è la stessa e il protagonista è il medesimo che, nel frattempo, non ha perso né fama, né carisma. Eppure, fino a pochi anni fa quella sala sarebbe stata stipata anche oltre il limite di capienza, oggi presenta larghe chiazze di posti vuoti, se non è addirittura semideserta. Non è una supposizione, ma, tranne che nei festival più famosi e di moda, la desolante realtà che si riscontra un po’ dappertutto.

Si può tentare di attribuirne le cause al Covid che a molti ha tolto la voglia di uscire di casa, o a internet che potrebbe permettere di seguire gli avvenimenti in streaming, ma la realtà è che davanti a una sala semivuota si prova non solo delusione, ma anche un senso di sconfitta. E non solo perché si pensa a carenze organizzative e comunicative, a un argomento o a un oratore poco coinvolgenti, ma soprattutto in quanto si percepisce chiaramente un arretramento sociale, un momento di crescente disinteresse, sia per quanto ci circonda, sia per il futuro.

La stessa cosa, pur con modalità diverse, accade anche nello scrivere visto che gli organi di informazione su carta stampata sono praticamente in coma, e che, se si controlla il numero dei lettori di qualche testo diffuso in internet, ci si rende conto che la quantità di contatti (ammesso che poi al contatto segua la lettura), è inversamente proporzionale alla lunghezza dello scritto; e con percentuali che variano in progressione geometrica. Si sa che per elaborare un pensiero e renderlo pienamente comprensibile anche agli altri è necessaria una quantità di tempo adeguata. Ma sembra che ai più siano sufficienti gli slogan. E anche questo ingenera in chi scrive un innegabile senso di sbandamento.

È per questo che talora si sente la difficoltà, se non addirittura il blocco, nello scrivere e nel parlare proprio nel momento in cui sarebbe più necessario farlo, mentre ci si rende conto che per molti sembra decisamente più importante lo spazio che il tempo in cui si vive, perché il futuro per sempre più gente corrisponde quasi soltanto alla prosecuzione meccanica, quasi deterministica, di un presente in cui non vale più la pena di impegnarsi, quasi non si potesse far nulla per cambiare quello che avverrà, anche se in realtà possiamo fare molto scegliendo come agire nei microprocessi di gruppo che poi vanno a costruire i grandi processi sociali.

Ma sarebbe semplicistico limitarci a dare queste giustificazioni alla nostra stanchezza: non basta scusarsi accusando l’altrui indifferenza, né possiamo pensare di addossare tutte le colpe alle novità tecnologiche che hanno stravolto la nostra vita soprattutto, ma non soltanto, nel campo della comunicazione con i nostri simili. Sono anche altri gli aspetti che concorrono a metterci in crisi e, quindi, a bloccarci.

Se è vero, infatti, che, come diceva Krippendorff, l’insoddisfazione è il carburante dei progressisti e della sinistra, allora non possiamo dimenticare che spesso, se non sempre, fa in noi capolino la benedetta certezza di non essere del tutto imparziali, né perfetti e, quindi, ci si sente assolutamente lontani sia dal ruolo di “staccato osservatore”, sia da quello di “sapiente commentatore”. 

Questo comporta svariate conseguenze. La prima è che quando ci si appresta a scrivere o a dire qualcosa che non sia una normale chiacchiera estemporanea, si è portati a pensare e ripensare, a sollevare continue obiezioni a noi stessi, a non rispettare quella che prima era una moda e oggi è quasi una legge: rispondere subito a qualsiasi sollecitazione perché tanto, qualunque cosa si dica, tutto viene macinato e dimenticato in pochissimo tempo.

In un mare di parole dette e scritte che tendono a confondersi e a perdere attrattiva e, quindi, significato, tutti cerchiamo non solo di perfezionare al massimo i nostri scritti, ma anche di proporre idee originali che abbiano la capacità di calamitare l’attenzione di lettori e ascoltatori e questo diventa molto difficile e faticoso soprattutto se si pensa di dare alle proprie esternazioni cadenze fisse e frequenti in quanto non sempre la ricerca di idee che siano contemporaneamente originali, sostenibili e davvero utili può dare risultati. E se il ritmo degli interventi si interrompe, quasi sempre è ostico ricominciare anche perché ci si sente in colpa per l’interruzione e ci sembra obbligatorio cominciare con delle scuse per la temporanea assenza, anche se probabilmente nessuno se n’è accorto.

Ma se le cause delle difficoltà, o del blocco totale hanno importanza, ben più importanti sono le motivazioni che spronano a non bloccarsi perché il parlare, o lo scrivere per esprimere i propri pensieri sono di primaria importanza non tanto dal punto di vista individuale, ma da quello sociale.

La prima motivazione è di tipo educativo. I telefonini, i computer, i social ci hanno illuso di poter essere autosufficienti, ma in realtà ci hanno soprattutto sottratto il contatto con gli altri e ci hanno disabituato al confronto diretto aggravando ulteriormente una situazione che era già abbastanza grave in partenza, sin da quando la televisione aveva fatto capire che nei dibattiti l’importante non era più prevalere sull’avversario nel ragionamento, ma nel volume e tono di voce che, soprattutto se si sa di essere dalla parte del torto, permette di impedire all’altro di esprimersi. In questo senso è stato assolutamente meritato, ma anche stupefacente, il successo ottenuto dal rivoluzionario La torre di Babele di Corrado Augias, in cui due persone esprimevano il loro pensiero senza mai interrompersi a vicenda, e senza mai portare l’attenzione su altri argomenti per tentare di mettere in crisi chi la pensa diversamente. 

Inoltre gli approfondimenti meditati sono fondamentali per affrontare le complessità che sono tipiche di un momento in cui stiamo assistendo a un numero immenso di mutazioni e metamorfosi che a grande velocità stanno cambiando la società, la democrazia, l’ambiente, la guerra. E non possiamo sperare che il mondo cessi di cambiare soltanto perché a noi questo farebbe piacere, ma dobbiamo sforzarci di affrontare le novità e, se possibile, tentare di governarle, almeno parzialmente.

Infine, ormai dobbiamo renderci conto che il primo dovere di una democrazia è quello di difendere sé stessa e questo può essere fatto soltanto con l’impegno di ognuno di coloro che di quella democrazia vogliono godere.

Pensate ai regimi illiberali o a quelli che ambiscono a diventare tali, come il nostro attuale governo. Pensate al lungo elenco delle cose che stanno succedendo in Italia. Sarà perché sono giornalista, ma sono abituato a vedere che la maggior parte della gente non è contenta quando io e i miei colleghi facciamo domande e presentiamo obiezioni. Ma se questo è un fatto abituale, mi preoccupo molto di più quando vedo che una presidente del consiglio organizza false conferenze stampa alle quali è proibita la partecipazione dei giornalisti; quando assisto alla presentazione di querele velleitarie fatte soltanto per spaventare; quando sento minacce economiche di blocco della pubblicità agli organi di informazione che non sono annuenti; quando vedo presentare leggi in cui si prevede la galera, e con condanne di dimensioni tali da non prevedere la condizionale, per articoli nei quali fatti e commenti non sono quelli imposti da chi governa; quando sento che anche i colleghi delle testate più ossequienti minacciano di scioperare perché la censura è diventata eccessiva in un ambito che continua a voler farsi chiamare “servizio pubblico”; quando vedo cancellare un contratto già sottoscritto perché le parole di Antonio Scurati sul 25 aprile sarebbero state scomode per chi è a capo del governo e per i suoi fedeli; quando vedo Bruno Vespa invitare a un dibattito sull’aborto, argomento che interessa direttamente le donne, sei uomini senza prevedere alcuna presenza femminile; quando vedo attaccare la Costituzione per distruggere i diritti che vi sono statuiti.

Allora, a guardare i rischi corsi da coloro che ci hanno liberato dalla dittatura fascista ci si sente davvero piccoli e meschini se decidiamo di stare zitti e magari di non opporci nemmeno al momento del voto, per piccini desideri di tranquillità senza pensare che rischiamo di andare nuovamente verso la fine della democrazia. Se rinunciamo a essere noi stessi non potremo evitare di chiederci come abbiamo fatto a permettere di tradire così tanto quei sacrifici? Come abbiamo fatto a disattendere così tanto quelle speranze?

Resta una certezza. Bisogna leggere e ascoltare, e soprattutto scrivere e parlare, ma non più come semplice forma di disobbedienza civile, ma ormai quasi come atto rivoluzionario.

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