Formare individui o consumatori? La crisi del sistema scolastico

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Elio Proietti
Elio Proietti è un manager IT con una profonda passione per la psicologia e la cucina. Nel suo percorso professionale, Elio ha saputo combinare le sue competenze tecniche con un forte interesse per la comprensione delle dinamiche umane, applicando principi psicologici per migliorare la gestione dei team e l'efficienza dei progetti. Oltre al lavoro, Elio ama sperimentare in cucina, dove trova un ulteriore modo per esprimere la sua creatività e attenzione ai dettagli. La sua capacità di coniugare tecnologia, umanità e arte culinaria lo rende una persona unica e versatile.

Ogni giorno assistiamo a un progressivo indebolimento del sistema scolastico. Sempre più spesso la scuola viene vista come un semplice “parcheggio” per le giovani menti, anziché come un luogo dove farle crescere, maturare, sviluppare idee e pensiero critico.
In questi spazi, che dovrebbero essere dedicati alla formazione della persona, si intravede invece un nuovo obiettivo: trasformare gli studenti in futuri consumatori, addestrandoli più che educandoli, instradandoli fin da subito in una logica di produzione e consumo. Così facendo, si finisce per tarpare le ali al pensiero libero e creativo.
La scuola, intesa come istituzione educativa, è da tempo soggetta a un processo di “aziendalizzazione”. Un segnale evidente è l’evoluzione della figura del preside, oggi chiamato “dirigente scolastico”. Già il termine, per sua natura, richiama alla mente il manager, colui che deve far funzionare la scuola come un’azienda, ottimizzarne le risorse e “farla rendere”.
E in un’azienda, come si ottiene rendimento? Promuovendo il prodotto. Così anche la scuola si trasforma: si pubblicizza non tanto per ciò che offre in termini di crescita personale, ma per quello che promette in termini di “occupabilità”, ovvero: «Dopo questo percorso scolastico potrai lavorare qui, guadagnare là». Ma la scuola non è nata per questo.
Le sue origini, fin dai tempi dell’Illuminismo, affondano le radici in un’idea profondamente diversa: l’istruzione come strumento di emancipazione. Più una persona conosce, più sarà libera nelle proprie scelte. Non è un caso che, in passato, le masse ignoranti fossero facilmente plagiabili e sfruttabili dai pochi colti e ricchi.
Una scuola che forma cittadini consapevoli è una scuola che permette a ciascuno di orientarsi nella complessità del reale. E questo vale sia per le scelte più semplici, come mettere o meno lo zucchero nel caffè; sia per quelle fondamentali, come impegnarsi civilmente per una causa o decidere chi far governare.
Oggi, però, la scuola sembra accogliere sempre più le logiche aziendali: alternanza scuola-lavoro, competenze spendibili, valutazioni standardizzate. Quest’ultimo punto merita un approfondimento. Le valutazioni standardizzate partono da un principio di uguaglianza apparente, ma rischiano di ignorare le differenze individuali.
Facciamo un esempio: immaginate di porre davanti a un albero una scimmia e un bradipo, e poi di cronometrare chi riesce ad arrampicarsi più velocemente. Entrambi ne avrebbero, in teoria, la possibilità. Ma è evidente che la natura del bradipo non gli consentirà mai di competere al pari con la scimmia. E se, oltre al fallimento, al bradipo venisse anche fatto sentire che la sua lentezza lo rende inadeguato, il danno psicologico sarebbe inevitabile.
Ed è proprio su questo senso di inadeguatezza, naturale nella giovane età, ma aggravato da un sistema competitivo, che si costruisce il consumatore perfetto. Qualunque mancanza, fisica o psicologica, potrà essere colmata attraverso l’acquisto di un prodotto: un oggetto, un farmaco, una soluzione pronta. E così si continua, in un ciclo infinito, dove si starà bene solo fino alla prossima inadeguatezza che verrà suggerita dai media.
Si finisce per studiare solo per lavorare. E attenzione: non si tratta di sognare un mondo di letterati che non sanno allacciarsi le scarpe, ma neppure possiamo accettare un mondo di automi in carne e ossa, che lavorano per pagarsi la propria ricarica e poi tornano al lavoro come se fosse un eterno ciclo produttivo.
Tutta questa presunta “utilità” dello studio ha un effetto collaterale pesante: il disagio. Gli studenti si sentono intrappolati in un percorso che avvertono come inutile, privo di senso. E in un ambiente così spersonalizzato, anche i docenti perdono motivazione, schiacciati dalla burocrazia e da una logica produttivistica che mira a formare “studenti al minuto”.
La scuola si allontana sempre più dai reali bisogni dei ragazzi, e si avvicina invece alle richieste del mercato. I pochi insegnanti che ancora riescono ad accendere l’entusiasmo, a forgiare il pensiero creativo o critico, sono diventati rari, e spesso vengono ostacolati proprio dalle logiche che abbiamo descritto.
Ma non tutto è perduto. Esistono alternative. E’ opportuno tornare a pensare alla scuola come a un vivaio: un luogo in cui coltivare idee, pensieri, dubbi, ma anche conflitti personali e sociali. Solo così si può crescere davvero, come individui e come cittadini.
È tempo di rallentare, di riscoprire il valore del dubbio, di restituire centralità all’entusiasmo della scoperta. La scuola non può essere solo un trampolino verso il mercato, ma deve tornare a essere un luogo di crescita umana e comunitaria.
Perché una società che desidera cittadini consapevoli non può permettersi una scuola piegata al consumo.
È il momento di chiederci con onestà: che tipo di persone vogliamo formare?

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